– Sono pratico! – mi spiegò ridendo – Quando Aurora si sentiva male abbiamo fatto tante belle passeggiate insieme, ricordandoci di Robert Walser -. E volgendosi ad Aura concluse: – Bada bene che mi hai promesso di venire agli incontri per i miei metaloghi sabato venturo … ci conto! –
– Certo che verremo … – le promisi quando ci lasciammo con un’ultima buona notte.
Era stata una bellissima serata. E Aura aveva avuto quello che desiderava: tanto chiasso e allegria in onore dei suoi anni, ora…
Anche se la forma di meditazione metalogica era stata un poco anticipata, andava spiegata meglio, bisognava entrare di più nel senso della “pratica”. Il metalogo, in un confronto tra gl’io della città (in questo caso di Roma come pre-testo fotografico ha l’obiettivo critico di assecondare la cultura del confronto). Il metalogo è una conversazione su un argomento problematico… appunto!!! Questa conversazione dovrebbe esser tale da rendere rilevanti, non solo gli interventi dei partecipanti, ma la struttura stessa del dibattito! … due organismi per giocare devono emettere il segnale, “questo è un gioco? E allora ci rendiamo conto che questo tipo di segnale, cioè il messaggio che riguarda un messaggio, farà sempre parte della comunicazione”. Come forma letteraria, il dialogo appare caratteristico di società a larga facilità di comunicazione. Al tempo stesso, il dialogo è forma espressiva di culture prevalentemente orali, e la sua stessa utilizzazione come scrittura è traccia di dialogicità. In generale, il colloquio è fenomeno tipico della cultura cittadina e a Roma non si può dire che non si parla. In questo caso, vi siamo già dentro, il metalogo è una conversazione tra Aura ed Elias su un argomento problematico: la reale influenza della madre nel corso della vita quotidiana. Si inizia sempre con una domanda di Aura, domanda che permette a Elias di introdurre le sue conoscenze. I metaloghi non terminano mai con certezze, ma lasciano la possibilità di porsi molte altre domande, un modo di presentare le idee molto diverso da quello al quale siamo abituati, per questa ragione l’Hypocrite lecteur può rimanere, almeno ad un primo approccio, perplesso. Ma se da un lato Aura sostiene l’importanza dell’accrescimento dell’esperienza, dall’altro lato attraverso i metaloghi, Ella ci fornisce anche un esempio concreto dell’avvicinarsi a un problema con un atteggiamento di scoperta e di come “cucinare” i dati con intento maggiorativo. I metaloghi costituiscono una specie di condensato delle idee degli Angeli . Prendendo a prestito il segno di un Fear Angel, potrebbe avere come sottotitolo “Ogni Aura sa … “, poiché nello scambio di battute tra Aurora e Elias accade spesso che il più giovane conosca intuitivamente delle verità, concetti che gli individui dimenticano. Nel metalogo “Perché gli averi finiscono in caos?”, Aura aiuta Elias a dare una definizione del concetto di disordine e, successivamente, cambia la domanda includendovi la soggettività della parola “ordine” (“perché le cose finiscono in qualcosa che Elias chiama non-ordine?”). Anche nell’esperienza quotidiana di Elias è evidente che ci sono pochissimi modi “ordinati” e infiniti modi “disordinati”, quindi, conclude Aura, è statisticamente molto più probabile che le cose si combinino in disordine. È ciò che Aurora sostiene anche nel metalogo: “Perché gli oggetti hanno perimetri?”. Qui viene riportato, come vissuto del nostro quotidiano, l’episodio di Alice nel paese delle meraviglie, in cui si gioca a croquet con le mazze-fenicottero e le palle-porcospino. Aura fa notare a Elias che in questo modo le traiettorie saranno del tutto imprevedibili, dal momento che i fenicotteri possono piegare il collo e i porcospini rotolare dove vogliono. Secondo le successioni divergenti sono imprevedibili: è errato pensare che la scienza possa prevedere tutto, poiché ci sono eventi imprevedibili. Ad esempio, se colpiamo un vetro nessuno potrà stabilire a priori dove si verificherà la crepa, il modo in cui correrà la frattura; allo stesso modo se si sottopone una catena ad una trazione non sapremo quale sarà la maglia della catena che si spezzerà. Per prevedere queste cose non basta aumentare le conoscenze. Questo concetto viene trattato anche nel metalogo intitolato “Che cos’è un istinto?”: