1.Dell’apparire non si può fare a meno, o così pare. Anzi, è uno di quei concetti che esigono una continua ridiscussione, ciò che da un lato ne prova l’inevitabilità, dall’altro è un chiaro indice dell’impossibilità di darne una definizione incontrovertibile e universalmente valida. Nel nostro presente, per di più, la necessità del ricorso e contemporaneamente della ridiscussione del concetto di “apparenza incarnata” sembra ancora più urgente del solito, perché l’idea secondo cui “la diversità conta”, veicolata dal multiculturalismo, spinge a chiarire che cosa propriamente “l’apparire tatuato” mostri e quali siano i suoi rapporti con lo stato estetico ed etico delle differenze artistiche. Tuttavia, stabilire che cosa sia il tatuaggio come fenomeno di espressione artistica alta o bassa non è la questione che qui mi interessa, semplicemente perché la ritengo indecidibile. Intendo con ciò affermare che, prima di poter parlare di fenomenologia del tatuaggio, si dovrebbe dimostrare che esso è costituito da caratteristiche più o meno individuabili ed enumerabili, tali da fornire la struttura ultima della sua definizione. Ma, dal mio punto di vista, ciò presuppone a sua volta già l’assioma secondo cui il tatuaggio come rimasterizzazione del corpo esiste, senza però essere in grado di fornire alcuna argomentazione conclusiva, convincente per chiunque. Ne consegue che se si può – e si può – argomentare contemporaneamente che l’immagine tatuata esiste e che la retinicità non esiste, siamo di fronte ad una questione indicibile dal punto di vista del pensiero estetico razionale, mentre la risposta positiva o negativa è soltanto una questione di prospettiva e di dimensione semiotica, per così dire, e non di gusto della linea retinica o aretinica.
Tuttavia, benché rifiuti di dare una risposta definitiva, la mia personale preferenza va in direzione della risposta negativa, semplicemente perché mi permette di accedere con maggiore facilità a prospettive solitamente escluse dall’analisi di chi invece ritiene che l’immagine tatuata sussista e sia fatta (più o meno in un certo modo). Dunque, il presupposto di questo scritto, che non espliciterò più ampiamente, è che l’immagine tatuata non esiste, ma è soltanto una costruzione dell’industria culturale destinata ad essere continuamente superata nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi, una ‘tecnosi’ di esperienza che “portiamo, mostriamo, diveniamo e vestiamo”, in molte ‘tatuazioni’. È questo anche il motivo per il quale dichiaro fin da subito la mia attenzione per gli approcci post-dada e trans-dada alla questione del tatuaggio in generale e del tatuaggio-chiasmo e di risemantizzazione; mentre mi pongo in modo critico nei confronti delle teorie trasformiste, delle strategie di occultamento del corpo e anche degli studi che giustificano tutte le manifestazioni di retinicità e aretinicità dell’azione tatuante! Tra le esperienze che distinguono la crisi della socializzazione e del rituale dei gruppi sociali odierni, il “consumo di tatuaggi” ha rappresentato, nell’era dei media di massa, una base sostanzialmente condivisa. Individui appartenenti a gruppi sociali diversi, soprattutto se nella stessa fascia d’età, hanno cioè finora esperito “diete tatuanti” in gran parte collegate. Questa situazione è stata concentrata da una determinante del rituale su pochi rapporti mediali controllati da un ready-made. In questo modo il consumo mediale del “dolore e della ferita” è diventato, insieme alla body art, all’industrializzazione del simbolico, un fattore di riconoscimento (nascondimento, enigma, segreto) tra gruppi che hanno, al di fuori di questi ambiti (la socialità artistica allargata), esperienze contrastanti.
