Helen Frankenthaler nata a New York nel 1928 e scomparsa nel 2011, dopo una formazione artistica negli Stati Uniti, e dopo aver compiuto numerosi viaggi in Europa ed essersi appassionata allo studio dei grandi maestri del passato, dal 1950 è immersa nel vivace clima della sua città natale. Frequenta il critico Clement Greenberg che la introduce nel gruppo degli artisti della scuola di New York, entrando in contatto, tra gli altri, con Jackson Pollock, Willem De Kooning, Barnett Newman, David Smith, in un contesto di affinità elettive, di impegno condiviso nella sperimentazione e nella ricerca di nuove forme pittoriche e scultoree. L’incontro con Pollock è per lei particolarmente stimolante: “Era come se all’improvviso – così ricorda in occasione della mostra del pittore alla Betty Parson Gallery di New York nel 1950 – mi trovassi in un paese straniero senza conoscerne la lingua, ma ne avessi letto abbastanza, nutrissi un appassionato interesse e fossi desiderosa di viverci. Volevo vivere in questa terra; dovevo viverci e padroneggiare la lingua”. Da questa assertiva dichiarazione d’intenti si evince la forte volontà della Frankenthaler di esplorare a fondo l’ operare in pittura e di addentrarsi in forme che meglio rispondessero al suo bisogno di libertà espressiva. La tecnica del soak-stain (imbibizione a macchia) da lei inventata, rilevabile nel dipinto Mountains and Sea del 1952 e portata avanti nelle opere degli anni successivi, è quella che maggiormente corrisponde al suo impeto creativo. Grazie ad essa, la pittura astratta, che lei praticava, è resa unica dalla messa in atto di questo innovativo modus operandi, basato sulla diluizione dei colori, prima a olio e poi ad acrilico, tramite l’addizione di solventi, e sulla loro stesura diretta sulla tela, disposta in orizzontale e non preparata come da tradizione, per consentire un migliore assorbimento delle cromie. La fluidità acquisita dai colori con tale procedimento li rende simili all’acquerello e li fa interagire nelle tele a grande dimensione, in parte scorrendo casualmente, in parte secondo la direzione voluta dall’artefice. La fusione cromatica rilevabile in alcuni dei lavori esposti è ottenuta con vari strumenti e inclinazioni delle superfici nel loro farsi, nelle quali il colore versato e spruzzato penetra e si distende in larghe campiture. “Uso tutto. Uso – dichiara la Frankenthaler – grandi pennelli per ferramenta. Uso spatole […]. Una volta ho fatto un quadro fantastico con un cucchiaio per spaghetti. Uso molte spugne, molte spugne su bastoni, spugne per pavimenti, tergicristalli. E poi a volte, un bel pennellino di zibellino. Quindi, anche, vari materiali”. Una pittura, inoltre, realizzata sul pavimento, non “di polso” come di fronte a un cavalletto, ma in una sorta di performance corporea. Come recita il titolo dell’esposizione, la pittura della Frankenthaler infrange le regole assodate sia nell’utilizzo del colore, sia nel rapporto con il disegno che nella considerazione dello spazio pittorico. Grazie alla continua indagine sui mezzi e sulle possibilità di essa e per i risultati ottenuti, la pittrice è una straordinaria interprete del passaggio dall’Espressionismo astratto al movimento del Color-Field Painting, definizione quest’ultima coniata da Greenberg. Nel procedere e nello svilupparsi della sua attività, quasi come una sua inclinazione naturale aperta allo scambio e al confronto, si allarga sempre più la rete dei suoi contatti. Diventa attiva interlocutrice degli artisti Morris Louis, Kenneth Noland e di Robert Motherwell con il quale si unisce in matrimonio nel 1958, in un connubio di arte e vita. Benché impegnata in un intenso lavoro e in una notevole attività espositiva, anche a livello internazionale, tra l’altro è presente nel 1959 a Documenta Kassel e nel 1966 alla Biennale Veneziana nel padiglione degli Stati Uniti, la Frankenthaler stabilisce durante tutta la sua esistenza nuove amicizie, ora con Anthony Caro, Anne Truitt e Mark Rothko, in un costante e creativo confronto nel comune denominatore della pittura e della scultura.
