La casa vivente

Spaziando | Di case viventi e spazi da vivificare

Spaziare significa, letteralmente, muoversi, passeggiare. E così, in una giornata di Maggio, io e Andrea Staid spaziamo in una conversazione che muove i passi dalla pubblicazione del suo ultimo libro La casa vivente (add Editore) per poi estendersi toccare temi vari, ma correlati alla sua ricerca e al nostro concetto di abitare.

Spazio aperto
Spazio vuoto
Spazio autogestito
Spazio gerarchico
Lasciare spazio
Chi gestisce lo spazio
Spazio fisico
Spazio autocostruito
Spazio virtuale
Metaforico
Metamorfico

LP: Quando parlo di spazio chiuso intendo chiuso architettonicamente ma, metaforicamente, se trascorri metà della tua vita all’interno di uno spazio chiuso può essere che anche la tua mente si chiuda…
AS: Lo spazio è relativo al suo contesto di produzione, che si tratti di uno spazio fisico, immateriale, di un foglio, di una chat, di una call… O che sia, invece, una casa. Quello che noi cerchiamo di costruire in quello spazio ha a che fare con le nostre creazioni culturali intese come modelli, modelli nei quali noi ci riconosciamo, che sono plastici, in movimento e possono cambiare nel tempo. Ma nel momento in cui lo pensiamo, il modo in cui lo pensiamo con le nostre mappe cognitive, è un modo che ha a che fare con il luogo in cui noi abbiamo costruito quello spazio mentale o fisico.
La cosa interessante di questo periodo – di restrizioni, chiusura in casa etc. – è lo spazio virtuale che, per quanto surrogato di una presenza reale all’interno di uno spazio, ha generato interazioni nuove e un modo nuovo di gestione – che può essere gerarchico o autogestito (come nel caso del PAD con Edicola 518) –. 
La vera domanda è: chi gestisce questo spazio?  Lo spazio virtuale è molto spesso in mano alle grosse companies che lavorano sui nostri immaginari, sulle nostre forze e sul nostro modo di creare… Ma la possibilità di uscire da questa deriva di gerarchia e dominio c’è! Utilizzare altri spazi virtuali più vivibili.
Quindi lo spazio va caratterizzato culturalmente e per me cultura significa, in senso antropologico, ciò che ci rende umani e, di conseguenza, lo spazio, il territorio che ci rendono umani. Nella mia visione dello spazio e di come posizionarsi in esso e nel tempo, tento sempre di sottoporre a un’osservazione critica la visione antropocentrica: quando pensiamo agli spazi – reali, virtuali – è interessante relativizzarli dal punto di vista dell’anthropos al centro e quindi pensare di concepire uno spazio di vita, casa, territorio che sia intraspecifico ma anche interspecifico, cioè che si relazioni con le altre specie viventi.  

LP: Un altro tema piuttosto attuale e nodale è legato al rapporto tra lo spazio interno ed esterno, nella quotidianità – anche cittadina, vista, per il momento, l’impossibilità di occupare spazi interni di ristoranti, bar etc., – ma non solo…
AS: Sì, a mio parere quello di interno ed esterno è un altro punto importante: per quanto riguarda la casa, dovremmo ripensare a un abitare più elastico. Cosa intendo? Un’espansione nei confini di quello che Gilles Clement definisce terzo paesaggio. La casa non può più essere solamente un luogo in cui dormire, mangiare o dove stiamo rinchiusi a livello mononucleare. Deve diventare un territorio in cui intessere relazioni… Ecco, la casa dovrebbe divenire un abito, una costruzione identitaria. E come qualcosa relativo ai commons, al bene comune esperito realmente nello spazio attraversato quotidianamente nella comunità in cui ci si inserisce.
Pensiamo all’esterno che entra nell’interno (mi riferisco più in generale alla vegetecture, che concepisce le piante come parte degli interni, alle costruzioni ecologiche fatte con recuperi di intonachi di terrapaglia etc.) e poi la casa che si estende, si dilata dall’interno all’esterno, in città come in campagna. Per esempio: perché i parchi urbani che frequentiamo devono essere delle monocolture del prato all’inglese? La morte della biodiversità…
Il problema di base è pensare noi, in quanto esseri umani, come distinti dalla Natura. 

