Tra le terre segrete di Deborah Napolitano

Il lavoro di Deborah Napolitano, quasi come una autobiografia scandita da una plasticità terrigna, si concentra su una serie di formule linguistiche che recuperano i racconti della tradizione ceramica vietrese – nutrita di flessioni nordiche (i tedeschi  Richard Dolker, Otto Kunz, Otto Hverbeck, Elisabeth Vomel, Elli Schweizer e Lena Hagstotz, senza dimenticare la polacca Irene Kowaliska) – per soppiantarli e reinventarli nell’ambito di una progettualità altamente aperta all’ironia e alla defunzionalizzazione di oggetti consueti quali sedie (spinate), piantine (micce), elmi di antichi guerrieri che hanno perso la voce per salutare una rosa, guanti cromaticamente pop e uova misteriose che richiamano alla memoria la purezza di Piero della Francesca, i torrioni del Castello di Figueresvoluti da Dalì o quelle forme, ferme e immutabili, elaborate da de Chirico e Savinio

Dopo una serie di progetti in cui la terracotta è protagonista assoluta, ma sempre trattata come materiale da tradurre e rielaborare (da svincolare dalla tradizione), a questo periodo appartengono le prime preziose Mine (2005), l’attenzione nutrita per la plasticità della terra porta Napolitano a concepire un discorso che prende forma, diventa struttura, costruzione di uno strato d’animo dove tutto sembra legato a un grande silenzio, a un passato ricalibrato sul presente. Basta guardare, e anche senza molta attenzione, l’incomparabile Metafisica sistemica in tre tempi (2017) per comprendere il potere magnetico del suo lavoro e la freschezza con cui vengono toccate tematiche legate al corpo e alla sua trasformazione in automa o alla sua riduzione, al suo farsi unità elementari, formemi oltre i quali c’è il silenzio del черный квадрат, la storia delle idee.

Coniugando squisitamente la terraglia al metallo al legno o a una serie di altri ingredienti la cui ricchezza è custodita nell’attenzione meticolosa che l’artista conferisce a ogni minimo dettaglio, i progetti realizzati negli ultimi anni – I guerrieri (2014), le sagome calderiane The offbeat (2017) e la meravigliosa quadreria ad esse legata (2018), In hoc signo (2017), Scomodatevi (2017), Giochi da bambini (2017), l’ironico Autoritratto (2017) eThe last one (2018) – portano Napolitano a una consapevolezza scultorea che assorbe al suo interno, con maggiore intensità, la compattezza della memoria, la fibrosità della storia: ma con l’avvedutezza di assorbirle in quanto sostanze fondamentali di una narrazione pronta a cogliere input, a farsi metafora di sogni sognati.

Seguendo un andamento analitico strettamente legato a materiali quali la terracotta e il ferro appunto, Deborah Napolitano propone un itinerario visivo che si nutre di prefissi psicogeografici e socioantropologici con lo scopo di riadattarli, di riadottarli, di arrotondarli, di smussarli, di annodarli a forme ironiche e drammatiche, primarie e apparentemente primitive, aperte a flussi memoriali dal forte spessore evocativo: l’artista pone infatti al centro dell’attenzione i riflessi della materia intesa come soglia, come luogo di frontiera da forzare, come cardine di un percorso che è in grado di riflettere sulle stratificazioni del tempo, di disegnare una analisi logica della fantasia che disarciona la realtà per rendere nuovamente visibile l’invisibile. In una serie di lavori recenti, nati tutti dall’incontro con un territorio specifico (l’agro noverino sarnese), Napolitano aziona un processo riflessivo sul concetto di confine e di frammento che decontestualizza e testualizza gli spazi. Ad aprire questo nuovo ciclo di lavori è Sagome o il gregge (2020), una sorta di fregio architettonico dove il profilo di uno stesso corpo – chiara indicazione al conformismo dilagante – è disegnato su una parete mediante il suo negativo in ferro per trasformare il muro, con i suoi segni e i suoi graffi, in ferita e ombra di masse silenziose, schiacciate su una superficie fredda e impersonale. 

Lasciato a uno stato semi-embrionale che rende palese il processo creativo, Dimmi la verità rabbino (2020) è, dal canto suo, un busto metallico con le sole braccia e senza gambe la cui cruda plasticità rende omaggio al mondo della spensieratezza, al personaggio più esclusivo e allusivo della letteratura per l’infanzia, Pinocchio. Su quattro lastrine metalliche applicate a parete, la resa figurativa di un dito di un orecchio di un naso e di un occhio evidenzia la volontà di spingere il discorso lungo un sentiero nostalgico che determina la reale natura del burattino, il suo vero in der Welt sein (la sua solitaria, tragica unicità): eterno bimbetto di legno che gioca e si diverte e si perde nella propria sorridente ingenuità. Un terzo lavoro che ho avuto modo di guardare allo studio dell’artista e che evidenzia la sua abilità nel cogliere lo spirito di un luogo, è il rifacimento di San Giovanni Battista (sul modello della statua lignea conservata nell’omonima Collegiata di Angri) che apre a una riflessione sull’arte e l’abitare, in particolare sulle tradizioni e sui riti devozionali di un habitat culturale la cui forza pone luce sul potere della magia nel sud, in un sud brillante che ha sempre un sud.