Per iniziare volevo chiederti: qual è la tua idea di mostra?
Per quanto mi riguarda, anche se forse può sembrare una cosa negativa, credo molto in una forma di sano egoismo rispetto all’idea di mostra. Mi considero il primo spettatore delle mostre a cui lavoro: credo che sia l’artista che il curatore abbiano un livello di godimento personale nel vedere quelle opere allestite in quel dato spazio, in quella data maniera. Naturalmente anche il pubblico è importantissimo, ci mancherebbe. Diciamo quindi che la mostra è il luogo in cui vanno a convergere due aspetti: da una parte l’incontro con il pubblico e le sue aspettative, dall’altra l’incontro con le intenzioni, le volontà, i desideri dell’artista in primo luogo e poi del curatore.
Sono due figure che devono necessariamente dialogare, non che questo sia facile, magari perché l’artista ha una sua idea di come vuole che l’opera venga esposta e forse non potrà mai avere quello sguardo più esterno, che presumibilmente il curatore dovrebbe avere… Ma, comunque, ti devi capire con l’artista.
Hai detto una cosa assolutamente centrale. Il rapporto tra curatore e artista, anche in senso positivo, è fatto di conflittualità, di visioni che a volte si incontrano e a volte entrano in frizione. Penso a un piccolo episodio personale. Recentemente ho curato una mostra di Fabrizio Prevedello alla galleria Cardelli & Fontana, a Sarzana. È stato per me particolarmente gratificante il percorso fatto con l’artista, dalle visite allo studio alle scelte legate all’allestimento: uno scambio continuo nel quale abbiamo confrontato idee, incrociato sguardi, messo in discussione punti fermi… Per esempio, la decisione di “foderare” le pareti della galleria con una fascia di cartone ondulato – come poi è stato fatto – non era semplice da prendere, ma ho supportato Fabrizio in questa scelta, convinto che avrebbe dato un ulteriore “carattere” allo spazio e, dunque, all’esposizione. In questo senso, per tornare alla prima domanda che mi hai fatto, sento che la mostra è anche qualcosa che tende a creare un discorso, un’esperienza legata a un preciso momento.
Alla luce di quanto mi hai detto, qual è il rapporto che instauri con il pubblico? In qualche modo mi hai risposto, dicendo che tu ti consideri inizialmente come parte una del pubblico, ma forse vuoi aggiungere qualcosa.
Prima ho parlato del piacere che devo provare in prima persona: piacere a più livelli, non solo epidermico o retinico, ma anche il piacere di vedere un’idea che prende forma. Tuttavia, torno a dire, il rapporto con il pubblico è decisivo; in questo senso, per come la vedo, credo molto nel curatore come medium, come elemento intermedio tra l’opera dell’artista (la sua poetica, la sua visione…) e lo sguardo del pubblico. Sinceramente credo che non ci sia quasi nulla al mondo che non abbia bisogno di parole o a cui le parole non possano comunque aggiungere qualcosa. Certo, l’opera è là, esiste a prescindere dalle parole: ma il dibattito che si innesca, lo scambio intellettuale, critico, secondo me sono parte vitale del discorso artistico. Per questo considero molto importanti tre aspetti dell’attività del curatore: il primo è la componente testuale, la scrittura. Il secondo è l’allestimento, che deve tenere in considerazione il movimento nello spazio di chi visita la mostra; e il terzo è la possibilità di presentare la mostra al pubblico, quindi la capacità di poterla raccontare a parole.
Cambiando argomento, come ti sei servito del digitale in questo momento assurdo di pandemia e come l’hai usato nel tuo lavoro?
Personalmente non uso Instagram e anche su Facebook non pubblico quasi mai niente… Di questo periodo assurdo che stiamo vivendo, come lo hai definito tu, ho apprezzato tantissimo il ritorno della newsletter: quella della Treccani, il “Bulletin” del Macro, ma penso anche a Fatima che è una newsletter molto bella e intelligente. Come canale di comunicazione a me piace molto perché rappresenta quel punto d’incontro tra “velocità” e informalità dei contenuti e la necessità, la voglia e il piacere di approfondire.
A proposito di comunicazione, che ruolo ha nel tuo lavoro?
È importantissima. Un buon comunicato stampa, per esempio, è già un’ottima base per capire la tenuta anche concettuale di una mostra. Scrivere un comunicato con un certo linguaggio può anche invogliare gli organi di stampa a parlarne e il pubblico a visitarla. In un mondo in cui tutto è mediato da continui passaggi sui social e sulla stampa (specie online), è molto importante farlo bene, esserci. Un buon ufficio stampa è decisivo alla riuscita di una mostra, e una cosa che avverto molto spesso è che se il progetto non è buono, anche l’ufficio stampa ne risente e fa fatica a comunicarlo. E quindi anche lì ci deve essere molta sintonia e bisogna trovare dei punti di interesse che non siano soltanto quelli interni al discorso artistico, ma che magari possano anche toccare l’attualità.
Certo, bisogna arrivare anche con brevi frasi a dare risalto al contenuto, ad attirare oltre che a informare.
Concordo totalmente. E, in generale, quando in occasione di una mostra c’è qualcuno che si occupa in maniera specifica della comunicazione, cerco sempre di ascoltare molto il suo punto di vista.
Invece riferendoci a cose più personali, c’è stato un momento, un episodio oppure un accadimento che è stato particolarmente importante per te e per la tua formazione?
Sì, i fumetti; ricordo ancora la prima volta che sono andato in edicola. Per me i fumetti (soprattutto quelli pubblicati dalla Marvel) sono stato il primo banco di prova per il “riconoscimento” visivo: vedere l’Uomo Ragno disegnato negli anni Settanta e poi negli anni Novanta mi ha aiutato a capire subito come i momenti storici potessero influenzare lo stile nel rappresentare lo stesso soggetto. Poi, mi pare che avessi dodici anni, ricordo quando vidi forse la prima opera di arte contemporanea, la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, esposta a Città di Castello. Capii che c’era qualcosa, una frizione che mi piaceva: questa scultura bianca, classica, e questi stracci colorati… Un cortocircuito c’è stato, ne sono sicuro. E poi ammetto che avere un fratello di otto anni più grande ha accelerato alcuni interessi. Sono cresciuto circondato da albi di Dylan Dog (ancora un fumetto!), libri di H. P. Lovecraft… E non posso di certo dimenticare le puntate della serie Twin Peaks di David Lynch, alla cui visione assistevo con un misto di eccitazione e timore, sempre in compagnia di mio fratello. Sono tutte suggestioni che hanno inciso sulla mia formazione e che, in parte, hanno ispirato l’atmosfera “weird” della prossima edizione di straperetana, che curerò in collaborazione con Paola Capata, Delfo Durante e Matteo Fato nel piccolo borgo di Pereto, in Abruzzo.