Giovanni De Lazzari. Foto Andrea Rossetti.

Trappola e nido: Giovanni De Lazzari

““Agire con povertà di mezzi (un foglio e una mina) per me è fondamentale; ciò a cui mi ispiro sono i resti delle cose, in particolare quello che rimane di forme vegetali che per me richiamano la complessità inesauribile della natura. Cammino a lungo, e mi capita spesso di pensare che se sommassi tutte le linee che finora ho prodotto con la mia mano qualche chilometro dovrei averlo fatto, perché il disegnatore percorre le vie che traccia (mentre le traccia).” Così Giovanni De Lazzari in margine alla sua personale Resti, a Ragusa sino al 21 gennaio 2023 presso lo spazio Clou, in collaborazione con Laveronica Arte Contemporanea. Lo abbiamo intervistato per Segnonline.

Piccolo è bello: il tuo disegno può intendersi come un’apologia del minuscolo, se non del microscopico. Da cosa deriva questa scelta? 

La piccolezza non deriva da una scelta ma da un’attitudine; corrisponde a un attributo emotivo, a un modo spontaneo di definire le idee nello spazio (e per spazio intendo tanto la pagina di un taccuino quanto la parete di un edificio). 

Piccolo è anche, in un certo senso, sinonimo di frammento: l’integrità della visione è perduta per sempre?

Per me l’unitarietà della visione è nel frammento; intendo dire che ogni immagine è sempre composta di più immagini, le quali corrispondono a dettagli (anche certa pornografia pubblicitaria, per esempio, può contenere uno o più particolari che, se tolti da dove sono, possono persino essere significativi e formalmente rilevanti). 

Scrive Calvino, nelle sue Lezioni Americane: “Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Potremmo scriverlo in esergo alle tue opere che si leggono, come un libro, o un mosaico litostrato, dall’alto verso il basso?

È proprio così: leggerezza, intesa come parte affiorante di una profondità sulla quale galleggiare serenamente… ma solo dopo avere onorato le proprie inquietudini.

Alla levità richiesta a chi fruisce corrisponde, forse, l’esilità del segno. E tuttavia la materia è sospesa tra il tragico e l’idillio: due serpenti si amano, ma potrebbero anche uccidersi; una mano riscalda un uccellino, ma chi ci dice che non voglia soffocarlo?

Sì, in certi esempi di possesso c’è un’ambiguità che corrisponde alla sua forma, e ciò che osservi è un crocevia di sentimenti che esprime violenza e insieme delicatezza. Questa condizione, quando è espressa con immediatezza, mi affascina perché lo sguardo può confondere la libertà con la costrizione o l’amore con la morte.

Anche i tuoi boschi sono insieme trappola e nido: un rifugio e, al tempo stesso, un labirinto, da cui forse non usciremo vivi.

Il bosco equivale all’individuo: quello che osservi di lui non corrisponde a ciò che custodisce o nasconde. Osservo i boschi prima di attraversarli, poi penso che ogni animale che vive al loro interno sia un pensiero diverso di una mente ramificata… Così, il corpo di una persona è preludio della psiche e delle sue bestie.

Il bianco dei tuoi fogli tende a confondersi con le pareti, coi fondali. Sbaglio o, più che alla storia, sei interessato al vuoto, al nulla che si appresta a cancellarla?

Credo che il bianco, così presente nei miei lavori, sia un’esagerazione di luce intorno a un insetto, o la condizione visiva con la quale mi stupisco maggiormente quando mi sorprende qualcosa (come, appunto, un insetto variopinto su una parete bianca).

Nel pensiero orientale, e anche in certa mistica cristiana, il nulla non è negativo – solo un’assenza – ma uno stato desiderabile, che porta a una consapevolezza più profonda: il vuoto, proclama una delle Upanishad, è lo stesso della gioia.

Il vuoto, nel mio caso, è la condizione che determina l’evidenza dell’immagine o la sua mancanza; in ogni caso, è il presupposto di un’attesa. Del nulla, invece, per me esiste solo la parola ‘nulla’.

Il disegno è una tua esigenza vitale. Come scegli i tuoi soggetti, e come li sviluppi? Immagino, a giudicare dalla pulizia dei lavori, che essi abbiano una lunga gestazione. 

Procedo in due modi: se devo disegnare grovigli, per esempio, esco e camminando li cerco fra l’erba; se invece mi dedico a soggetti immaginari lavoro col taccuino, disegnando bozzetti a piè di pagina (appunti visivi che spesso derivano dalle parole che scrivo). 

Sia che cerchi un oggetto sia che lavori di fantasia la fatica non è mai presente, anche se quando disegno il tempo in cui agisco si dilata, l’occhio prevale sulla mano perché dò più spazio all’osservazione che all’azione. L’attesa è sempre lunga.

Non ti ho ancora chiesto chi sono i tuoi maestri, gli artisti cui ti senti più legato.

Gli artisti a cui mi riferisco sono Adrian Paci, Emma Ciceri, Francesco Pedrini, Valeria Olivo, per citarne alcuni; c’è poi una piccola patria di maestri ideali che potrei attraversare partendo dalla Grotta di Chauvet per arrivare fino ad Andrea Pazienza, passando per la Battaglia di San Romano degli Uffizi…

E tra i “giovani”, chi ami frequentare?

Molti dei miei allievi. La loro compagnia è formativa ed entusiasmante.

Che cosa pensi dell’arte italiana di oggi, ti sembra in salute?

Mi sembra in salute se penso agli artisti che non si conformano ai modelli dominanti di tipo commerciale (dozzinale) che vedi nelle fiere e negli spazi leccati della minuscola Milano; mi sembra moribonda quando penso che non siano gli artisti a condizionare il mercato dell’arte ma viceversa.

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?

Mi sto dedicando alla mia ricerca e all’insegnamento, e così continuerò a fare (con immenso piacere).