Arte Fiera 2025
Bernardí Roig, The man of the light III, 2014 - courtesy Max Estrella, Madrid

Bernardí Roig: la scultura, la multimedialità tra vertigini esperenziali e alienazioni nel situazionismo di odierne quotidianità

Un focus sull’artista maiorchino Bernardí Roig di Roberto Facchinelli

Figure silenti completamente bianche in resina di poliestere e polvere di marmo si collocano nella scena spaziale assieme a neon accesi che accecano l’osservatore in una visione innaturale fra la luce artificiale emanata dai neon e le figure perfettamente realistiche ricavate da calchi. La luce è qui evento che disorienta, distorce e assume una funzione di impedimento per una effettiva presa di coscienza che oggi l’uomo sempre più risente. Per capire Roig è necessario dire che le sue opere, a metà tra scultura e installazione multimediale, entrano in quella ricerca sul corpo quale costante oramai considerata necessaria per comprendere l’arte odierna e non solo odierna. Quindi Roig va oltre, non si ferma solo su aspetti di matrice scultorea ma indaga molteplici aspetti per estrapolare motivi, situazioni; Roig passa così da una ricerca sul minimalismo della luce al concettualismo dell’insieme fino al legame con il teatro, il cinema, la letteratura. Un’orchestrazione spesso complessa, “misurata” ma intensa. Seppur di matrice concettuale Roig non evita il racconto, la fabula. L’essenzialità infatti lascia sempre spazio nella volontà di raccontare, narrare storie. Ma sono storie d’introduzione a valori introspettivi, allegorie con sintesi estreme. A Roig interessa soprattutto il processo dell’inconscio dove gli oggetti con la loro collocazione creano indizi di uno stato d’animo quasi sempre sull’idea di disagio, mancanza di equilibrio, di alienazione, di frammentazione. Le interferenze degli elementi costitutivi di ogni opera provocano il meccanismo immediato, violento che porta dentro la coscienza del proprio sé con interrogazioni, paure, domande, riflessioni. I suoi personaggi provengono dalla realtà che lo circonda fino a creare i calchi dal corpo del padre per poi collocarli assieme ad oggetti conosciuti come bicchieri, cornici, video, e altro ancora. Le figure sono solitamente posizionate in modo assai particolare creando indizi sul reale significato. Figure appese, strette in spazi impossibili, angusti, spartani, scarnificati provocano la vertigine e claustrofobia degli eventi che il quotidiano fa sospettare. Il bianco è il bianco della riflessione, della fermata lungo l’incrocio pericoloso dell’alienazione che la società contemporanea rischia ogni giorno di incontrare. Roig affronta con decisione il richiamo a una ricerca introspettiva profonda che ognuno deve ricercare per scongiurare un’evidente e sempre più massiccia incomunicabilità. La mancanza di una comunicabilità autentica viene vissuto qui quale flagello odierno della condizione umana. 

