Gerhard Merz
Edoardo Di Mauro, selfie, 13 marzo 2024

Sulla scomparsa di Edoardo Di Mauro

L’organizzazione artistica è qualcosa di molto delicato, che influisce sul valore delle “produzioni” espressive o meglio, come scrive Gramsci, “l’organizzazione pratica dell’opera nella sua fattispecie espositiva è nel suo insieme un mezzo di espressione artistica”. Edoardo Di Mauro, morto pochi giorni or sono, è stato un organizzatore di particolare valore. Le righe che seguono intendono mettere in luce il “nucleo profondo” di questo valore e soprattutto la crisi che attanaglia il mondo della critica, della curatorialità e dell’indipendenza intellettuale e autoriale.

“Potrei scriverti da filosofo credente, quale tu mi hai più volte definito, e dirti che finalmente hai scavalcato le nuvole per ricongiungerti ai discorsi di Breton, Tzara e Eluard. Oppure da curatore, osservare come sempre che più critici d’arte muoiono, per mano di questi mali bastardi che colpiscono gli organi centrali, e più il mainstream curatoriale della nuova generazione gode per lo spazio che hai concesso. Il ricordo di quel primo convegno sulla critica che tu organizzasti nei pressi di Torino (seconda metà degli anni Ottanta del ‘900), invece mi suggerisce di dedicarti queste “inutili riflessioni”, con gli occhi di un critico a cui è stato strappato un compagno di viaggio ancora pieno di risorse.

Ma fermi tutti. Sto delirando: Tu mi manchi come dialogo intellettuale profondo. Ed è una mancanza che respira l’assenza di gesti piccoli, discussioni sull’installazione di opere, il primato dell’estetico sull’etica (?), nonché gli anni della dolce vita torinese – tra locali e new wave – a cui tu donavi un’importanza assoluta. Come quando andavamo in giro per mostre a Bologna, a Torino, a Milano (sempre anni ’80), agendine adagiate nelle cartelle e tu energico a guardare tutto quel patrimonio urbano sprecato per poter fare un altro pezzo di VSV o di MAU! La tua energia possiede questa qualità che io ti ho sempre riconosciuto, pur non trovandomi del tutto d’accordo sugli orizzonti dell’estremismo post-moderno che tracciavi: apprezzare lentamente e fino in fondo ogni attimo del momento installativo – nel tuo evento – si trasformava in un’attesa epifanica!”. 

A fine luglio è morto Edoardo Di Mauro. Il professore Di Mauro non c’è più. La notizia della sua morte ha raggelato l’Accademia Albertina che da qualche giorno piange la scomparsa di un letterato e studioso. Il suo nome probabilmente dice poco o nulla ai giovani e giovanissimi, mentre è ben noto a chi si è occupato a Torino di arte contemporanea, e non solo. Il suo profilo di intellettuale è affidato al lavoro di critico e curatore che svolse nell’organizzazione di mostre, e in diverse altre pubblicazioni. Simbolicamente è morto con le mani sulla tastiera del computer, quindi perseverando da giornalista, curatore, critico d’arte, scrittore, storico e conservatore di beni Culturali, nonché gallerista, ex politico e intellettuale a tutto tondo. Critico d’arte, docente dell’Accademia Albertina, di cui dal 21 febbraio 2020 al 20 febbraio 2023 è stato Direttore, dopo essere stato Vice Direttore Vicario da novembre 2018 a dicembre 2019, nei corsi di Storia e metodologia della critica d’arte, Metodologie e tecniche del contemporaneo e Valorizzazione del Patrimonio Architettonico ed Urbanistico. Dal 21 febbraio 2023 è nuovamente Vicedirettore alle Attività Espositive, Progetti di Arte Pubblica ed Orientamento Didattico. Dal 1994 al 1997 condirettore artistico della Galleria d’Arte Moderna e dei Musei Civici torinesi. Recentemente responsabile artistico del MAU, Museo d’Arte Urbana di Torino e curatore della BAM Biennale d’Arte Moderna e Contemporanea del Piemonte. Ha curato mostre in centinaia di spazi pubblici e privati italiani ed europei.