La crisi dell’arte contemporanea, durante il XX sec., si è così riconfigurata assegnando al microdolore e alla microferita del tatuaggio, un ruolo rilevante nel mantenimento della propria integrazione. Il ‘simbolico’, come abbiamo già visto, diventa la figura stessa dell’invertibilità, ovvero, di un rovesciamento di tutti i codici e di tutte le opposizioni distintive che fondano i sistemi dominanti (soggetto/oggetto, significante/significato, maschile/femminile, vita/morte, corpo/anima, tatuatore e tatuato ecc.); un rovesciamento, appunto, non persuasivo, ma parossistico e paradossale. Siamo in una società che ha ‘de-realizzato’ il reale (il principio di realtà) e, con esso, ogni sua opposizione all’immagine e alla fandonia. Con la seduzione del tatuaggio il principio di reversibilità acquista un nuovo spessore teorico, designando il primato ironico e fatale del ‘corpo invasato dal tatuaggio’. Anche qui, sotto il segno della seduzione del tatuatore, della geografia degli script, si tratta di risvegliare un principio dualistico, antagonista: una sfida, un artificio, un gioco ineluttabile, il gioco stesso dell’alterità radicale, della supremazia dell’Oggetto che prende l’iniziativa della reversibilità e quella di sedurre e sviare. Oggi, l’avvento dei media digitali oltre ad espandere le opportunità strutturali dei media stessi, ma anche di creazione, archiviazione e condivisione di massa, rappresenta il mondo dei combattimenti con cui hanno fatto i conti tutti i caratteri di conflittualità del rito sociale. Nei modelli più semplici del rapporto comunicativo mediale, il pubblico tatuato è l’insieme dei fruitori di una certa trasmissione di monetizzazione dell’immagine fisica. Esso reagisce al messaggio come massa atomizzata e indistinta. Isolando il primo di questi fattori, la domanda che è opportuno porsi nell’attuale contesto di cambiamento è: quali sono le possibili reazioni del pubblico a una crescita quali-quantitativa dell’offerta tatuaggio?
Di fronte alle nuove tecnologie della comunicazione, i pubblici usufruiscono di una gamma di possibilità di consumo che è quantitativamente e qualitativamente più ampia rispetto a quella a disposizione dei pubblici dei media tradizionali. Resta dunque solo, inesorabilmente, l’oggetto tatuato: solo l’oggetto come «attrattore strano» e praxis della relativa nuova bellezza. Ciò presuppone la definitiva scomparsa del soggetto tatuato, del soggetto produttore e del loro desiderio. È nell’oggetto che, parossisticamente, si espone (attraverso il corpo) la forma suprema dell’alterità radicale, in un ‘altro assoluto’ che non è più il luogo del desiderio o dell’alienazione, ma della vertigine, dell’eclissi, dell’apparizione e della sparizione. Ed è di qui che si apre la via del tatuaggio macchinico quale alterazione essenziale dell’identità e del soggetto, quale «eccesso dell’altro e dell’alterità», «vertigine del più diverso del diverso». In altri termini, tutto il destino del soggetto si trasferisce nell’oggetto. Alla causalità universale il segno inciso sostituisce la potenza fatale di un singolo oggetto.
Dietro questo spostamento si dispiega tutta la sorte del messaggero tatuato e l’astuzia del mondo. La seduzione della macchina e della rete dei tatuaggi ne è parte come condizione originale: è ciò che svia, che fa rientrare il reale nel gioco dei simulacri, nella reversibilità ‘originale’ delle cose; è ciò che fa esistere il mondo prima della sua stessa produzione di segni: “si può sostenere – scrive il tatuatore di turno della tattoo – che prima di essere stato prodotto, il mondo è stato sedotto, che esiste, come tutte le cose e noi stessi, solo per il fatto di essere sedotto”. Ben prima che il gioco del tatuaggio – eufemismo con cui i soggetti istituzionali si riferiscono al fenomeno del tatuaggio, misconoscendolo – diventasse oggetto di allarme sociale a causa della sua diffusione presso tutti gli strati sociali, la categoria del tattoo potrebbe rivelare la sua fecondità euristica, in diversi autori della critica classica e contemporanea. Se l’illusione muore per un eccesso di realtà, la seduzione risveglia e resuscita il principio del Male che ordina la reversibilità fatale dello script nel sangue. Il suo linguaggio è quello dell’inchiostro magnifico, che passa attraverso l’ago del tatuatore. È questa la sua ambigua vertigine, la sua sfida fatale: la capacità di accedere alla potenza superficiale (e sacrificale) dell’inchiostro, al suo gioco di apparenze, alla sua indifferenza sovrana verso le leggi che gli vogliamo continuamente affibbiare; il suo essere «l’effetto di un regime di affabulazione sovrano che ricrea nel fruitore lo scompiglio originario e cerca di sorprenderlo. Certo, gran parte della nostra cultura (scientifica, sociologica, filosofica, psicoanalitica), così impregnata del soggettivismo prospettico e così sensibile alle costruzioni (e decostruzioni) ermeneutiche, si affanna ancora a cercare sistemi di senso e di interpretazione tendenti ad una comprensione razionale e oggettiva del mondo ovvero, in senso weberiano, ad una completa razionalizzazione del mondo. Eppure, a questo costume sembra sempre sfuggire l’oggetto della sua stessa comprensione, la ‘verità’ di quel ‘mondo’ che si sottrae violentemente, aretinicamente, ad ogni legge e ad ogni interpretazione. Tutto, allora, fatalmente fluisce dalla punta dell’ago inchiostrato nel sangue: un’azione di reversibilità realizzata, un ready made della mediamorfosi e della bellezza del corpo. È questa, pertanto, la sfida lanciata dal tatuaggio: restituire all’oggetto-corpo la sua potenzialità seduttiva, liberarlo dalle incrostazioni aretiniche del ready-made, dalle pretese artistiche e morali del soggetto, dalle «metastasi» del senso.