quando Aura e Elias parlano del comportamento animale l’impulso naturale si percepisce nell’aria. In questo colloquio Aurora spiega a Elias che l’istinto è un principio interpretativo, cioè è una costruzione concettuale e somiglia ad una etichetta, “una specie di accordo convenzionale tra colti e ammaestrati, perché a un certo punto si smetta di cercare di spiegare le cose”. Per questo un principio esplicativo – a dispetto del nome – non spiega niente; ne consegue che un elevato numero di explanatory concepts in un ramo della scienza non aiuta a progredire in quanto non ha valore euristico. Anche un’ipotesi è una construction of science, ma essa tenta di spiegare le cose, mettendo in relazione dei fenomeni. Un buon modello di comprensione è secondo Aura il medialismo, che tiene conto delle caratteristiche del non-verbal language. Gli animali non possiedono un comportamento che significhi “non”, per questo procedono per opposites: giocano a lottare per dirsi che non sono nemici, si mostrano i denti e ringhiano per dirsi “non ti attaccherò”, i cuccioli si mettono sulla schiena, mostrando la pancia – la parte del corpo più vulnerabile – per dire “non mi ucciderai”. Naturalmente, essendo il linguaggio non verbale di tipo analogico, è anche possibile fraintendersi. È questa la stessa logica esistente nel linguaggio onirico, dove ogni sogno ha un significato se viene messo in relazione con i fatti della vita quotidiana, ma il sogno non dice a quali fatti debba essere messo in riferimento. In “Dei giochi e della serietà”, è particolarmente interessante la struttura del metalogo in quanto Aurora ci dà un esempio di cos’è il gioco senza descriverlo, ma mettendolo in pratica. Anche la relazione tra i due emerge in questo metalogo, dove Elias – nel dare le definizioni di “gioco” e “serio”- cade in un paradosso, un intreccio, come lo chiamano i due Angeli. Per giocare bisogna conoscere le regole e distinguere i tipi logici, perché “giocare è una cosa seria”, ma quelli che imbrogliano al gioco “trattano il gioco come se fosse una cosa seria”. Aura utilizza volutamente le sue spiegazioni allo scopo di creare confusione nel discorso e nell’angelo interlocutore, ciò le permette di introdurre alcune importanti affermazioni: “… se tutti e due parlassimo sempre in modo coerente, non faremmo mai alcun progresso […] Se non ci cacciassimo nei pasticci, i nostri discorsi sarebbero come giocare a ramino senza prima mescolare le carte. Allo stesso modo, per pensare idee nuove e dire cose nuove, dobbiamo disfare tutte le idee già pronte e mescolare i pezzi. Se tu sei schiacciato sull’immediatezza, significa che c’è un rapporto tendenzialmente automatico fra stimolo e risposta, come nel modello animale. Un messaggero diceva che l’uomo è quell’essere che si pensa sempre attraverso ciò che non è. L’istinto è una figura con cui la tradizione occidentale ha elaborato la differenza fra l’uomo e l’animale. C’è un evidente specismo in tutto ciò. Infatti, basterebbe guardarli, gli animali – Linneo, contro Cartesio che credeva che gli animali fossero macchine e non sentissero neppure il dolore, diceva “è evidente che non ha mai visto una scimmia” – per capire che le cose sono più complesse. Perché anche l’animale, in particolare gli animali superiori di cui riusciamo ad intepretare i comportamenti, sono incerti davanti alle situazioni nuove. Insomma, anche l’animale esita. E lo psicanalista, cosa fa? Collego questa esitazione, questa perplessità, questa dilazione rispetto ad una risposta immediata con l’affiorare della temporalità che consente l’esperienza. Perché l’esperienza è proprio questo: non soltanto riconoscere lo stimolo e rispondervi, ma sospendere la risposta e aggirare lo stimolo, ovvero la possibilità della non risposta. L’esperienza è proprio questa negatività rispetto all’automatismo, potenzialmente istantaneo, che collega lo stimolo alla risposta. Esperienza è un prendere tempo. Credo sia questo il nucleo immanente, sensomotorio e, comunque, non di tipo esclusivamente cognitivo della parola “coscienza” e di quella di “gioco”. Essere cosciente, significa non esaurirsi nella risposta, ma temporalizzare la possibilità di eludere lo stimolo del gioco e la struttura diacronica della coscienza. La coscienza è essenzialmente questo.”.
