Il Pokémon GO Fest è un evento che riunisce migliaia di “allenatori” (ovvero giocatori) e che quindi in un certo senso si pone come culmine della logica essenziale del videogioco Pokémon GO: lo spostamento. In effetti si tratta di un culmine distorto, in quanto gli eventi si collocano in una “scena situazionale” delimitata. Tuttavia, anziché muoversi nella propria città, come hanno fatto e fanno abitualmente, alcuni appassionati di questo videogioco dovranno viaggiare, per riunirsi e per l’“opportunità di scattare foto speciali, i giveaway e molto altro”.
Muoversi? Dato che probabilmente non tutti ne sono informati, ricordo: “Pokémon GO [pubblicato nel 2016] non è un gioco da smartphone come tutti gli altri: si tratta di un gioco basato sulla realtà aumentata, in cui lo scopo sarà quello di girare per la città puntando lo smartphone in alcuni punti, con l’obiettivo di esplorare il mondo virtuale per catturare Pokémon. Tieni infatti presente che per giocare a Pokémon GO è richiesto l’accesso al GPS dello smartphone e alla fotocamera. Il primo dev’essere sempre attivo per giocare, mentre la fotocamera può essere attivata manualmente su richiesta. […] Dovrai fisicamente camminare con il tuo dispositivo mobile in mano per incontrare nuovi Pokémon da catturare e, facendo tap su di essi, attivare la fotocamera tramite il pulsante Attiva la fotocamera per vederli magicamente comparire sullo schermo del tuo dispositivo e in tre dimensioni. […]. Per catturare un Pokémon, dovrai ora lanciare la tua Pokéball verso di lui e provare e riprovare fino a che non sarai riuscito nel tuo intento di catturarlo”.
Quanto appena segnalato si potrebbe commentare in molti modi. In ogni caso, le dinamiche quotidiane di questo gioco, nonché quelle dei suoi “eventi”, appaiono un clamoroso esempio di ibridazione fra tematiche proprie della vita d’ogni giorno e lo sterminato ambito (ancora non sufficientemente studiato) della cosiddetta gamification.
Noterò, senza approfondire il tema, che intanto si mostra evidente un nesso, o almeno un’analogia, con una questione emergente nell’intero plesso teorico-pratico della modernità, cioè il legame fra soggettivazione, “libertà” e arricchimento dell’esperienza mediante lo spostamento. Nella sua futilità “ludica” (non nonostante, ma proprio a ragione di essa), questo gioco fa ricordare la tradizione dei pellegrinaggi, poi l’apparizione ottocentesca del flâneur, poi ancora la “deambulazione surrealista” del ’24, la lunghissima “passeggiata teorica” di Walter Benjamin nella Parigi come “capitale del moderno”, e perfino la nozione di “deriva” elaborata da Guy Debord: “Il concetto di deriva è indissolubilmente legato al riconoscere effetti di natura psicogeografica e all’affermazione di un comportamento ludico-costruttivo, ciò che da tutti i punti di vista lo oppone alle nozioni classiche di viaggio e di passeggiata”.
Del resto, notava Rella commentando fra l’altro Le paysan de Paris (1926) di Louis Aragon, “L’immensamente grande della città – l’intrico delle sue strade e la pluralità delle sue mutevoli prospettive – obbligano il soggetto a percezioni parziali, a una atomizzazione dell’esperienza che non ha riscontro nella storia passata”.
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Pur nella sua brevità e incompletezza, la descrizione proposta qualche riga fa esibisce una connessione fra Pokémon Go e la “realtà” che ormai siamo abituati a conoscere e ad abitare: la dinamica del gioco infatti fa subito ricordare l’uso di un navigatore satellitare.
La nozione di “realtà”, da decenni bandita da qualunque discorso sull’arte e poi anche da qualsiasi discorso sulla realtà, qui ritorna prepotentemente in gioco. Per quasi tutti i giocatori di Pokémon GO i mostriciattoli individuati ed eventualmente catturati sono più reali di quanto siano moltissime notizie di cui informano mass media e media digitali. Quelle notizie potrebbero essere fake; il Pokémon che appare sulla panchina dei giardinetti o sul divano di casa, quel Pokémon invece esiste. Non importa se sia un disegno digitale, piazzato in un certo luogo anch’esso digitalmente calcolato per corrispondere alla realtà (mappa = territorio). È un disegno, lo sappiamo; eppure a suo modo è reale. È reale come e più d’una mappa. È reale come un selfie. Anzi, è un selfie della realtà.