2.Qual è oggi quella carne, quel soggetto, quel ready-made, quello script che mentre tu lo vedi, al tempo stesso, ti fa vedere un’altra persona? Bisognerebbe dare un po’ di tempo per far avvicinare il “fruitore (sociale)” ad una risposta ma, se proprio si vuole, la soluzione è questa: il tatuaggio! Vedi un segno tribale, un blackwork, un handpoke, una tacca realistica, un lettering, old school, watercolor, neo traditional con un inchiostro inciso sul corpo umano e una manciata di colori forti, tenui o mediani, ma quell’oggetto ready-made tende a farti vedere dell’altro. Può rappresentare un personaggio che non avresti mai potuto conoscere dal vivo perché vissuto tanti secoli fa, può farti vedere la dinamica di un episodio passato, può descrivere un paesaggio lontano o sconosciuto, o addirittura immaginario, e tanto altro! Ma, soprattutto, può raccontarti sentimenti e trasmetterti sensazioni, può suscitare passione e trasporto emotivo. Questo fa il tatuaggio e lo fa sublimando il corpo umano. La scrittura tatuata è una cosa, un oggetto, un ‘pre-manufatto’, che non è solo nell’immagine di sé stessa, ma che dice altro da sé. Risulta di fondamentale importanza prestare attenzione alla tipologia di inchiostri dei tatuaggi utilizzati. Molti di questi infatti, oltre a contenere pigmenti organici, sono formati da numerose altre sostanze (spesso tossiche) quali conservanti e contaminanti come nichel, cromo, manganese e biossido di titanio. Infatti, molto spesso il pericolo risiede proprio nella composizione chimica dell’inchiostro, anche questa sostanza può far parte della morfologia dell’altro con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. Insomma, lo scetticismo, nei confronti dell’industria culturale, in questo caso, produce le seguenti domande. Chi è il tatuatore? “È molto importante accertarsi che la persona che tatuerà la vostra pelle abbia le competenze necessarie per farlo. Verificate quindi che disponga di tutte le licenze ed i permessi necessari per esercitare la sua professione”.
L’attrezzatura utilizzata è appropriata? “Prestate molta attenzione anche agli attrezzi presenti nello studio”. Sono davvero convinto di volermi tatuare? “Avete scelto con attenzione quale parte del corpo tatuare?”. Tutte queste perizie sono più che necessarie per evitare di imbattersi nelle più comuni problematiche legate al mondo dei tatuaggi e soprattutto per capire il valore reale e non surrealista di questa impresa. Tra queste citiamo le “reazioni allergiche” (che possono portare a conseguenze anche molto gravi), “patologie infettive” (nel caso in cui gli attrezzi non siano correttamente puliti e sterilizzati), “sepsi e cicatrici”, causate magari dalla poca esperienza del tatuatore o da un suo errore. Con la procedura del tatuaggio viene compromessa la barriera cutanea e la ferita può anche essere soggetta a infiammazioni purulente. Qui il tatuaggio procede verso la sua natura acquisita, ovvero la dimensione del ready-made.