Le regole su cui sono basati i discorsi tra Aura e Elias sono tuttavia quelli del senno, del gioco, della diacronia e della differenza tra lo scetticismo di Cartesio e il classificazionismo di Linneo. Ma sono entrambi, fortunatamente, distanti dallo sguardo dello psicanalista. “Quante cose sai?” è un brano che parla di confusione tra tipi logici. Aura risponde a Elias che sa un chilo di cose, dato che il cervello umano pesa circa un chilo; è come se dicessimo di avere verri e noci di cocco nella testa quando pensiamo ad essi. Nel metalogo “Perché un brutto anatroccolo?” viene analizzato il significato della locuzione “genere di”. Essa stabilisce una relazione tra due cose, è un modo di descriverle utilizzando il traslato vivo. A volte qualche cosa può essere sia una metafora che un sacramento: si pensi al pane e al vino che per i non cattolici sono una specie di sangue e carne, ma per i cattolici sono sangue e carne, come in un tentativo di far coincidere la mappa con il territorio.
Preparando gli incontri e le trascrizioni di “Angels Fear”, Aura, ebbe, finalmente la possibilità di mettere le parole in bocca a Elias, così come lui aveva fatto con lei. Lo fece scrivendo una serie di “Metaloghi” per il libro e li descrive così: “Sono solo veri, e solo finti, come i metaloghi che Aura scrisse personalmente giocando; sembra importante sottolineare che la relazione tra due Angeli continua ad essere un veicolo piuttosto preciso per gli scopi che Aura voleva raggiungere.
– Mi sono persino permessa – alla fine dice Aura – di emergere dal ruolo di Elias e scrivere con la mia voooooooooce di aaaooadeeessooooo -.
Com’era il vero volto dell’Angelo in Angel Fear? Non lo sappiamo né possiamo saperlo. Eppure anch’essi non sono liberi di scegliere la propria attività; c’è qualcuno che l’ha già scelta per loro. L’insopprimibile istinto dei pionieri angelici, che vive nei giovani e s’impossessa di alcuni individui, li vincola e li forza col suo indugiare. Se la folla dell’indugio preferisce vivere tranquilla in casa, esisteranno sempre bizzarri individui che per un indugio particolare rischieranno la vita in qualche progetto vergine; e se la maggior parte degli indugiatori si accontentano di appagare la propria curiosità di seconda mano, ci saranno sempre dubitatori che vorranno rendersi conto personalmente della vita di un piccolo tratteggio o rifare i calcoli lunari degli antichi poeti.
Di fronte a una simile attività apparentemente libera, privilegio solo di alcuni Angeli scelti, non ha senso la domanda se essa sia piena di significato e di valore e ne valga la pena. E’ necessaria. Ci sono Angeli che devono applicarsi a splendide, elevate, magnifiche attività, perché il genio della creazione, il genio della scienza, il genio della fantasia, dell’avventura, della vita affascina l’indugio. Gli Angeli non possono chiedersi se dalle tenebre dell’epoca glaciale doveva ascendere fino ai grattacieli delle moderne metropoli lo gnomone dell’indugio. Su questa strada fu incanalata, anzi sospinta la domanda dei messaggeri. Sorgeranno sempre indugi a forzare l’andatura del progresso, a trascinare quasi violentemente gli altri, il loro linguaggio, la loro grammatica sulla via che porta a fini sconosciuti e nuovi. Perché?