L’apparato a cui da qualche anno affidiamo la certificazione del nostro esistere, quella protesi digitale stavolta non allude all’apparenza di chi gli delega il selfie, ma all’esistenza dell’esterno. C’è un Pokémon: quindi quel luogo esiste. E quell’esterno è in armonia prestabilita col nostro apparato digitale (non ci azzardiamo a scrivere: “con noi”. Noi, chi?). Andiamo in quel luogo: lì c’è il Pokémon. Ironicamente si potrebbe aggiungere: il nostro “progetto” è incontrarlo, in un certo qui e ora; lui, un Pokémon, è “gettato” in quel luogo. La tecnologia lo ha “gettato” in un certo “luogo”, all’esterno; tuttavia nell’atto della cattura quell’esterno si trasforma: il mostriciattolo “è mio”, diventa parte della “mia collezione” (collezione che mi appartiene / collezione di frammenti di “me”).
Il sapere/vedere che attorno a noi ci sia “qualcosa”, sia pure ovviamente un qualcosa ipotetico, è un formidabile farmaco per la “crisi della presenza”. Beninteso, farmaco nell’antico senso, un qualcosa che dà sollievo e allo stesso tempo intossica.
Perché si diffuse così rapidamente, l’avvelenamento da Pokémon Go, questo gioco-della-realtà? Di sicuro vi ritroviamo uno schema caratteristico di molti generi di videogioco, ovvero l’ossessione per la crescita dei personaggi (e la mutazione, in questo caso) – evidente sublimazione di due fenomenologie che vi trovano un’inquietante sintesi, cioè la mimesi del dramma adolescenziale e il leitmotiv consumistico-carrieristico della tarda modernità. La sociologia ha avuto buon gioco nel sottolineare la tendenziale adolescenzializzazione di tutte le fasce d’età. Come cantavano i Nirvana (Smells like teen spirit, 1991), nell’inferno adolescenziale il Singolo si sente “stupido e contagioso”: un piccolo mostro, appunto. Sensazione di deriva verso la condizione dell’essere mostri, androidi, replicanti che ormai attanaglia molti, di ogni età, e forse tutti.
In ogni modo, Pokémon Go si diffuse con velocità fulminea in primo luogo in quanto piacevole, “divertente”. Il Piacevole gode d’una pessima fama, sebbene sia essenziale in tempi di esaltazione del consumo. Infatti si cerca d’esorcizzarlo associandolo a qualcosa d’altro: all’Economico, all’Utile, al Sessuale, al Politico, al Didattico, allo Psicologico, al Produttivo, all’Affaristico, e talvolta perfino al Bello e all’Artistico. Non insisterò. Mi limito a osservare quanto la diffidenza rispetto al Piacevole entri in gioco là dove si discute dei giochi. Nemmeno il tardo surrealismo di Caillois fu esente dall’impulso a diluire il Piacevole, specifico dei giochi, nel farmaco della frenetica accoppiata maschera (mimicry) /vertigine (ilinx), associandolo quindi al crudele Gioco dei Poteri. (Per Caillois il nesso fra identificazione, mimicry, e più o meno parziale perdita dell’autocontrollo, ilinx, può diventare la via regia per la manipolazione – ovvero per quelli che Jesi chiamava “miti tecnicizzati”).
Ma concentriamoci sull’altro termine: divertente. Ammettiamo un presupposto: Pokémon Go ha un parziale isomorfismo con l’esperienza della “realtà” che ci è disponibile. (Da parte mia, suppongo che l’enorme e rapidissimo successo dei videogiochi sia legato al loro essere una “formalizzazione replicante”, disinnescata, delle nostre esperienze quotidiane). Da cosa diverte, Pokémon Go? Dal reale, forse, da quel reale di cui pure (sebbene in modalità irreale, dato lo statuto di mera immagine elettronica dei mostriciattoli) certifica l’esistenza? Supponiamo di dare una risposta affermativa. Quel gioco/non-gioco ci diverte dal reale. Lo mostra e lo distorce; lo indica e lo fa scordare. La piazza Tal dei Tali, nei pressi di cui ci siamo aggirati per anni e forse per l’intera vita, senza più vederla per l’abitudine, la Piazza Tal dei Tali d’improvviso è il luogo in cui risulta possibile piazzare una Trappola, o il luogo in cui sorge una Palestra.