Sicuramente Roig è la continuazione o l’estensione delle questioni sorte negli anni Sessanta ma traducendole su un piano rivolto alla postmodernità convogliando molte esperienze in una compresenza, in una sorta di grande orchestrazione fra diverse entità e materiali interagibili. Evidente pure però l’importanza data al corpo come richiamo alla contiguità di esigenze comunicative che dopo gli anni Sessanta ritrovano fervore pur con le diverse evoluzioni e percorsi. Il corpo come entità insostituibile, fondamentale in quanto linguaggio, metafora già in se stesso. In Roig il corpo è sì contiguità storica fondamentale di un messaggio ma è e deve essere anche un legame ritrovato nell’idea di verbo o di carne. Insomma una sorta di presa diretta con i suoi personaggi ricavati e proiettati dalla conoscenza intima come può essere la rappresentazione figurativa del padre dell’artista. Ma resta il fatto che Roig ha un repertorio iconografico ove si possono incontrare fattori contrastanti come iconografia cristiana e perversione, ascetismo religioso e mortificazione fisica. Immagini  come il teschio, il crocifisso convivono con corpi mutilati, fiori secchi, nature morte, oggetti vari. E’ bene chiarire quindi che l’arte di Roig è comunque un’arte in bilico fra fascino e repulsione, fra peccato ed esaltazione, estasi e colpa, erotismo e morte. Il corpo interagisce dunque con nuovi materiali in relazioni complementari e speculari per supportare la teoria filosofica e culturale di Roig basata sul teatro dell’assurdo e sulla mitologia postmoderna. Questo fattore di far interagire così i diversi elementi compositivi dell’immagine porta l’opera di Roig ad avere un’alchimia dell’immaginazione per poi ritrovare un’alchimia dell’immagine, tra brutalità degli innesti oggettuali e la loro sublimazione metafisica. Tutto ciò provoca comunque punti di convergenza per una comunicazione forte e ricca di tensione. Prima di passare al concetto di luce che Roig inserisce nel suo complesso linguaggio bisogna parlare del suo abbandono nei confronti della pittura. Con una atto drastico Roig prima di cimentarsi con la scultura brucia tutti i suoi quadri. Da qui nasce la volontà di purificazione nel bianco che poi diventerà appunto l’elemento fortemente catalizzatore della sua intera opera. Per staccarsi dalla pittura opta per la scelta del disegno eseguito con il carbone da egli stesso creato con l’uso del fuoco. Il bianco e il nero consentono così uno nuovo ciclo purificatorio come distacco dal pathos pittorico. Rimane più una scelta di linguaggio più che una scelta di tipo spirituale o mistica. Roig affronta così un terreno dove l’idea di luce diviene assai importante per l’intreccio di significati e possibili interpretazioni. Di certo l’opera di Roig emana un bagliore luminoso per entrare nella psiche tramite lo sconfinamento del bianco. L’impatto diviene fatto essenziale è tralasciando tutti i significati teologici o scientifici, che pur possono sempre convenire, è proprio l’artista spagnolo a voler sottolineare la centralità del suo discorso basato sul fatto esistenziale. Roig afferma infatti che se la vita è una bugia, che tuttavia ci appare come tale solo nel momento della morte, la luce non mente mai. Il bianco è perciò un formidabile conduttore dove ognuno può ritrovare se stesso nel nucleo della propria identità nell’impatto lacerante che le figure devono sottostare. Un impatto che crea la reazione tra luoghi e fatti intimi e famigliari con un contesto aperto. L’Io è così messo a nudo per trovare di nuovo lo scheletro pulsionale dell’individuo. Ma il bianco è anche quel bianco esangue della nave dei morti di Gordon Pym, dalla pelle “il cui colore era il bianco perfetto della terra”. Un bianco che catalizza l’osservatore per oltrepassare l’esperienza quotidiana per offrirsi alla profondità della psiche dove l’esperienza quotidiana è solo la superficie affiorante con la quale bisogna fare ritorno perché “realtà circostante” su cui bisogna trovare la rivelazione. Si diventa cioè spettatori della propria interiorità. Il bianco glaciale esprime il fallimento della parola e quindi l’impossibilità di una comunicazione certa e possibile. Nell’antichità i classici si strappavano gli occhi per comprendere il mistero della cecità. Solo tramite la più profonda oscurità si possono propiziare le visioni.