LP: Mi viene in mente un passo in Palomar, Il prato infinito, in cui il signor Palomar analizza il giardino e, di fatto, ne riconosce l’artificialità. Noi non fuggiamo dalla città per immetterci nella natura… è un tutt’uno…
AS: Esatto, natura e cultura non sono una dicotomia ma si compenetrano a vicenda. Noi esseri umani non andiamo nella Natura, siamo Natura.
Tuttavia, il nostro modo di concepire lo spazio esterno alla casa è sempre più gerarchico e omologato. Riconoscere l’assenza di distinzione tra l’essere umano e la Natura non può far altro che giovare a noi, come a tutte le specie che abitano il Pianeta. Se la nostra mente si apre all’esterno, come il territorio e lo spazio finiremo per stare meglio noi e anche tutto ciò che ci circonda.

LP: Qui mi viene in mente tutto il dibattito relativo all’apertura e chiusura delle scuole… Luoghi di contagio… ai ragazzi che prima volevano marinarla, ora pare non ne possano fare a meno… Anche in questo caso, a mio parere, il centro del problema non è la scuola in sé – o, per lo meno, non solo – ma la struttura architettonica che la identifica. Se ci pensi, da quando siamo piccoli andiamo all’asilo, alle elementari, medie, liceo… sempre chiusi in una aula per poi sperare di “scappare” all’aria aperta… La scuola andrebbe proprio rifondata. Si finisce poi per non riuscire a pensare a un’alternativa al luogo chiuso.
AS: Esatto espandere l’interno nello spazio esterno. Per esempio per me l’idea del critical gardening è centrale nel ripensamento dello spazio, perché quando ci si attiva a livello muscolare oltre che mentale per creare del cibo, si riattiva anche la comunità. Si creano relazioni e lo spazio viene sentito e protetto da chi lo abita. Vivere uno spazio attraverso un’economia circolare che sappia creare e fondare relazioni differenti (tipo i box del dono che ci sono a Berlino o la biblioteca degli oggetti)…Una pratica, tante pratiche che ribaltano l’immaginario della città come mostro di cemento, un esperimento di vita consapevole, un orto pensato come spazio micropolitico, un coltivare come forma di protesta. Per usare le parole di George McKay: una politica orti-controculturale. Le persone che praticano il Critical Gardening cercano di riappropriarsi di spazi urbani.Un orto urbano si può creare in vasi su balconi e terrazze, in piccole parti di terreno incolto, nei cortili delle scuole, in terreni lasciati al degrado, in appezzamenti condivisi tra palazzi. Tutte le persone che praticano il Critical Gardening approfittano degli spazi inutilizzati dando loro un senso: portano in città l’orticultura, il contatto con la terra e una più profonda consapevolezza dell’alimentazione, trasformando la quotidianità da consumista a produttrice, sostituendo il grigio del cemento con il verde delle piante. Portare la campagna in città significa anche adeguare il ritmo urbano a quello della natura, ma allo stesso tempo tenere conto delle caratteristiche di un orto urbano, condizionato dalle trasformazioni della città.
In un’epoca in cui tante cose vanno necessariamente ripensate, anche per quanto riguarda il modo di costruire e abitare molti cambiamenti sono già in atto in tutto il mondo. Si tratta di modelli virati verso la costruzione di una società più sostenibile per l’ambiente e insostenibile per il sistema turbocapitalista che ci opprime. Il concetto di casa ecologica che presento nel mio nuovo libro La casa vivente (ADD editore) è inscindibile da un cambiamento radicale dei nostri stili di vita e soprattutto da una svolta economica, politica e sociale.L’ecologia non può slegarsi dal sociale; se lo fa è uno specchio per le allodole esattamente come la green economy. La teoria e la pratica dell’ecologia sociale sono consapevoli del fatto che l’attuale crisi ecologica sia un prodotto del capitalismo. Lo sfruttamento vigente delle risorse naturali corrisponde a un orientamento psicologico della società gerarchica e del dominio, fondata sul binomio comando-obbedienza. L’ecologia non può che essere ecologia sociale, attenta cioè per prima cosa a “depurare” le relazioni da ogni forma di coercizione e gerarchia, per valorizzare la varietà, la simbiosi, la libertà. Non si può quindi essere ecologisti senza essere allo stesso tempo contrari all’autorità e alla gerarchia. Come scrive Murray Bookchin «l’ecologia, o è sociale o non è»