Che idiozia, nevvero? Nei fatti, una sfumatura (almeno) sciocca e/o insensata caratterizza ovviamente quasi ogni realtà della nostra vita mediatica. Ma non insisterò su queste implicazioni: tentavamo di divertirci, ricordate? Ed ecco arrivano i mostriciattoli. Ci indicano il reale, a modo loro, col loro farmaco. Ci indicano dei luoghi in cui il loro reale si incontra col nostro (“armonia prestabilita”). Quei luoghi forse prima esistevano a malapena, per noi. Non erano propriamente luoghi, senza nemmeno aspirare alla condizione problematica ma in fondo nobilitante di nonluoghi. Luoghi ottusi, grigi, né qui né lì, né ora né mai.
Ma ecco, il gioco/non-gioco li mobilita. Li trasforma. Li diverte. Li trascende. Quel luogo opaco e grigio non soltanto esiste, di botto, sia pure in un modo così obliquo e allusivo (divertito) da farci dubitare della sua esistenza evidente; quel luogo grigio e opaco viene mobilitato, trasceso, è lui e non è lui, gli siamo vicini per quanto distanti possiamo essere o essere stati.
Quel “divertimento” dei luoghi è uno dei contrari dell’aura, che secondo la celebre definizione di Benjamin mostra la lontananza per quanto vicini si possa essere.
Il luogo mobilitato non è affatto la radura in cui troveremo quiete e disvelamento; giacché siamo mobilitati anche noi, ancora più chiaramente di quanto sia mobilitato il luogo. Mobilitati, gettati in una frenesia di azione inutile, distrazione concentrata, divertimento ineffettuale: non è ilinx, noterebbe Caillois, ma è certamente qualcosa di più d’una maschera del reale, dei luoghi, del nostro Noi (Noi, chi?) e/o del nostro apparato digitale.
Così come nel selfie non si mostra se non quello che si esibisce, inabissandosi perciò nell’assenza di profondità, questo gioco/non-gioco ci mostra vertiginosamente la frenesia del nostro essere mobilitati, in rapporto a luoghi trascesi, divertiti, mobilitati.
Noi (chi?) in rapporto col Reale, o con un Reale meno qualcosa, o con un Reale a cui s’è aggiunto un farmaco frenetico, concentrato di assenza, distratto dalla sua presenza eccessiva nella quotidiana, irrefrenabile “cerimonia del me/mondo” a cui siamo costantemente mobilitati.
P.S. Domanda retorica o ironica: è più “reale” una caccia ai Pokémon, o una “passeggiata” mediante Google Street View?
Note
Le due citazioni iniziali su “Pokémon GO Fest 2022 sono tratte dahttps://pokemongohub.net/post/event/pokemon-go-fest-sapporo-2022/ e https://pokemongolive.com/events/gofest-2022/.
La descrizione del gioco è tratta da https://www.aranzulla.it/come-funziona-pokemon-go-1010196.html.
Al legame fra soggettivazione, “libertà” e arricchimento dell’esperienza mediante lo spostamento ho dedicato un testo che apparirà fra breve, online, sulla rivista di filosofia“Vita pensata” Anno XII n. 27 – Settembre 2022.
La citazione di Guy Debord è tratta da Théorie de la dérive, in “Les Lèvres nues”, n. 9, novembre 1956, Bruxelles; ripubblicato in “Internationale Situationniste”, n. 2, dicembre 1958, Parigi; trad. it. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1993. Cit. in http://www.iuav.it/Ateneo1/docenti/docenti201/Borelli-Gu/materiali-/A-A–2015-/LETTURE-SO/Debord_La-teoria-della-deriva1.pdf.
La citazione di Franco Rella è tratta da Limina. Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano 1987, p. 125.
Sul “camminare”, fra gli altri cfr. Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino 2006.
Il riferimento a Roger Caillois è a I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine [Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, 1958], Bompiani, Milano 2007.
Sulle nozioni di “formalizzazione replicante” e di “cerimonia del me/mondo” rinvio al mio Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet, Macerata 2022.