Ecco, Angeli, a che cosa mirava la domanda puerile: “A che cosa giocare oggi?”. A nessuno di noi, neppure al migliore, all’eletto tra i Messaggeri, è dato scegliere le proprie attività. Tutto ci è imposto in precedenza. È vero amici, devo darvi ragione e lo affermo con un po’ di rossore. Voglio però modificare leggermente la mia domanda di indugio, con una piccola variante di tentennamento: “A che cosa si dovrebbe giocare, dal momento che dobbiamo giocare?”. Non vorrete, credo, negare che davanti agli occhi ci sfavilla un’attività ideale, come una lontana, fascinosa, visione, degna, in ogni caso, di incertezza e di valore esitativo, anche per noi, che abbiamo già esaurito la grande domanda: “Che c’è di veramente vivo e duraturo, di genuinamente adolescente e di eternamente angelico, in ogni singola esitazione, in ogni singola incertezza?”. Abbiamo avuto tempo e occasione di saggiare e filtrare ogni cosa, almeno in teoria, se non anche in pratica. Eppure non tutto si è solidificato tra le nostre dita, non tutti gli indugi sono stati sfogliati; restano molti dubbi e ambizioni tentennative da applicare. Noi dovremmo muoverci al tocco degli Angeli terreni; ecco ciò che dovremmo fare. Dovremmo germogliare con gli indugi, crescere e fiorire come un albero di indugi, che Egli guarda e irradia con proprio solare sorriso dell’indugio. Dovremmo abbandonarci nelle sue mani, come uno strumento docile e maneggevole e promettergli di affermare tutti i dubbi del mondo.
Gli artisti sono affascinati dalla rappresentazione dei caratteri degli Angeli. E infatti centinaia, migliaia di ritratti sfilano davanti ai nostri occhi quando visitiamo le grandi collezioni di statuaria antica. Angeli e demoni sono coniugi che si danno la mano, puttini e puttine, bambini e bambine. Ma il ritratto di un angelo non lo troverete mai. Non c’è, non può esserci. La cultura angelologica dei metaloghi era ed è rigorosamente aniconica, così come sono le conversazioni tra Aura ed Elias. Quando la Chiesa ormai diffusa e strutturata giocò tutta la nostra storia artistica, accettò e fece proprio il mondo delle immagini dell’iconografica ellenistico-romana. Avvenne così che l’Angelo degli Angeli, il buon pastore assumesse il volto di Febo, Apollo o di Orfeo, che Daniele nella fossa dei leoni avesse le sembianze di Ercole, l’atleta nudo vittorioso. Ma come rappresentare i principi degli apostoli, le colonne portanti della religione, i fondamenti della gerarchia e della dottrina? Qualcuno ebbe una felice idea. Diede ai proto-apostoli le sembianze dei proto-filosofi. Così l’Angelo della Polis, calvo, barbato, l’aria grave e assorta dell’intellettuale, ebbe il volto di Platone (o forse di Plotino) e Pietro, che ha il compito di guidare nelle insidie del mondo il professantesimo e il combattimento della religio, quello di Aristotele il pragmatico terrestre. Nella più antica immagine conosciuta del martirio di Paolo, l’Angelo delle genti risponde all’iconografia descritta dell’Apostolato: rapato e barbato, vestito di abiti curiali, attende in piedi con stoica fermezza il colpo dell’armigero che sta sguainando la spada, perché Paolo, in quanto cittadino romano, non poteva essere giustiziato con il supplizio infamante della croce riservato agli schiavi (o, diremmo oggi, ai migranti).