Esistono curatori che danno vita ad un proprio universo. Da qui la forza di un determinato immaginario sociale, unito alla mediazione delle regole e dei codici che lo governano, può condurci a ipotizzare come una realtà museale diviene possibile. Questa è la sensazione che si ha al cospetto del curriculum vitae di Edo! Centrale nella sua cosmogonia curatoriale la figura dell’artista emergente. Come demiurgo, avventuriero, esploratore o sciamano, questi è intento a inscenare, di volta in volta, diversi archetipi e a sperimentare un mondo storiografico caoticamente strutturato (o strutturalmente caotico). Si fa presto a dire curator. Qualcuno forse sta scrivendo un compiuto saggio sull’attività di Edo e i suoi due tempi diversi: quando ancor fuori dalla grazia istituzionale, ci appariva curatore e gallerista ereticale e realisticamente energico; e quando rientrato nell’ovile Accademico – senza peraltro, troppe arie penitenziali – parve diventato l’ultimo continuatore del “direttorio condiviso”, riecheggiando ambiziosamente l’impeto dei decenni Ottanta e Novanta. Anni forti, pieni di fede e di opere; e qualcuno si incaricherà di dirci se tutta questa sua ricchezza, donata quasi con aria di “democrazia radicale”, ha avuto un sviluppo d’energia prevalentemente termica e di calore e confidenza e di abbracci commossi.

Logo MAU a margine di un’opera di strada

E s’è detto della mente e del cuore di Edo. Gli editori ne agevolerebbero l’occasione, pubblicando i suoi piccoli manuali sulla critica d’arte, quasi una raccolta dei suoi progetti e dei suoi contributi saggistici di trenta o forse quarant’anni fa, concerto fantastico che ancora resiste; e se qua e là par di notarvi delle crepe, somigliano a quelle che consacrano d’antichità le volte delle Aule dell’Accademia Albertina, traversando le facce degli studenti e dei profeti negli affreschi dei nostri pittori famosi. Portato dalla nativa ambizione a vivere nella spaziante grandezza espositiva, Edo ha obbedito al comandamento: «Duc in saltum», “prendi il largo”; e ha gettato le ancore nel mondo, oltre le frontiere. Fu sempre sua ambizione quella di scrivere per noi tutti e non per gli studenti soltanto; per i centri di fruizione specialistica e non solo per il colonnino dell’addetto ai lavori. E per arrivare ai tecnici, sapete che ha anche osato fingersi, con in capo la tiara, un mai esistito pontefice del collezionismo. Posizioni un po’ paradossali? Edo ha sempre avuto bisogno di praticare l’estrosità, trovando però la misura del vivere e del curare eccentricamente! Edo è il classico curatore d’arte dell’iperbole spirituale; e poiché egli ha spesso amato distinguere gli artisti in dinastie e filoni, diremo anche noi che Edo appartiene alla nostra tradizione moderna. Edo è del più glorioso ironico concettuale della nostra sensibilità, se il post-moderno è l’espressione in eccesso, anzi, è la gioia dell’eccesso; ma l’eccesso di una forza non d’uno sforzo. In termini d’arte, diremo che Edo non è un vero e proprio teorico d’arte e la sua mitica armonia di pensiero si innesta col postmoderno dell’età italiana, o la gioia e l’equilibrio dell’eccesso liberatorio dell’evento.

Ma queste sono formule e nomi, al di là dei quali sta lui, quella soggettività felice che è stata Di Mauro, giornalista e curatore d’arte, che ha aggiunto un suono lirico di giovanilismo all’entusiasmo della scrittura d’arte. Nelle sue migliaia di pagine, che racchiudono sempre vivo quell’esordio della “nuova onda” degli anni ’80, ha ricostruito un ritmo come un brano dei Talking Heads! La temperatura scottata del gallerista overground e delle progettualità espositive del nuovo panorama italiano, la sua scrittura generosa, nutrita di langhe e di lune pavesiane, rintracciano l’effervescenza del suo tempo! Ed è meraviglioso che questa pavesiana abbondanza continui a durare anche nella direzione di un Museo Cittadino! Sappiamo che la critica di Edo è tutta in una strenua attenzione alle mostre, nel leggere le pratiche artistiche sotto il solo segno delle “politiche di emersione”, sciogliendo i rapporti tesi tra pratica del governo museale e necessità estetiche, riscattate in fantasia. Dirò che a questa prassi Edo non ci è del tutto arrivato, ora, qualche giorno prima di lasciarci, ha ceduto alle piattaforme in corso. 