I lavori di Roig tentano l’impresa di far aprire nuovamente gli occhi di fronte a quello che succede. E l’uomo è così costretto a immaginare o a sognare visioni che possono far respirare l’anima. Roig crea uno spazio limite fra il sogno e la realtà di tutti i giorni, tra apparizioni e ombre. Il messaggio si sposta quindi da un sistema iconocentrico ad un sistema logocentrico; l’insieme degli elementi posti in atto provoca la scossa, il segno dei rimandi e dei significati più nascosti pur sempre senza negare l’idea metafisica in cui il mistero della luce è fonte e metafora di conoscenza. Ma guardare è un atto eroico. L’opera è perciò incentrata sulla riflessione della condizione umana oggi, del suo isolamento, delle sue pulsioni non considerate, dei suoi desideri repressi. Questo è appunto espresso con il senso marcato di prigionia dei corpi e l’impossibilità dello sguardo. Le figura esposte sono sempre quasi maschili con un corpo al limite dell’obesità come figure corpulente nella loro solitudine e imprigionate da una serie di mediazioni che impedisce di stabilire la relazione intima con l’altro in una continua e disperata ricerca di verità. Spesso zavorrati, schiacciati, feriti, abbacinati queste figure sembrano in preda a disturbi ossessivi e afisici nella volontà di esorcizzare la morte dei desideri, delle volontà, dei richiami. Figure posizionate ad un altezza di 21 centimetri dal pavimento (un numero propiziatorio legato al vissuto dell’artista) e collocate in contesti spaziali che creano un vuoto siderale e dove le stesse figure sono costrette a un rapporto forzato ed enigmatico con gli oggetti (luci al neon, gabbie, colonne, sedie, monitor, eccetera) fino a creare condizioni di disagio. La luce accecante e gli uomini realizzati utilizzando la tecnica del calco a vivo creano una situazione scenografica in cui lo spazio si fa cornice di un non-evento. Le figure di Roig diventano attori sia di un’impossibilità comunicativa che di una volontà di ribellione nei confronti dell’amnesia esistenziale che affligge la nostra società. Roig crea cioè un calco dell’umanità giunta sull’orlo dell’incapacità di riafferrare la propria memoria storica e la propria identità ma tentandone la denuncia. La stessa prassi esecutiva delle opere entra nel significato delle tematiche da lui poste. Ogni volta che l’artista compie la stesure del gesso sui modelli vi è la necessità che il modello chiuda gli occhi per evitare che la sostanza coprente possa entrare nelle zone oculari. Il calco crea cioè l’occultamento volontario o involontario della vista, un accecamento temporaneo che nell’opera di Roig è però fondamentale, permanente, per evidenziare l’azione disturbante. La luce quindi è qui un’istanza importante che perde la sua posizione tipicamente rivelatrice in favore di un messaggio occulto, estraniante. Una luce dominante dove tutto fluttua. La cecità è pertanto la possibilità di cogliere il senso originario delle cose. Oltre alla luce di neon, video, insegne luminose che ingabbiano e imprigionano, c’è in alcune opere la presenza del fuoco sottoforma di fiamme che fuoriescono dagli occhi mutandone le sembianze; energia corrosiva quella del fuoco che rappresenta l’elemento primordiale. Quella cenere che poi serve per creare i suoi carboni e l’impasto per la carta con cui poi egli realizza i suoi disegni facenti parte anch’essi delle sue installazioni. Il fuoco crea la ferita sulla quale si può cogliere il senso delle cose. Roig osserva e riflette sulle spinte continue dei media di una rivoluzione telematica oramai evidente di un effetto dilagante della globalizzazione. Roig esprime cioè l’idea che oggi viviamo nella sovrabbondanza di immagini che produce un grave depotenziamento dello sguardo. Un depotenziamento continuo che ha portato l’uomo ad avere uno sguardo eroso dall’eccesso di luce. Uno sguardo che non ha più certezze. E Roig a tale proposito afferma: “Guardare oggi è un atto eroico. Solo la forza del desiderio può tenere la morte a un palmo di distanza, ritardandone il sopraggiungere.” E il fuoco che arde all’interno dei suoi uomini comunica l’ultimo residuo di verità. Questa liberazione è dovuta però a molteplici stati di mistificazione nell’illusione dell’esistenza. In realtà simulacro è un ente senza un originale sostituendo il principio di realtà per l’idea di simulazione. Oggi l’individuo non vive più esperienze autentiche ma non fa altro che replicare il già stato in una realtà inesistente. La realtà è quindi sogno, interpretazione della realtà. Il simulacro non può ricostituire o riprodurre esattamente, può solo restituire.