Il tatuaggio è sempre nell’altro, è sempre altro: «aboutness». Il tatuaggio è «about», è a proposito di qualcosa, rimanda a qualcos’altro da sé, rimanda ad un corpo che è al di là del suo stesso corpo. E tale caratteristica è uno dei motivi per cui il tatuaggio è sempre stato e resta uno strumento nelle mani del media incarnato, nel media-script del sangue. Rimandare ad altro del proprio corpo, significa relazione di senso ed alienazione di senso, contatto con qualcosa o qualcun altro, senza il quale il primo acquista il significato di medio: in media stat signum? Ad esempio, un blackwork è intimamente legato al corpo della persona che lo “guida”, anzi la persona si fa messaggero, trans-conduttore mediale. Il corpo tatuato è ciò che pone il messaggero in contatto con il mondo. Vorrei ribadire che, secondo la filosofia contemporanea, il soggetto animato “non ha un corpo”, ma “è un corpo”. Seguendo questa concezione, corpo ed anima non sono divisi. Pure ammettendo che tale separazione ci sia, il corpo può fungere da veicolo per la crescita e per l’espansione della medialità campionata … Il soggetto omerico non aveva cognizione della conservazione dopo la morte, veniva dato grande virtù alla vita del soggetto agente sulla terra, un’esistenza degna di essere vissuta nella sua fugacità; la mente e lo spirito, infatti, erano piuttosto un’ombra.
Nella dottrina di Platone si può evidenziare la presenza di uno sguardo oppositivo verso tutto ciò che è corporeo, come se egli fosse un delegato dell’orfismo. Nel Fedone stringe tutta la cultura dell’anima come conformazione eterna di imparzialità, splendore e mansuetudine: una visione, un “sensore negativo” (cfr., G. Perretta, Il sensore che non vede, Paginauno, Milano, 2023, pp.62-71) verso tutto ciò che è corporeo in una ideologia orfica. Nel Timeo c’è una soluzione più adeguata, nella quale Platone supera esplicitamente l’idea orfica, dando una capacità positiva al corpo. Il Fedro, vede il corpo come uno spazio in cui l’amore è rivelato all’uomo e con esso una specie di “follia divina” che invita l’uomo ad uscire da se stesso. L’amore che l’uomo scopre nel proprio corpo, diventa ascesa verso il divino. Possiamo concludere che Platone aveva un’idea positiva del corpo come simbolo e come segnalatore delle effettività più alte, come scala verso la felicità piena. La rispettabilità del corpo è formata proprio nell’aprire la strada alla trascendenza, mentre l’uso contemporaneo del tatuaggio è una forma di trasgressione pianificata dall’industria del consumo. Aristotele nel De Anima, offre un’espressione dell’unità dell’anima e del corpo che sembra insormontabile: l’anima è la struttura del corpo, del corpo che ha la vita in potenza. In questo modo, corpo e anima sono co-princìpi che si determinano l’un l’altro e costituiscono un’unità “complessa”. Platone e Aristotele si sono mossi entrambi oltre la comprensione omerica, arrivando a determinare uno speciale modo di essere dell’uomo, grazie alla distinzione tra corpo e anima nella loro unità. La modernità ha aperto la strada ad una nuova comprensione del corpo, ispirata dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dalla filosofia che ne è associata. Descartes getta le basi per questa nuova visione con l’indistinzione tra res cogitans, la cosa pensante, e res extensa, la materia o cosa estesa. La fisicità venne sempre più considerata come estranea all’umanità della persona, uno dei tanti oggetti del mondo attiguo, che è un mondo già sfornito di espressione.
Hans Jonas spiega l’enigma della modernità, che ostacola l’uomo nel vedere un quadro più ampio di riferimento in cui sistemare i propri atti: egli è lasciato solo con se stesso nell’analisi di identità e di senso. Jonas intuì che, in questa occasione, il dibattito sul corpo era diventato inaspettatamente fondamentale per la filosofia. Il corpo, irremovibile sia alla pura mente, sia alla pura concretezza, costituisce il collegamento fondamentale tra l’uomo e ciò che lo circonda (così come l’arte, potremmo dire che il corpo è ciò che contiene l’arte di tutti e in tutto; siamo tutti potenzialmente artisti), tra coscienza pensante e il cosmo, quindi saremmo tutti potenzialmente tatuabili. Il corpo vivente, la cui “forma esterna” (non la sola parte che ci è data di incidere) è organismo e casualità e la cui forma intima è “esistere”: sé e finalità. Questo è l’argomento dell’ancora irrisolto quesito dell’ontologia su cosa sia l’essere.