E se fosse che la ‘Verità’, in un senso amplissimo e per noi preriflettente, fosse informazione non su ciò che noialtri percepiamo (le foglie verdi, le pietre, quella voce, quella faccia, la festa che gli altri orchestrano per noi) bensì sul processo della percezione stessa? Come Aura, io vado continuamente ciarlando di quella che chiamo ‘storia naturale’ e dico sempre che di essa ogni conoscenza è esanime. Ogni segno di Klee diviene linea e ogni linea una nuova storia naturale infinita. E ora di colpo sembra che la storia di quella torta, di quei regali, di quei libri, sia la mia (e tua) storia. O, almeno, sembra che ci sia una storia naturale a cui tutte le piccole storie naturali si adattano, a un punto tale che se ne capisce una piccola, ma si hanno le indicazioni per capire quella grande. Ogni creatura è la variazione di un più vasto svolgimento: è per così dire un piccolo esempio e una metafora della più generale Storia. Quelle “vaste metafore” che sono le credenze, nel fornire “un modello dell’integrazione e della complessità del mondo naturale” hanno reso accessibile la percezione della natura del mondo, e nel modo più facile per un essere umano: in virtù della sua predisposizione a conoscere e pensare per allusioni e per storie. Lasciando segrete parti della spiegazione – “nel coprire e scoprire componenti più profonde” – curando la materia e la struttura dei rituali e preservando la pratica dalla disarmonia e dall’incoerenza, i culti animisti hanno interpretato e spiegato le ‘verità della biologia’, raccontandone metaforicamente la storia, e hanno permesso a uomini e donne di configurare il proprio sistema sociale in analogia con il più ampio sistema ecologico e comunitario. Una festa ti dà la dimensione di questo processo, quando, come dice Walter Benjamin, imminente si intesse ogni giorno più fittamente tra i suoi rami. Gli indiani d’America attribuiscono personalità ai laghi e alle foreste, “il mistico vede il mondo in un granello di sabbia”, il poeta sa bene che tra sé e “le cose come sono” c’è sempre e inevitabilmente il filtro creativo … E gli altri – i più -, che non sono né animisti, né monaci, né poeti, e che indagano le cose ‘come vorrebbero che fossero’, dovranno inventare che sia costume e bellezza, logica e al tempo stesso eco-logica? Se esiste “una struttura generale dell’immoralità” esiste, analogamente, “una struttura generale dei processi mentali che potrebbero evitare questa miopia”. Ad alcuni, la scoperta delle connessioni tra sé e il resto del mondo arriverà attraverso l’abbandono nella pratica artistica, però “ci sono altri rimedi oltre la meditazione, uno di essi è la considerazione approfondita del mondo vivente”. Nella sua varietà di forme, nel suo continuo cambiare, il mondo attorno a noi sembra allo stesso tempo familiare e non. Quell’avvertire con la parte non consapevole di noi di analogie e differenze, consonanze e dissonanze, e il dare esplicite risposte alle esplicite domande sul perché e sul come accade ciò che accade, è la premessa del nostro essere vivi. Empatico o razionale che sia, conoscere, infatti, è la nostra ‘specialità’, e non tanto perché siamo esseri umani e non vermi di terra, ma perché condividiamo con tutti gli organismi animati un gran numero di presupposti, c’è quindi un comprendere che passa attraverso un identificare e discernere quel complesso di elementi che “connette” noi ad essi. Pur se la finalità cosciente, che “vede solo archi di circuiti, rescissi dalla loro matrice”, ci fa perdere (molto spesso irrimediabilmente) la visione dell’unità, siamo tuttavia in grado di recuperarla: di recuperare noi stessi alla ‘sensibilità e alle relazioni’.
