Gerhard Merz
Guglielmo Manenti

Una giornata particolare

La mostra di Guglielmo Manenti “Pasolini. La rabbia” va a Scicli a Palazzo Spadaro dal 30 ottobre al 12 novembre 2022. Per l’occasione, l’autore ha preparato una serie di tavole che ricordano un viaggio di Pasolini a Scicli nel 1959.

Viaggiando per il Centro e il Nord di Italia, mi è capitato spesso di imbattermi in targhe commemorative dedicate al passaggio di Dante. Sembrerebbe che il poeta della Commedia abbia trascorso più tempo a peregrinare su e giù per lo stivale di quanto ne abbia dedicato alla scrittura. La stessa cosa può dirsi, senza tema di smentita, di Pier Paolo Pasolini. Specie in quest’anno di celebrazioni per il centenario della nascita, dappertutto si ricorda, allegando foto e testimonianze di prima mano, il suo profetico transito. Ne segue che, alla già lunghissima lista di quanti immaginano cosa direbbe, o farebbe, Pasolini nella situazione odierna, va aggiunta quella di quanti Pasolini lo hanno incontrato veramente, e si sentono obbligati a tramandare la memoria dell’incontro. Dovremmo forse dolercene o, seguendo alla lettera l’esempio dell’artista, provar “rabbia”? Non saprei proprio. So però per certo che ricordare il suo passaggio non è, e non può essere, un banale incentivo al campanilismo e all’autostima – per la serie: “Pasolini, lui sì aveva capito come fossimo importanti” – quanto piuttosto l’occasione di riflettere sulle sue motivazioni.

Nel caso della visita a Scicli del ’59, lo scopo è dichiarato. Pasolini viene invitato da Pajetta ad attirare l’attenzione sulle Grotte di Chiafura: come era possibile, nell’Italia del boom economico, imbattersi in trogloditi che vivevano col mulo? Certo, non potevamo aspettarci che il nemico giurato del progresso e dei suoi mali rimanesse impressionato dall’odore di letame. I trogloditi a Pasolini piacevano. Gli ricordavano la sua infanzia, sin troppo idealizzata: il piccolo mondo di pace e benessere in cui sognava tornare. Semmai non gli piaceva il presente, attestato, senza andare lontano, dai “cartelloni di film appesi alle pareti dei sassi”. Forse per questa ragione nelle salite di Scicli il nostro poeta riconosce il purgatorio: cos’altro si trova, terminata l’ascesi, se non il paradiso? In questo mondo invertito, in cui la profondità fa le veci dell’altezza, le grotte che egli avrebbe dovuto stigmatizzare sino a stracciarsi le vesti, sono appena accennate.

Da amante della contraddizione, Pasolini capisce subito che Scicli, questo paesone in forma di città, non è Matera, non è il luogo primitivo che avrebbe più tardi scelto per ambientarvi il Vangelo: è, piuttosto, lo scenario perfetto per un romanzo di Manzoni – penso ai “palazzotti di don Rodrighi sanguinari e assenti” – o, se si preferisce, per un episodio di Montalbano, con tanto di uomini in nero sulla pubblica piazza, processione religiosa e politica strillona. Ha fatto quindi bene, Guglielmo Manenti, a dedicare alla città, e non solo al regista, il presente itinerario. Pasolini, è vero, appare in tutti i quadri. Ma più come comparsa che come protagonista. Guglielmo avrebbe potuto presentarci Scicli con gli occhi di Pasolini. Ha preferito, però, evocare la sagoma del primo, e la seconda, come perfetti estranei. O così mi è sembrato. E se, per una volta, la giornata particolare del ‘59 in cui Pasolini visitò Scicli fosse solo il pretesto per un’immersione in Poesie a Casarsa, in Salò o in Petrolio, o per una passeggiata tra corso Garibaldi e il canale, sotto gli occhi di accigliati mascheroni?