La galleria Hyunnart Studio, di Viale Manzoni a Roma, per la cura di Mario de Candia, ci propone ancora un appuntamento con la ricerca artistica degli ultimi decenni, indagata, nella nostra capitale, attraverso il lavoro dei suoi protagonisti più lucidi ed attivi. Ad utilizzare lo spazio, messo a disposizione da Paolo di Capua, questa volta è Francesca Tulli che ha colto l’occasione per portare ad unaprima forma di compimento un nuovo ciclo di lavoro che da tempo premeva in qualche modo sulla sua immaginazione.
Si tratta di piccole sculture che, a partire da una prima serie di schizzi a matita, sviluppano con sempre maggiore puntualità un tema che, a rigore dovrebbe, contrastare con la loro sobria eleganza: quello dell’essere umano che si nutre del proprio corpo.
Un tema che la Tulli tende implicitamente a distinguere da quello, per così dire, conclamato, dell’Antropofagia vera e propria, storicamente ed etnologicamente documentata, nonché ampiamente esplorata dalla storia dell’arte a partire dai suoi risvolti mitologico-letterari fino a giungere alla creazione di veri e propri manifesti legati al riscatto di intere aree culturali nei confronti dei cascami del colonialismo.
Ciò che ci consente di fare una distinzione così netta, è in realtà sotto gli occhi di tutti, o se si vuole, facilmente deducibile, per chi non conosca il percorso fin qui seguito dalla Tulli, dal fatto che la nuova tematica che vediamo snodarsi progressivamente sulle pareti dello spazio espositivo utilizzato, non fa capo ad una qualche energica rivoluzione stilistica o linguistica che che si vuole cavalcare o lanciare, come fu per il Barocco o per l’avanguardia Espressionista, ma si basa esclusivamente su quello che potremmo definire il bagaglio standard di conoscenze e capacità di rappresentazione che una buona formazione didattica fornisce oggi a qualunque diplomato. Un bagaglio che viene rispettato non in quanto portatore di certezze relative al vero e al bene o addirittura al divino, ma semplicemente in quanto adeguato a rappresentare tutto ciò che il nostro sguardo può incontrare, anche laddove la combinazione di oggetti e punti di vista possa apparirci immotivata o inusuale.
Proviamo a chiarire meglio ciò che intendiamo attenendoci alla sequenza delle opere esposte. I cinque schizzi a matita cui abbiamo già accennato si trovano sulla parete di destra della stanza d’ingresso appesi al di sopra di una mensola dove, su di una piccola base nera poggia anche una testa in ceramica bianca volutamente compressa e come schiacciata. Il primo disegno a destra, leggermente distanziato dagli altri, rappresenta una figura femminile seminuda che ha però la testa avvolta da una sorta di turbante e il seno come fasciato da una banda di luce anodina. Forse è davanti ad uno specchio, forse si sta preparando ad una qualche abluzione, comunque preme la bocca sul braccio come fosse intenta a succhiarlo o morderlo all’altezza del bicipite. Delle altre quattro una sembra mordersi un polso, l’altra il dorso della mano, l’altra ancora una spalla e l’ultima un dito risucchiato all’interno del cavo orale. Non sembrano aggredire se stesse o volersi infliggere una qualche forma di violenza, semmai verrebbe da pensare che le rispettive parti del corpo prese di mira e la bocca stessa siano coinvolte da una qualche forma di ricerca del piacere rivelatasi loro all’improvviso.
Sulla parete subito a sinistra dell’ingresso incontriamo invece due statuette in bronzo di colore bruno che poggiano ciascuna su un cilindro il cui diametro sembra ricavato dalle loro stesse misure, sulla testa, fra i capelli hanno come delle lame rettangolari che hanno tutte la stessa consistenza e le stesse misure come un prodotto seriale, ma che l’artista ha colorate di giallo quasi fossero porzioni di un dipinto. Questi strani mezzi busti sembrano come eccitati dalla loro stessa tridimensionalità, gratificati dall’abitare la fluidità dello spazio reale, ma anch’essi incapaci di resistere alla tentazione di mordersi mani e braccia.
Giungiamo così alla chiave di tutta l’operazione, che si trova al centro della parete contigua, subito dopo l’arcone che divide in due il locale. Si tratta di una piccola fusione in bronzo, adagiata su di un supporto a sezione quadrata a poco meno di un metro da terra. Rappresenta una figura femminile, disposta come su di un triclinio, le cui gambe però si sono trasformate spontaneamente in una vera epropria lama di coltello. Le misure sono appunto quelle di un oggetto di pregio, magari appartenuto al corredo domestico di questo o quel potente sovrano di una antica civiltà mediterranea. La Tulli che ha fin qui prodotto diversi esemplari di questo tipo di opere è solita chiamarle “armi bianche” o “armi mute”, e ad evidenza le considera come un ulteriore prodotto del suo ascolto delle potenzialità del linguaggio. Questa volta però sembra volerci comunicare qualcosa di diverso: una sorta di decisone che trova nell’opera esposta il suo equivalente simbolico. La lama posta al centro di una sorta di volta prospettica servirà a confrontare l’universo della rappresentazione tridimensionale addomesticata dal quotidiano non più con l’effetto complessivo che la nuova disinibita variazione, al limite della crudeltà, introdotta dall’artista riuscirà a produrre nel riguardante, ma esattamente con la variazione stessa isolata nella sua intera valenza strutturale, non solo nella sua capacità di disturbare il quieto vivere dell’arte, ma anche in quella di dare forma ad una nuova opera auto-significante cui le regole della scultura faranno da mite e silenzioso supporto. Per capire se l’esperimento è riuscito a questo punto non ci sarà che voltare le spalle e guardare alla parete uguale e contraria che si oppone a quella che stavamo osservando. Disposte l’una accanto all’altro e ben relazionate tra loro ecco apparirci quattro testine femminili intente a divorare una mano a partire dal polso, un piede a partire dalle dita, uno a partire dal dorso e uno a partire dal tallone. I titoli sono pasto 1, pasto 2, pasto 3, pasto 4. Tre sono in bronzo una in cera rossa pronta per la fusione, ma già valida in se stessa come opera compiuta.