Ridisegnare lo spazio | LABS Contemporary Art Bologna

Marina Caneve, Giulia Marchi, Andreas Gefeller e Massimo Vitali sono gli artisti chiamati a ‘ridisegnare lo spazio’ attraverso il medium fotografico, secondo un fil rouge ideato dalla curatrice Angela Madesani per la grande campata di Labs Contemporary Art di Bologna.

Spazio definito, disegnato, immaginato, esperito. In quanti e quali modi si costruisce uno spazio? Attraverso la geometria, tramite la percezione, mediante i sensi o attraverso una visione più profonda che ha valenza immaginifica e racconta ciò che, forse non vediamo? La fotografia è un dispositivo che più volte ha cercato di Ridisegnare lo spazio, in maniera diversa e che la mostra appena inaugurata a Bologna da Labs Contemporary Art, a cura di Angela Madesani, si caratterizza per la suggestione di una nuova progettazione spaziale, in grado di allontanarsi da una mera registrazione oggettiva dei dati che, lo spazio, pone a disposizione.

Marina Caneve, Giulia Marchi, Andreas Gefeller e Massimo Vitali sono gli artisti e fotografi chiamati a Ridisegnare lo spazio, secondo un approccio che la curatrice, Angela Madesani, ha così definito: ‘Le opere degli artisti coinvolti non offrono certezza intorno al tema dello spazio. Piuttosto dubbi.’ E nel testo critico chiosa: ‘Mi piace dunque chiudere il testo con un’ulteriore citazione di Perec: «Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, disegnarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo». Così per gli artisti in mostra, che ogni volta conquistano lo spazio a fronte di studi e ricerche che li e ci traghettano verso differenti letture possibili del circostante.’

Lo spazio, dunque, diviene soggetto metareale e suggestivo di un racconto che, attraverso gli scatti dei quattro artisti|artefici, è in grado di oltrepassare il limite di una geometria non variabile.

Quattro artisti, quattro visioni e quattro generazioni, il cui sguardo e la cui visione fissati attraverso il medium fotografico dipanano una prospettiva corale e non divisiva, piuttosto, in grado di generare una discussione sulle certezze che abbiamo rispetto al valore antropico, filosofico, geografico e temporale dello spazio.

Massimo Vitalicon il quale già in passato ho avuto modo di riflettere, insieme con Francesco Cascino su questo tema, nel WebinBar #MadeInUtopia: lo spazio come luogo reale dell’irrealtà immortalato dalla fotografia e dalla percezione cognitiva – offre, con due opere di riconoscibile grande formato, preziosi istanti di un mondo che a malapena ricordiamo, pre pandemia, la cui tensione è, al contempo, predizione visiva. Vitali, abituato a conoscere e riconoscere lo spazio in cui opera – metodologicamente e filosoficamente – lo rimanda all’osservatore cogliendone le relazioni sociali e antropiche, relazioni in cui la presenza umana si traduce in elemento para architettonico, metafora di un paesaggio vissuto, definito ma anche oggetto di una immanenza temporale, come evidenziato nell’opera del 2017 che ritrae una Marsiglia su cui sta per giungere una tempesta. Nello stesso momento, però, molte persone partecipano ad un evento sulla terrazza di un ex tabacchificio riconvertito secondo una riqualificazione culturale e umana. A fare da contraltare l’opera dell’anno successivo dove lo spazio non più urbano è quello delle Isole Azzorre, sulle cui asperità vulcaniche la presenza umana è quella di bagnanti che paiono quasi non interagire, a differenza dell’opera del 2017, ma sembrano interloquire con la natura quasi per sola essenza. In entrambe le opere fotografiche, Massimo Vitali dà contezza dei dettagli, quelli in cui tutto si svela e si rivela al nostro sguardo, retinico ed emotivo, ma anche mnemonico, poiché Vitali è in grado di riportare, hic et nunc, la reminiscenza di uno spazio caro alla Storia dell’Arte, quello ideale e idealizzato dopo il Rinascimento. Per Massimo Vitali, dunque, Ridisegnare lo spazio è probabilmente fermarne la traccia identitaria di fenomeno collettivo, una geografia umana da cui emerge la verità sulla relazione dell’uomo con esso, quale elemento costitutivo della quotidianità profonda, intesa come strumento emotivo di vissuto.