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Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole. Palazzo Strozzi, Firenze, 2024
Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.
Il percorso espositivo, modulato sala per sala, in una scansione corrispondente ad ogni decennio dell’attività della pittrice, si sviluppa con opere che esplicano la sfida formale da lei perseguita, la cifra originale del suo linguaggio astratto, il ‘disegno’ leggero sulla tela, scaturito da immagini spontanee, analoghe a una sorta di flusso di coscienza, in una contaminazione di cromie e di spazi, nell’ unicità di visioni poetiche. Open Wall (Muro aperto) del 1953 presenta in nuce alcune caratteristiche pittoriche, riferite sia all’andamento del colore sia al dialogo fra le zone ampiamente dipinte e quelle connotate da irregolari segni pittorici in una ben evidente interazione spaziale. Nella stessa sala, la seconda, è presente l’opera Number 14 (Numero 14) di Pollock, fonte d’ispirazione per la Frankenthaler che dichiara essere “più di un semplice disegno, tessitura, intreccio, gocciolamento di un bastoncino immerso nello smalto, più di un semplice ritmo”. Nella terza sala le opere della pittrice, collocate assieme a una scultura in acciaio di David Smith e a una colonna in legno di Anne Truitt, entrambe dipinte, portano la riflessione sul dialogo che si instaura fra lavori realizzati con mezzi diversi e oltre ogni convenzione compositiva. Particolarmente significative nello stesso ambiente sono le due tele della Frankenthaler: Alassio del 1960 in cui si osserva una forte interazione di segni e macchie nel libero andamento delle cromie e Cape (Provincetown) del 1964 in cui è evidente l’affinità formale con l‘opera di Rothko esposta nella sala successiva, laddove sono collocati anche altri lavori: uno di Motherwell Summertime in Italy (Estate in Italia) del 1960, uno di Morris Louis dello stesso anno e l’altro di Kenneth Noland del 1977. La sesta sala presenta esclusivamente opere di Smith e di Motherwell, tra cui di quest’ultimo un significativo At five in the Afternoon (Alle cinque della sera) del 1948-49, cedute in dono alla pittrice.
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Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.
Sulla parete Mark Rothko © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma
Nell’ambiente successivo i dipinti della Frankenthaler risalgono agli anni Settanta, lavori pressoché monocromatici, tra cui Ocean DriveWest#1 del 1974, del quale ella rivela che, durante la sua elaborazione, “non stava guardando la natura o un paesaggio marino, ma il disegno presente nella natura proprio come il sole o la luna possono essere visti come cerchi o come luce e ombra”. Nello stesso spazio è collocata una scultura dell’artista, una delle tre esposte, realizzata a Londra nel 1972 nello studio di Anthony Caro, di cui è presente un suo lavoro titolato Ascending the Stairs (Salendo le scale)del 1979-1983, in contrappunto con la scultura Yard (Cortile) del 1972, sempre della Frankenthaler. Da qui, fino alla conclusione del percorso, sono presentate opere che dagli anni Ottanta ripercorrono in sintesi l’itinerario creativo fino al 2002. Sono questi gli anni di una ancora più forte libertà espressiva conquistata dalla pittrice, di un’ispirazione cercata anche nella pittura dei maestri: Tiziano, Rembrandt, Manet. Le opere mostrano ora analogie tonali nelle ampie campiture dei fondi dipinti, trasparenze e labili segni tracciati accanto a macchie colorate, come se traesse, citando la Frankenthaler stessa, “il disegno presente in natura, proprio come il sole e la luna possono essere visti come cerchi o come luce e ombra”. Emblematiche sono le opere Madrid del 1984 e Star Gazing (Guardando le stelle) del 1989: d’ora in poi lo sguardo dell’artista si volge verso orizzonti cosmici in cui coesistono gli opposti, nel duplice approccio a sogno e realtà.