Il corpo è il cardine fondamentale della comprensione dell’uomo, affermazione condivisa da tanti altri filosofi contemporanei (vedi: Gabriel Marcel, Michel Henry e Paul Ricoeur). Ulteriori, filosofi francesi contemporanei (come Maurice Merleau-Ponty e Michel Foucault) attingono al “discernimento interiore” come a qualcosa di correlato con il “corpo” nel rapporto originario con il mondo e non con una matrice, proveniente da una macchina che ci restituisce solo dati e fenomeni. Il corpo è interpretato come qualcosa da cui il soggetto non può necessariamente “escludersi”, che lo pone in “vicinanza” con il mondo esterno. Soltanto il corpo, e ciò che noi facciamo di esso, mette il “soggetto contemporaneo e il suo stesso io” in contatto con il mondo. La corporalità, la sua trascrizione, e il suo tentativo di misurarsi in qualcosa di più o di meno del lavoro di una macchina, permette all’uomo l’idea della fedeltà al mondo. Il progetto filosofico di M. Merleau-Ponty riconferma perciò la riduzione fenomenologica del nostro essere al mondo e con il mondo attraverso un corpo. Il soggetto contemporaneo non deve trasformare il pensiero vissuto sul corpo e nel corpo in una ‘ex-carnatione’, ovvero non deve togliere alle cose i loro caratteri sensibili per ridurli all’astrazione dei concetti, ma deve conservare la propria autenticità al di là di qualsiasi carneade post-organica o di ribellione che si nasconde dietro al corpo senza organi. Questo progetto di riconversione moderna del “sé materiale”, attraverso il corpo, invita la persona una volta di più al godimento delle apparenze, in quanto superfici date dall’originario, all’apprezzamento della corporeità come materialità stessa del suo essere, ossia di quello che non deve essere svalutato come transitorio che con l’invecchiamento si trasforma in brutta superficie conservata (e potremmo dunque considerare l’esperienza del tatuaggio una forma di marchiatura dall’esito transitivo, perché il corpo è soggetto a cambiare e quindi quella che viene considerata la “bella superficie adulata e stirata si consegna a l’ ‘aere perennius’).
La morte del corpo sta a significare la sua importanza e la sua temporaneità rispetto all’opera d’arte. L’uomo deve restare non nel corpo come “macchina tatuata”, come prolungamento del “medium senza alcun messaggio”, ma nel corpo come “messaggero di comunicazione” e passaggio “verso un fine”. Il tatuaggio è caratterizzato dal valore aggiunto della relazione. E la relazione non è anche il segreto dei codici e dei simboli che il soggetto riporta nella sua storia, nella sua biografia? È parte dell’esistenza tatuarsi sul proprio corpo, accettare la scarnificazione effimera del proprio derma o quella sul corpo dell’altro senza avere un equilibrio mediale? Il tatuatore è ‘script’ legato al tatuato, è tatuato innestato alla macchina dei copioni che lo hanno generato, è spirito infuso dal medium del tatuatore verso il comportamento fatico del tatuato. L’arte del tatuaggio proclama la trinità, la quale è eterno rimando dell’uno all’Altro e nell’Altro. Questo rimando, questa relazione, si chiama immagine del corpo, “sequestro del proprio”, “alienazione dall’originario”, trans-emozione, svalorizzazione del percorso diretto della persona, esposizione e riproduzione, in sostanza è tutto ciò che rimanda ad altro e ad un altro! Il corpo non può essere reificato a costituzione dell’oggetto, perché differentemente dalle cose che lo raffigurano, dopo essersi tatuato e da cui si può distogliere l’attenzione, esso viene percepito nella coscienza, rendendo possibile la conoscenza degli oggetti esterni e della realtà.