Leggere, saper leggere son titoli di pagine che si trovano nei cataloghi della sua esperienza curatoriale, e uno che modestamente s’iniziava all’esercizio della storiografia artistica emergente amava presentarsi come un lettore militante: Vocazione e progetto. Storia e attualità della critica d’arte (sec. ed. 2015). E sempre sotto la suggestione della responsabilità curatoriale, Edo ci ha portato alla necessità di una lettura integrale dell’economia e della produzioni pubbliche dell’arte, editando nel 2020, insieme a Paola Russa, Una dimensione etica. Storia e presente dell’arte pubblica, permettendoci di capire il passaggio da un gusto popolare a un gusto più alto e raggiungere quel lento, lentissimo formarsi, nel suo linguaggio, che è poi l’acquisto del suo tono definitivo, della sua operatività empirica. Insomma, conoscere il terreno da cui è germinata l’opera d’arte collocata nello spazio pubblico è una prospettiva che oggi è targata MAU. Ma è proprio nuovo questo modo di leggere? Nuovissimo, forse, no. Ma nuovo è questo rapporto di necessità, sentito e risolto anch’esso in un puro fatto di stile. Perché, rifare per questa via “pubblica” la storia di un’opera, di una pittura o di un murales è colmarlo di risonanze ambientali e di significato, onde essa cresce di valore. Su questa esigenza, si svolge la trama di ognuno dei suoi contributi, penso ad Across the space Across the time (2012), superando anche il pericolo della monotonia, attraverso un senso di “cultura creativa dell’installazione” sempre positiva, di memoria lunga, che dava alle sue parole alcunchè di continuamente inventato.

Accademia Albertina, Marina Abramović – Diploma Honoris Causa e Lectio Magistralis – 23 giugno 2024