Oggi la supremazia della parola sopprime l’esperienza, e l’identità di ognuno è ancorata perciò al quotidiano e ai suoi codici. Qui la dura critica che lo stesso Roig esprime nei confronti del dissolvimento delle cose e del senso interiore degli eventi. Roig ispirato sia dai miti classici sia dalla filosofia postmoderna nonché dalla prosa di Thomas Bernhard e dell’arte di Pierre Klossowski pone dunque il risultato di una ricerca che scava all’interno del confine che separa e collega i due paradigmi essenziali del pensiero:  il paradigma premoderno basato sulla volontà di una affermata integrità dello spirito e quello postmoderno che si basa sulla funzione del simulacro e sulla proliferazione delle apparenze.  Il simulacro è un ente senza originale dove il principio di realtà viene sostituito dal dominio della simulazione. L’esperienza si riduce nelle repliche di una realtà mancante. L’identità secondo Pierre Klossowski è oggi solo retta da definizioni di linguaggio come puro logos dove la parola predomina sull’esperienza, e questo avviene soprattutto nella cultura occidentale. Il risultato sarebbe una deformazione delle pulsioni o delle forze primarie che danno un senso alla propria vita e alla propria personalità. In questa situazione Roig sottolinea il parallelismo di Klossowski in cui il linguaggio deve fare i conti con il linguaggio del corpo. In sostanza anche il corpo cela un linguaggio nascosto. Fondamentale è dunque affermare che la presenza del simulacro che lo stesso Roig ci mostra rimane qualcosa legato all’irrapresentabile o all’incomunicabile in sé: il fantasma nella propria problematica di coercizione ossessionale. Una pregnanza tale che si carica di indubbie valenze simboliche di un immaginario dove è ancora forse possibile ricostituire una fisionomia. Il corpo e il suo Io, con la sua storia di vita e morte, viene restituito al vortice delle fluttuazioni vigenti, tra entità aleatorie, pulsioni e contraddizioni di una realtà ancora circostante pervasa dal vuoto e da identità multiple. La solitudine dell’individuo viene emanata con l’isolamento fisico delle sue figure, sculture-manichino. Corpi questi che richiamano senza dubbio i fantocci metafisici di de Chirico, già simboli dell’annientamento della personalità individuale, le figure esistenziali di Segal per la loro tragica somiglianza nel bianco dell’incomunicabilità, quelle sarcastiche e allo stesso tempo inquietanti di Munoz, o ancora, il corpo di Franko B, con la sua famosa performance dove si presenta completamente nudo e coperto totalmente da pigmento o polvere bianca, nel silenzio più totale si dissangua al limite della tolleranza in uno spazio fatto solo di pubblico e medici pronti a intervenire prima che l’artista entri in uno stato di incoscienza irrimediabile e senza ritorno. Un biancore che può ricordare indirettamente la scultura marmorea rinascimentale ‘classica’ o la scultura settecentesca neoclassica. Appare evidente che l’arte di Roig vuole portare il pubblico a meditare sulla condizione consapevole di solitudine che l’uomo contemporaneo vive ma questo per rafforzare l’idea in cui l’osservatore non deve vivere l’evento come una nuova esperienza di passività nuovamente subita. Al contrario l’osservatore deve vivere l’evento espositivo per un’introspezione feconda quale momento di conoscenza di un vissuto che deve portare ad una crescita interiore. Roig oltre a riportare un certo carattere esistenzialista nella sua opera si riconduce ad un minimalismo stilistico essenziale riferibile a Dan Flavin ma con tutt’altre intenzioni poetiche. Roig stesso afferma: “Mi interessa lo spazio teatrale che inventa il minimalismo, dove la scultura perde il piedistallo, si ricolloca tra gli oggetti e si ridefinisce in termini di luogo. Ma una volta capito questo, il minimalismo cessa di interessarmi