Nota: I metaloghi sono tornati di moda e non solo come fenomeno di commento alle pratiche artistiche. Ma cosa rappresentano precisamente per il metaverso? Ce lo spiegano le “parole ritrovate” di Gabriele Perretta in questo testo che aggiorna una versione già esistente e congelata nel cassetto di una scrivania o nell’archivio di una e-mail bloccata per ragioni conflittuali. L’autore come produttore, per usare una felice definizione di Walter Benjamin, illustrando in queste pagine le varie dialogicità fornite nei diversi periodi della scrittura e della ricostruzione di questo brano, ha potuto ritrovare la relazione strutturale con uno dei suoi più cari affetti familiari. Quella che viene qui offerta al lettore è così un’immagine chiara della crescita dell’affetto come crescita di un metalogo, storicamente attendibile e articolata, di una tra le figure della propria discrezione più suggestive. La ricostruzione del testo si riferisce ad una prima versione che rimane datata al 2003/04.
L’incertezza di vestirci per la festa in costume fu un gran divertimento. Aura faceva la pazzerella, non finiva di ridere e scherzare mentre pensavamo come abbigliarci nel modo più strano. Aurora mise gli orecchini più lunghi che possedeva: come le piacevano i clip a pendente! Si posò in capo il cappellino di paglia legandolo con un nastro sotto il mento e infilò la mia giacca da spiaggia a righe chiare e bordeaux. Poi prese a saltare sulla bicicletta, e non finiva di chiedermi se aveva l’aria abbastanza sciocca. Altro che, se l’aveva. Gli angeli a volte appaiono insensati, per aprire la strada alla trance. Secondo Thomas Szasz: “Lo sciocco non perdona e non dimentica. L’ingenuo perdona e dimentica. Il saggio perdona,esita, ma non dimentica.” Comunque, anch’io non fui da meno, con una tunica arricciata e vaporosa, un berretto di lana con una barchetta cucita in cima e pantaloni attillati. Vennero la nostra amica Antonia dai capelli rossi e la distinta signora Delenti, amica di Luciana. Luciana le aveva invitate perché eravamo sinceramente affezionati a tutte e due, ma anche perché tutte e due erano rimaste vedove di recente, e Luciana diceva che una piccola festa avrebbe fatto loro bene. Entrarono ridacchiando e vergognandosi un poco degli sciocchi travestimenti che avevano adottati, e Lu… si rallegrò sentendole ridere perché era ansiosa di trasformare le loro domande e la loro preoccupazione della verità in letizia conviviale, che piacerebbe tanto ai Fear Angels di Gregory Bateson. Gli altri ospiti ci aspettavano nell’appartamento di Marco. Appena varcammo la soglia rimasi sopraffatta da quella dimostrazione di gentilezza e di affetto. Le intervenute erano più che altro giovani donne come me, che erano ritornate a Roma per studiare la presenza degli Angeli nell’evoluzione storico-artistica della Capitale! Avevano lavorato tutto il giorno, ma eccole travestite in maniera fantastica, pronte sull’ingresso a gridare: “Tanti auguri, Aura, cento di questi giorni!”. Il salotto era tutto vivacizzato di palloncini colorati e sulla tavola centrale vi era una grande zuppiera piena di macedonia di frutta e una grossa torta quadrata con sopra disegnato il nome di Aurora, e tutto intorno i variopinti pacchetti di doni. E stemmo un po’ seduti a fare dei giuochi, e poi venne il momento che Aura aprisse i suoi pacchetti. Come le brillavano gli occhi di gioia! Ma per quanta fretta avesse di vedere ciò che si trovava in tutti quei pacchetti, notai che a ogni nuova scoperta si fermava, esitava, così come esitano gli Angeli, apriva il biglietto e leggeva tutto il messaggio, poi si volgeva a ringraziare la donatrice ancor prima di lacerare con le mani impazienti la carta dell’involto. Notai pure che nel mucchio dei doni vi erano soprattutto libri e software di aggiornamento per il lavoro al computer. Aurora, è vero non era più giovanissima, insomma era un angelo asciutto e quindi gli riuscì bene di trovare testi di filosofia, saggistica scientifica e soprattutto materiali per la conoscenza dell’epistemologia del sacro, come la chiamava Bateson.