Naturalmente, lavorano in Edo anche i fecondi acquisti del Barilli e l’esempio di critica letteraria proveniente dal suo maestro M. Guglielminetti. Il Guglielminetti ha pure il merito di aver distinto tra passione letteraria e passione ideologica, illimpidendo il concetto di scrittura e portando la critica letteraria a bellissimi esiti storiografici e filologici. E in quanto a Barilli, penso che possa godere della lettura delle pagine post-moderne di Edo. Lui, figura pur tanto diversa, per quel suo elegantissimo bisogno di cominciare e non finire, accennare e non definire; quel raggiungere la radice del problema critico e poi saltare il paradigma. Mentre il proprio di Edo è di giudicare nella prassi dell’installazione espositiva, lo stato di completezza, il circoscriversi del lavoro curatoriale, che è un più caparbio capire e leggere sul fronte dell’opera «retinica» e della sua fattispecie politica. Se la virtù della curatorialità si rivela ugualmente decisiva, bisogna pur ammettere che essa riveste un carattere che oltrepassa la possibilità dell’opera d’arte. Gli dei filantropici della mitologia greca avevano dotato la specie umana di grano, olivo, vite e pertanto il dono dell’esposizione deve avere origine divina. Inoltre, la prima azione nella sua trascendente efficacia è strettamente legata all’istituzione del fatto espositivo; la prima azione umana è la vocazione (come la chiamerebbe Edo) stessa dell’uomo all’evento-mostra. La prima azione dell’essere è stata l’azione dell’evento espositivo, creatrice dell’ordine umano nell’ambiente e nello spazio pubblico: azione di grazia estetica ed architettonica, richiamo d’esistenza ambientale, richiamo all’essere dell’architettura e dello spazio pubblico, che provoca il risultato espositivo. Questo prototipo dell’azione espositiva nella sua pienezza s’impone alla coscienza cittadina piemontese di Edo, dai suoi più semplici desideri ambientali sino alle sue forme più consistenti di curatorialità: MUSEO D’ARTE URBANA (MAU, Quartiere Campidoglio di Torino). Qui, ovunque, si afferma il primato dell’URBE, comunicato in seguito all’autodeterminazione critica dell’arte e ancora tutto avvolto nel suo significato degli anni ruggenti (’80). Il Museo Urbano è Museo essenziale; ha un valore magico, religioso e politico. Non una semplice designazione, ma una realtà eminente in virtù della quale è possibile all’artista (lo intendiamo come un neutro singolare) il gesto denominatore ed insieme creatore del “luogo” e catturare a suo profitto le potenze ambientali che “ri-mette (ri-produce)” in gioco. Il significato del nome presso la scrittura di Edo, è legato all’essere stesso della cosa. La parola Museo non interviene come un’etichetta, più o meno arbitrariamente aggiunta, ma con un retrogusto polemico illuminante nei confronti di quelle istituzioni che in questo paese fanno fatica ad occuparsi degli artisti di strada, degli emergenti, degli emarginati, insomma di tutti quelli a cui gli spettatori inneggiano andando a vedere la Biennale di Pedrosa! Sì, perché questo è uno strano paese, ricco di invidia, di competizione sleale e soprattutto di disattenzione dei Direttori di Musei verso la comunità dei fruitori, di curatori verso colleghi, di giornalisti d’arte verso categorie professionali e gente del settore che si ammazza di lavoro per non meritare neanche un misero articolo su di un giornale. 

Edo era cosciente sin dagli anni ’80 che ci trovavamo ad operare in un nido di vespe e di zanzare, un universo piccolino e provinciale, atto a garantire solo l’occultamento del collega-nemico! Il campo della magia del Museo appare immenso, ed immenso è l’odio, la discriminazione che lo dirige, gestendolo con politiche autoriatarie e razziste, che Edo conosceva bene. Riappare peraltro alle origini di ogni nostra vita personale, poiché l’infanzia del critico ripete l’infanzia dell’umanità, quel realismo nominale in cui il bambino che ha appena conosciuto il suo evento espositivo dà a questo strumento un valore trascendente. Sapere il nome del Museo significa avere afferrato l’essenza della cosa espositiva e poter da quel momento dominarla. Ebbene il disegno della mia generazione di curatori e critici d’arte è stato quello di trasformare tutta questa essenza in una forma di repressione, in un programma autoritario che agisce ed ha agito nei confronti di Edo e di altri con il “mors tua vita mea”.

Opera realizzata su iniziativa del MAU

Alla base di una qualsiasi società museale ci dovrebbe essere il principio della condivisione curatoriale. Questa cultura della condivisione consiste nell’insieme dei diritti e dei doveri di tutti i curatori che aspirano a lavorare con le istituzioni per permettere una sana convivenza tra artista e collettività. Purtroppo, però, nell’attuale società delle arti, proprio tra quella generazione che è cresciuta sulla maschera dei movimenti del ’77 e delle tendenze appoggiate dalla stampa di sinistra, non tutti i curatori rispettano questo principio. All’apice di questo problema è la disposizione mafiosa tra privato e pubblico di progressisti e reazionari che operano scartando “lavoro curatoriale” e discriminando classi e gruppi sociali. Da un lato, dunque, le organizzazioni curatoriali hanno accelerato il processo di trasformazione e sommersione, dall’altro non hanno rinunciato del tutto all’indispensabile radicamento nel territorio e a quella pressione intimidatoria che garantisce loro la riconoscibilità in termini di potere e di occultamento. Le mafie curatoriali infatti necessitano, come fattore genetico e persistente, di una forte riconosciuta e ossessiva discriminazione protezionistica, che Edo conosceva e denunciava da molto tempo! Il razzismo curatoriale crea un deserto relazionale, una situazione in cui le relazioni vengono logorate, se non addirittura distrutte, ponendo esponenti dell’organizzazione sistemica in sostituzione degli attori chiave con cui quelle relazioni si intrattengono e si riproducono (vedi il discorso di Edo al Simposio dell’AICA Fluidity, 5-6 maggio 2023, in cui si mostrò totalmente d’accordo con questa mia visione).