Dalla Germania, invece, giunge la visione spaziale di Andreas Gefeller, il quale pone il proprio obiettivo fotografico sull’indagine di una prospettiva rovesciata, in cui alto e basso si missano sia nel caso dell’opera afferente al ciclo The Japan Series che nelle due opere del progetto Supervisions. Gefeller, grazie ad un minuzioso lavoro di post produzione che sovverte le leggi prospettiche, gioca con le conseguenze di una perpendicolarità capace di porre in discussione tanto i gradienti percettivi dell’occhio umano quanto la cosidetta ‘verità fotografica’. Lo spazio come documentazione è rovesciato in quanto semplicemente tale, diviene costruzione metareale di interni surclassati e devastati dall’incedere del passaggio umano, di cui pare tradurre una sorta di grafia scenica ed oggettuale in grado di farsi narrazione ex post ed in cui l’illusione prospettica è poi intervallata da dettagli cortocircuitali, atti a garantire un perturbante stop fruitivo, durante cui l’osservazione del pubblico deve interrogarsi rispetto a ciò che già conosce di spazi uguali e simili a quelli mostrati da Gefeller. Ciò che Egli mostra è reale? Visioni in pianta di abitazioni, di luoghi in cui il caos è padrone oppure di visioni che dal basso tendono verso un atro infinito cielo – o presunto tale – definito dal taglio dell’inquadratura in cui cavi elettrici e loro proliferazioni, che paiono quasi sfuggire alla nostra volontà indagatoria, danno contezza di uno spazio perimetrato. Andreas Gefeller, Ridisegna lo spazio secondo le regole stranianti del paradosso, pone in discussione le verità prospettiche e geometriche toccando nel vivo lo scardinamento di una registrazione oggettiva e puntuale, trasformandola in una alterità fantasmagorica.

Ridisegnare lo spazio è anche un non luogo ontologico di grande fascinazione, all’interno del quale differenti generazioni di artisti si sono cimentati, in special modo con la fotografia. La mostra ideata ed ospitata per Labs Contemporary Art ha proposto il proprio tentativo di veicolare tale sfida o tale ricerca. Afferma la curatrice: ‘Gli artisti ai quali facciamo riferimento guardano, attraverso la camera, lo spazio che hanno di fronte e lo interpretano, lo leggono, lo disegnano, lo propongono al di là di una dimensione prettamente oggettiva.’

Nel percorso costituito e costruito dalla mostra bolognese, si inserisce Giulia Marchi che, con due opere provenienti dal progetto Fundamental – ispirato Rem Koolhas e all’edizione 2014 della Biennale dell’Architettura di Venezia da lui diretta indaga l’elemento spazio secondo la matrice filosofica del Junkspace, ove materiali di scarto confondono azione, intenzione, definizione. Le due grandi fotografie di Giulia Marchi, allestite in maniera tale da farsi metafora tangibile nello spazio della galleria di quello, ex ante, indagato e immortalato dalle fotografie – a Rimini nella nuova ala del Museo della Città – sono testimonianza dell’azione osservativa che l’artista porta avanti, in cui il dialogo con lo spazio si duplica, dapprima in ruolo di richiesta, in secundis in ruolo di ‘ascolto visivo’ e loro traduzione. L’elemento di scarto che la Marchi porta all’interno dello spazio vuoto delinea un compendio di forme geometriche fondamentali, le prime che siamo in grado di percepire e alle quali appigliarci per la misurazione dello spazio che abitiamo che fa da eco, invece, a quelle che, Ella stessa percepisce come autoctone dello spazio indagato, in cui forme già presenti raccontano altro da sé. In tale restituzione, è la relazione tra spazio e oggetti a dettare le – sempre nuove – regole, riabilitando, peraltro, ciò che è destinato all’oblio della dimenticanza, dell’abbandono e del rifiuto. In tale sottile e profonda ambivalenza Giulia Marchi riporta in auge la forza dell’assenza in cui tutto è evocazione.