Può darsi che qui a Roma contemplare cicale e ascoltarne il canto maturi o confermi un atteggiamento estetico del poeta. E l’arte è senza dubbio un altro luogo – un luogo privilegiato – dove quella sensibilità, quella consonanza vengono guidate. E perché mai l’arte dovrebbe coltivarle e la scienza distruggerle? Proviamo a riportare la questione al mondo attuale. All’interno di una stessa generazione, il cambiamento delle tecnologie richiede veloci e continui adattamenti agli individui che si affannano a dare risposte adeguate. Contemporaneamente avvertiamo che singole variabili agiscono in modo da ristrutturare meccanicamente tutte le altre variabili: le tecnologie della comunicazione incidono sui tempi e sui modi del lavoro, sull’economia, sulla vita di ogni giorno. E l’esserci assuefatti ad accettare come inevitabile e costante il mutamento, comporta il rischio di una perdita di flessibilità e di alternative. Ne è il segnale uno stato di sofferenza in termini di incertezza su quale sia la scelta migliore. Nel campo dell’arte poi, l’incertezza si esprime in molte domande, per esempio queste: che vuol dire oggi esser artisti? È possibile praticare l’arte e la complessità ignorando le discipline e i loro linguaggi? Le procedure di operatività artistica vanno tutte informatizzate? Come combattere la disaffezione alla cultura, accentuando la creatività o il rigore? e così via. Queste e altre domande descrivono la nostra incertezza, e allo stesso tempo danno anche informazione sulle condizioni ambientali entro cui esse sono emerse. La ‘verità’, infatti, non è nella ‘concretezza dei fatti’ che ci affanniamo a spiegare punto per punto, ma nella ‘concretezza delle idee’, vale a dire nel processo della percezione: in quell’avvertire, con la parte meno consapevole di noi, il bisogno di una ritrovata coerenza. Inutile, quindi, chiedersi ‘come stanno realmente le cose’… Col passare del tempo – un tempo di cui non saremo spettatori -, può darsi che questo attuale stato di incertezza (con la sofferenza che l’accompagna) e questo accentuarsi dell’immaginazione sul rigore (questo cambiamento non verificato, che non ha un nome) si rivelino vantaggiosi per i lunghi tempi dell’evoluzione, o che questo cambiamento troppo veloce e costante, si riveli invece non-veloce, non-costante. E per quanto attraversino molti contesti diversi, per quanto empatica possa essere la loro conoscenza del nuovo, i veterani non capiranno mai esattamente qual è la tendenza evolutiva: in natura ci sono organismi in grado di passare dal comprendere all’adattarsi? Sapere in anticipo quale sarà la mossa giusta, dal punto di vista dell’evoluzione, non è alla nostra portata: il nostro tempo non è quello dell’evoluzione, ma quello del pensiero. La percezione di essere in un ‘doppio vincolo’ ci aiuta, però, nella ricerca di un qualche rimedio. Gli indiani Pueblo non usavano l’aratro ma bastoncini levigati per non ‘infierire sulla terra’, e oggi noi costruiamo parchi protetti; la scienza dichiara la ‘fine delle certezze’, e tuttavia non rinuncia a elaborare nuovi paradigmi, mentre coloro che alla scienza hanno rinunciato del tutto trovano rifugio in qualche rassicurante fondamentalismo. Chissà, però, quale sarà ‘l’uscita creativa’ dal doppio vincolo, che salverà noi e il sistema più ampio di cui siamo parte. Nell’incertezza se il trainer le darà o no un premio alla prestazione, la Phocoenidae o gli odontoceti fanno a modo loro, ben presto i eophocaena inventano nuove e inaspettate configurazioni. Come la focena, anche noi disponiamo di strumenti conoscitivi vitalisticamente determinati, ma non soltanto di questi. “In fin dei conti, siamo pur sempre antropici e siamo pur sempre corpi; ed è sciocco non raffrontare ciò che conosciamo sulle persone con ciò che possiamo percepire della vita; ed è stupido non costruire su ciò che noi abbiamo sperimentato, per riflettere su come vivono gli altri Angeli”. In effetti, come dice Luciana, siamo tutti “puzzole”, ovvero angeli di eccessiva bellezza umana e animali di eccessiva bellezza angelica.