A differenza dello storico dell’arte attrezzato di ispirazione illuministica, animato da ambizioni universalistiche, si sono piuttosto fatti largo curatori e consulenti del potere che non pensano più di rappresentare la verità universale dell’arte, ma di affermare al massimo l’identità di un gruppo o la realtà di una dimensione particolare. Se il critico militante legislatore, per dirla ancora con il situazionismo, era colui che in nome di principi universali sindacava autorevolmente tra espressioni diverse ed era in grado di avere un impatto diretto sulla formazione dell’opinione pubblica, il curatore postmoderno in qualità di interprete si preoccupa solo di agevolare la comunicazione delle lobby e di vendere al meglio le proprie risorse sul mercato della comunicazione estetica. Le relazioni tra critici d’arte e soprattutto curatori o semplicemente intellettuali tendono ad essere complesse, caratterizzate dalla compresenza di affetto, vicinanza ma spesso diffidenza ideologica, di principi progettuali e, al tempo stesso, anche di rabbia e gelosia. A volte può capitare che rivalità e conflitti dell’adolescenza critica continuino nell’età adulta e che amici curator, come lo era Edo, si avvicinano e si allontanano completamente, sviluppando di cronaca progettuale, lavori diversi oppure condividano esperienze di disperazioni, crisi insormontabili, o storie contingenti come quella dell’attuale sistema artistico italiano! Comunque, quale sia stata la loro/ la nostra relazione, la morte e la malattia mortale che sopraggiunge, come nel caso di Edo, è sempre nel momento difficile. Si perde una delle poche voci che conoscevano la realtà artistica di questo paese e che conoscevano “da sempre”, avendo condiviso e costruito insieme con noi la storia del nostro difficile cammino. Si perde un testimone del proprio passato, della propria giovinezza, si vive un’assenza che non verrà mai colmata e si perde anche una parte dei suoi progetti futuri. Inoltre la morte di un amico curatore impone di pensare al senso della propria esistenza, del proprio ruolo nel sistema dell’arte, e a riflettere sui valori in cui si crede, sia considerando la fine della storia dell’arte e sia considerando il fine della storia dell’arte! Nascere a “migliore mostra” dopo la morte di un amico curatore rappresenta una situazione particolare, meritevole di attenzione, perché potenzialmente a rischio di una dinamica sostitutiva, che poi non è necessariamente così. Ciò che conta sono i significati che l’autore attribuisce ai curatori e agli artisti e la loro capacità di accogliere gli autori successivi alla perdita rispettandoli nella loro individualità, garantendo loro uno spazio unico in cui potersi liberamente sviluppare. Ebbene Edo era certo, nei miei confronti, di nutrire questo patrimonio di reciprocità per quanto riguarda la riflessione sul medialismo. L’attuale sistema è costituito da bande di mitomani che rincorrono artistar, ideologie politiche divisive, pregiudizi, razzismi e soprattutto occultamenti storico-artistici che non demordono. L’unica cosa che si riesce a capire è che la morte può portarci via la persona apprezzata ma solo fisicamente… perché se è vero che da un lato non puoi più viverla, vederla, toccarla, parlarle, puoi però continuare a farla vivere nella tua esperienza di scrittore d’arte, nei tuoi ricordi e in nuove progettualità curatoriali. Tu e solo tu, puoi decidere se rafforzare la memoria là dove i sensi si indeboliscono; tu e solo tu puoi decidere se alimentarla ogni giorno affinché il direttore del Museo scomparso possa continuare a sorridere, a vivere nel territorio dei tuoi progetti, con te … La morte può portarsi via la persona ma non la stima culturale che provi per una “forma di vita”.