«Non irritatevi subito, amici, se mi rivolgo a voi con questa domanda puerile. So ciò che voi pensate: ”Credete che siamo ancora dei ragazzi e ragazze o che si abbia il tempo o anche solo la voglia di esitare? Dipende da noi o da un nostro capriccio stabilire quello che c’è da fare?».
Quando mai si può iniziare una giornata con una domanda così incerta, così esitante, così tesa e così colma di attesa? Gli Angeli sì, quando hanno respirato bene e fatto un buon volo messaggero, possono chiedersi piacevolmente: – A che cosa esitiamo oggi? – Ah, questi Angeli!
Lo so, amici Angeli; da lungo tempo non ci troviamo più in queste invidiabili condizioni. A noi, il contenuto della nostra giornata è assegnato e fissato in anticipo, ora per ora, pezzo per pezzo, libro per libro. Il nostro lavoro quotidiano, la famiglia dei Messaggeri, la cerchia dei conoscenti e di artisti, gli impegni sociali, le esigenze, le necessità e i bisogni materiali, tutti questi inflessibili e inderogabili flaneurs di un invisibile medialogo, ci allineano davanti una interminabile schiera di incombenze, alle quali è giocoforza arrenderci, rilasciarci nelle stesse esitazioni.
Non può bastare né un giorno né una settimana intera. È già molto se a fine settimana possiamo azzardare timidamente questa domanda: «Posso oggi finalmente concedermi un po’ di libertà, un po’ di svago dalla tensione ad indugiare, al rilassamento, all’abbandono?»
Così non arriviamo mai ad esaurire in pieno quell’interrogativo profondo: «Che cos’è veramente importante? Che cosa deve fare un soggetto che esita, perché le sue azioni siano piene di contenuto e di valore?»
Supponiamo, per esempio, che per alcuni anni potessimo essere interamente liberi, in modo da poter scegliere e ordinare personalmente le nostre azioni e le nostre attività. Non avremmo certo molto da pensare; ognuno di noi avrebbe subito pronta un’occupazione o un lavoro preferito, con cui riempire quegli anni di libertà. C’è chi vorrebbe scrivere un libro o dipingere un quadro, chi coltivare un grazioso giardino attorno alla sua dimora, in qualche verde appezzamento di terra; altri vorrebbero fare un’invenzione o una scoperta scientifica di urgente necessità, oppure compiere un viaggio nell’atmosfera, o tentare per primi la scalata verso l’esitazione di qualche colossale montagna di perplessità. Quanto a me, amici Angeli, vi confesso schiettamente: non vorrei fare altro che comprendere perché gli Angeli esitano e dove esitano; o, almeno, non vorrei prestabilire nulla che non fosse la soglia dell’esitazione stessa. Così, in questi anni di libertà, immaginati in fantasia, ci troveremmo completamente assorbiti e occupati dall’indugio. Forse però, per quanto numerosi, essi non basterebbero a farci concludere, dopo le più deliziose sorprese e gli inevitabili ostacoli, che nulla di tutto questo ci soddisfa veramente, è importante o ci appaga. Forse non arriverebbe – l’ho già detto – a quella profonda e acuta domanda: “Quale indugio è veramente importante, libero, necessario? Che deve fare un Angelo per tenere fede alla propria dignità, alle sue esigenze di vita, alla sua fame di spiritualità? Che cos’è che ha valore?”.