perché esaurisce il modello formalista della modernità. E’ idealista, riduttore e amnesico. E io sono un figlio di Pompeya che assume l’eredità visuale del cristianesimo, l’idea di incarnazione e non posso dimenticare che il rosso di un vaso di Creta contiene la memoria dell’ultimo tramonto. Flavin usa il fosforescente come tecnica, precisamente per desmaterializzare lo spazio, metafora che mi aiuta per costruire un racconto. Il significato nel mio lavoro è posizionare la figura nello spazio e aspettare che avvengano attriti. Nonostante io sia vicino artisticamente a Bruce Nauman riconosco in Dan Flavin, nella sua essenza sintattica ereditata dal minimalismo, una nuova arte che si esprime attraverso la sequenza, la ripetizione e l’annoiamento (…)”. Un ritorno alla narrazione è perciò presente nell’opera di Bernardì Roig ma in un contesto scenografico che si può definire neobarocco proprio per la sua dimensione spiccatamente teatrale. E lo stesso artista definisce la sua posizione: “Sono molto attratto dal barocco e dal suo senso scenografico. Mi si accusa di essere eccessivo e ossessivo perché interpreto l’immagine come un concentrato di esperienza e questa convulsione disordinata probabilmente mi porta all’esagerazione. Coloro che difendono la repressione drammatica non incontrano il mio pensiero. Non c’è da temere l’eccesso, probabilmente unica forma per avvicinarsi a qualcosa, anche se c’è tanta gente che preferisce, ancora oggi, la palude del formalismo fossilizzato. È il tessuto del linguaggio e il desiderio che rende il soggetto protagonista di un grande evento raccontato. Io ho bisogno di questo racconto per costruire le immagini e metterle in scena.” Un racconto legato all’azione quasi performante delle figure messe in campo dall’artista; una sorta di performance cristallizzata nel bianco della luce. Ma il racconto dell’azione vuole sempre portare l’osservatore a porsi domande e a riflettere sul fattore di una vicenda narrata. Come vedere infatti quello che ci acceca? Come è possibile parlare di tempo e di spazio nell’era della saturazione dell’immagine e del suo continuo consumo di massa? E come lo scrittore, antropologo e filosofo francese Georges Bataille poneva la domanda di che ne sarà della Verità se in un futuro prossimo non fossimo più capaci di guardare oltre la nostra vista. Sono queste le domande che Roig ha riposto e che tramite la sua opera si è potuto comprendere le complessità tipiche del nostro tempo sapendo riportare il tutto a principi umani non cancellabili. La volontà è nel conseguire, un giorno, l’esito di una rinascita effettiva dell’identità persa nell’eco dispersivo del consumismo di massa e della sua parola enfatizzata? Un disagio che porta a quella solitudine dell’Uomo che tanto fa tremare i polsi e la sensibilità di ognuno; una solitudine che porta l’alienazione e l’ossessione delle cose. Ed è vero che il tema dell’alienazione è un argomento caro a Roig.

Fra le diverse occasioni ho desiderio di citare che nel mese di marzo del 2008 presso la Galleria Cardi di Milano Roig ha presentato una selezione di lavori ispirati ad una conferenza che Italo Calvino doveva tenere nel 1985 e poi non realizzata per l’immanente scomparsa dello scrittore italiano. Una selezione di sculture e disegni che la dice lunga sulla riflessione che Roig si impegnava già ad approfondire nella  consapevolezza che socializzare e comunicare è sempre fatto più arduo e incredibilmente più difficile. Sempre dalla Galleria Cardi viene inaugurata, nel 2008, una seconda mostra personale dell’artista in concomitanza all’inaugurazione della sua scultura pubblica “L’Uomo della Luce”; opera questa commissionata dalla Triennale di Milano e installata a Palazzo Isimbardi quale sede della provincia di Milano. 

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