Il corpo diventa apertura al mondo grazie al fatto di essere essenzialmente soggetto e non un mero oggetto o aggregato di parti. Quindi dopo essersi tatuato che succede, ritorna ad essere oggetto? Merleau-Ponty, scrive in Il visibile e l’invisibile: «il mio corpo è, al più alto grado, quello che è ogni cosa: un questo dimensionale. È la cosa universale. Ma mentre le cose divengono dimensioni solo in quanto sono ricevute in un campo, il mio corpo è questo campo stesso», ogni cosa tangibile «varia attorno a un certo tipo di messaggio di cui non possiamo avere l’idea se non in virtù della nostra partecipazione carnale al suo senso, se non sposando con il nostro corpo la sua maniera di ‘significare’» (in sintesi; 1964, Gallimard postuma, a cura di C. Lefort). Nel corso del Novecento si apre infatti una crisi delle scienze positiviste, che non investe la loro scientificità, bensì ciò che esse possono significare per l’esistenza umana, in quanto estromettono quelli che sono i problemi più rilevanti della soggettività e la coscienza di sé. Esse hanno smarrito il senso del corpo, staccandosi dall’intelligenza dell’esperienza umana e personale. Il termine corporeità deriva dal latino medievale corporeitas, desunto da corporeus (corporeo), e significa sia l’avere un corpo che l’essere un corpo. Questa polarità diviene un punto cruciale nel movimento fenomenologico che si sviluppa nel corso del Novecento, un punto epistemologico, gnoseologico, etico, estetico e antropologico, ponendo maggior enfasi “sull’essere corpo”. Assolutizzando l’oggettività, la cultura positivista tronca il legame originario del corpo con il mondo, rimuovendo ogni singolare esperienza del soggetto, il tatuaggio, invece, pensando di risingolarizzare appiattisce e spersonalizza: tutti i tatuaggi equivalgono alla mano dell’industria culturale e del tatuatore. La tatuazione crede di descrivere la realtà in modo universale e necessario, ma in realtà strumentalizza soltanto l’arbitrarietà della sua oggettivazione, poiché la pianificazione tatuata che si sta sviluppando tra le classi più povere e meno agiate prescinde dal corpo e dal suo mondo percettivo e intuitivo. Il fine della fenomenologia del corpo libero è quello di far riscoprire che il senso del mondo e il senso delle cose sono posti da noi e possono essere colti in virtù della nostra particolarità; il soggetto, in quanto corpo, e il mondo sono due polarità della stessa realtà.
La corrente fenomenologica vuole disfarsi dei dualismi tra soggetto e oggetto, tra essere conoscente e essere conosciuto, tatuatore e tatuato per occuparsi della rifrazione della vita, della dimensione soggettiva della percezione libera, della conoscenza e dell’etica della liberazione (vedi Archivio Foucault, 2. 1971-1977). Il fine della liberazione è quello di reinterpretare il mondo come una realtà intimamente correlata al soggetto, mentre l’oggettività acquista senso solo in virtù della soggettività, ovvero attraverso l’agire intenzionale della coscienza umana. Essa ricopre quel valore della corporeità, che per l’uomo evidenzia il riappropriarsi di una percezione che avevamo perduto, e di un valore che la “ragione quantificante” aveva cancellato e reificato. Naturalmente per smentire tutto il lavoro fatto dalla fenomenologia e dall’umanesimo l’intelligenza artificiale, genera disegni originali e unici, che non saranno più scelti dai cataloghi o copiati da libri e siti web. È così che si possono creare disegni completamente personalizzati sulle “richieste sociali”, con uno stile e una complessità che vanno anche ben oltre l’immaginazione del tatuatore. L’utilizzo dell’AI permette di focalizzarsi su una forma di narrazione unica e di smentire la critica stessa al positivismo. Il cliente può spiegare al tatuatore i temi, i ricordi, gli eventi che vorrebbe riassunti in un’immagine e l’artista può affidare agli algoritmi, attraverso l’utilizzo di parole chiave, lo storytelling per ottenere un’immagine che non è mai esistita prima, adoperandola poi come base per effettuare ulteriori modifiche, guidate dalla sensibilità artistica riproducibile.