Io credo, miei amici Messaggeri, che in questi anni di indugi noi vorremmo immergerci nelle attività che sembrano offrire libera scelta ed impegnarci in esse con assiduità e, malgrado l’incipiente incertezza fra successi e insuccessi, senza mai chiederci: “perché cercare il motivo per cui gli Angeli esitano?”. Non vorremmo neppure sollevare tale domanda, dal momento che una simile attività non è veramente libera. Scopriremmo di essere già in qualche modo determinati, chiamati, persino trascinati, non da una forza esterna, non dall’ambiente o dall’organizzazione, ma dal proprio timismo, da un misterioso impulso insito in noi e che schiva le immagini, che però trae origine fuori di noi e scaturisce da profondità segrete, e si rivela in impercettibili parole di esitazione: nostro indugio. Possiamo ritenere che siano più liberi quei poeti fortunati che avvertono in se stessi un prepotente bisogno di fonetica ed hanno la piena capacità di soddisfarlo richiamandosi alla propria parola? In esso è l’impulso di creare un’opera d’arte, o di cercare una lontana parola, luminosa verità in qualche remota parte della lingua, nel vasto campo della grammatica, oppure hanno una missione da compiere per il bene stesso della performance (esitativa) degli Angeli o di un messaggero; portano in sé l’insopprimibile esigenza di scoprire nelle forme dell’esitazione uno sconosciuto senso dell’esperienza, o di mettere a punto un viaggio irrealizzabile per un volo interplanetario; sentono di doversi logorare su qualche tentennamento di matematica, o dietro ad un manoscritto perduto. Comunque, dipende sempre da un appello intimo quell’attenzione esterna e quel favore del caso per cui è concesso loro di realizzare la propria segreta volontà, anno per anno, per tutta la vita. Possiamo raffigurarci che questi Angeli esitatori siano più felici, perché sembrano liberi e sciolti da ogni vincolo dell’obbligata poesia?
La Scrittura si riferisce ripetutamente al dono del soffio vitale, considerandolo come necessario per conoscere. La ricerca della sapienza è allora un atteggiamento imprescindibile. Il presupposto perché questa ricerca possa iniziare è la consapevolezza di non possederla. Dal canto suo, la sapienza è desiderosa di donarsi e ha preparato un banchetto per nutrire coloro che la desiderano. A questo banchetto sono invitati tutti senza distinzione, perché l’invito risuona nei punti più alti della città, ma risponderanno solo coloro che pensano di non avere ancora trovato la sapienza e sono perciò perennemente tesi nell’ascolto. Coloro che si credono già sapienti ascoltano ma non apprendono, mangiano ma non assimilano. Rimangono perciò sempre fermi al medesimo punto e non progrediscono oltre. Il beffardo ricerca la sapienza, ma invano.
Il dono della sapienza procura tutti i beni, ossia il bene per eccellenza che è l’amicizia: “Sebbene unica la sapienza può tutto, attraverso le età entrando nelle anime forma amici e profeti. Nulla infatti si ama se non chi vive con la sapienza”. Stando così le cose, la sapienza va cercata al di sopra di tutto, essa stessa è la prima via di ricerca. E così: “Ricercai assiduamente la sapienza”. La seconda via di ricerca è l’ascolto. E così: “Ascolta, figlio mio, e sii saggio”; “La dottrina dei saggi è fonte di vita, tendi l’orecchio e ascolta le parole … “.
Insomma, c’è sapienza e sapienza, indugio e indugio,tentennamento e tentennamento, indecisione e indecisione, dubbio e dubbio, esitazione e esitazione, perplessità e perplessità, titubanza e titubanza, irresolutezza e irresolutezza, indugio e indugio, ma mi dava un tale senso di incombente separazione vedere Aurora così adulta. Penso che sia un sentimento comune a tutte le ragazze romane. L’allegria crebbe dopo che l’ultimo pacchetto di libri fu aperto, perché ci mettemmo a combattere a colpi di sfogliacarte. Non avevo mai visto Aurora così vivace … come se avesse voluto rifarsi del tempo perduto, oppure del tempo che non sarebbe mai stato suo, magari del tempo dell’indugio! Finita la battaglia e ritornata la pace, passammo in cucina. Aura venne sospinta davanti alla torta di compleanno, tra risate e session di fotografie al flash. Quando tutti gli ospiti furono forniti di cibo a sazietà, l’atmosfera diventò tranquilla e venne all’improvviso l’ora di tornare a casa. Era stata una festa meravigliosa, ma tutto deve finire, e anche i festeggiamenti per i venticinque anni di una giovane donna romana giungevano alla fine. Una delle amiche insistette per spingere la lettura di un libro, e ci riuscì, anche se non era tanto un libro ma piuttosto una raccolta di metaloghi …
È vero che parlo qui di me soprattutto attraverso i metaloghi. Mi sono identificato con l’opera che ho prodotto, è lei che mi tiene. All’Università di Parigi, ormai più di trent’anni fa, Felix Guattari, mi aveva rivolto questa domanda: «Hai un gioco da fare …»? Il mio gioco, allora era il metalogo. Facevo il metalogo con gente che aspirava alla narrazione. Questo ha rassicurato tutti sul mio equilibrio mentale. Ma, già allora, per la seconda volta nella mia vita, l’inconscio non mi lasciava più … Attualmente mi sono tuffato in Robert Walser, attraverso Gregory Bateson. Quel che vi cerco è un tema che, in effetti, si maschera, quello della pulsione creativa stessa nel metalogo e nella passeggiata. Robert Walser, scrittore, nato Biel (Berna) nel 1878. Acutissimo osservatore dei particolari, apparentemente inoperosi, di ambienti e rapporti umani, che egli ricompone in un enigmatico tutto dove gli aspetti più banali dell’esistenza quotidiana vengono portati ad essere i fondamenti della vita stessa. I protagonisti dei suoi romanzi sono personaggi che conducono un’esistenza insignificante, attraverso i quali Walser descrive il vuoto e il non senso della realtà. Walser si è guadagnato da vivere esercitando mille mestieri: apprendista di banca, commesso di libreria, copista e domestico. Nel 1929, deluso dal mancato successo delle sue opere, e vittima di crisi depressive, torna definitivamente in Svizzera dove viene ricoverato in una clinica per malattie nervose di Berna. Da quel momento, per 27 anni, vivrà sempre in case di cura, in solitudine e rinunciando anche a scrivere. Muore la mattina di natale del 1956 durante una passeggiata solitaria. La passeggiata (1919) è uno dei testi più riusciti di Walser, essa ha un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e abbandonata agli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era – che abbraccia amorosamente ogni particolare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del solitario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo. In un dècor di piccola città svizzera, e della campagna che la circonda, Walser ci guida, con la sua disperata ironia, con la sua sacrosanta esitazione, in un labirinto della mente, abitato da figure disparate, dalle più amabili alle più allarmanti. Il libro, tutti i suoi libri, sono una sorta di “diario” dove Walser appunta le vicende di un intera giornata di cammino tra le strade della sua Svizzera. La sua è una passeggiata lenta che gli consente di scoprire, incontrare, esitare, osservare luoghi che suscitano in lui un tale interesse da descriverli dettagliatamente, soprattutto in modo critico e dubitativo. Vi sono molti incontri lungo il cammino, tutti personaggi particolari e diversi, con i quali si denota il suo carattere esuberante. Non è una persona “timida” anzi si butta alla scoperta, alla ricerca di un contatto spirituale con le cose e le persone. È un persona dal fare molto cortese, soprattutto nel linguaggio grazie al quale sa essere deciso e pungente. Siamo in estate, verso tardo pomeriggio cade una leggera pioggia e in lui riaffiorano ricordi. Sembra dalle parole una persona molto infelice della sua vita, ha perso la sua donna amata e trova sollievo nel passeggiare e lasciar scorrere le parole sulla carta. “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto”. L’incipit: “Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada. Sulle scale mi venne incontro una donna dall’aspetto di spagnola, di peruviana o di creola, che ostentava non so quale pallida e appassita maestà. Per quando mi riesce di ricordare, appena fui sulla strada soleggiata mi sentii in una disposizione d’animo avventurosa e romantica, che mi rese felice. Il mondo mattutino che mi si stendeva innanzi mi appariva così bello come se lo vedessi per la prima volta. Tutto ciò che scorgevo mi dava una piacevole impressione di affettuosità, di bontà, di gioventù. In breve dimenticai che fino a poco prima, su nella mia stanzetta, ero rimasto ad almanaccare tetramente su un foglio bianco. Mestizia, dolore e tutti i pensieri cupi erano come scomparsi, sebbene continuassi a percepire acutamente, dinanzi e dietro di me, una certa nota grave”.