Ultima in linea generazionale è la giovane ma non certo esordiente Marina Caneve, che ha scelto di Ridisegnare lo spazio attraverso alcuni elementi del progetto A fior di terra, realizzato nell’Altopiano di Asiago, in una residenza svolta con un gruppo di adolescenti, alla riscoperta di un paesaggio caratterizzato dalla presenza del marmo e di tutto ciò che esso ha comportato per intere generazioni, da un punto di vista paesaggistico, economico e sociale. Dal grande wall paper utilizzato come dispositivo che agisce nello spazio della galleria – quale varco sia hic et nunc sia per veicolare l’osservatore sino ai luoghi indagati dall’artista – alle fotografie che modulano la percezione come nature morte di elementi marmorei legati ad un passato non più esistente, la cosmogonia messa in scena dalle opere di Marina Caneve è un racconto per immagini di una coralità di esistenze, di una comunità che ha definito, per decenni, la propria identità in relazione allo spazio di una natura che veniva modificata e trasformata dalle cave e dall’indotto della sua lavorazione. L’idea di simbolo è scelta dalla fotografa quale filo conduttore di una indagine che sceglie la superficie della pietra per ragionare sulla natura che si riappropria dei suoi ancestrali luoghi, nel caso delle cave dismesse, sulla relazione che tale trasformazione imposta con le nuove generazioni locali; e ancora sulla relazione che persino gli ultimi pezzi dello studio di uno storico scalpellino, non più in attività, ha la forza di tradursi in un memento in grado di sfuggire al perire di un tempo nuovo. Diarchia che viene acuita nell’immagine scattata in un cimitero, ove geometrie naturali e geometrie scolpite sugellano la profonda armonia insita nella comunità che ha accolto Marina Caneve. In una sorta di laica sacralità – di matrice classica – la perimetrazione dello spazio così come indagato dalla Caneve assume il valore di una ri_costruzione per frammenti, legati, in maniera impercettibile, in una serie di luoghi a noi, ora, invisibili eppure immaginabili.

Lo spazio che viviamo e da cui siamo circondati è lo stesso che riusciamo a percepire attraverso l’intelligenza emotiva o, in verità, esso tenta di mostrare qualcosa d’altro che, nella nostra corsa verso il nulla quotidiano, abbiamo perso di vista?

La nostra cecità sensibile e sensuale afferisce a una dimensione frutto di un paradosso: Made in Utopia.

L’arte fotografica, la visione predittiva degli artisti tutta, ci permettono, in modo unico e privilegiato, di scoprire la verità del rapporto che abbiamo con luoghi del nostro vivere e rimanda ad aspetti che dalla superficie foto e videografica si inabissano in altre dimensioni emozionali, tra ciò che vediamo, percepiamo, sentiamo e comprendiamo a livello neuronale. Quello che resta impresso nel nostro inconscio, come il rapporto tra Arte & Psiche mostra, dimostra e in_forma.

Affermavo tempo fa, anche in presenza di Massimo Vitali e la mostra Ridisegnare lo spazio permette di ripensare a tutto ciò, di osservare lo spazio vissuto e vivente in un modo nuovo, non più distratto. Gli artisti e i fotografi che sanno indicarci una nuova modalità di intendere lo spazio, sono in grado di scardinare le superfetazioni inutili e portatrici di ombre ottundenti e sanno suggerire, inoltre, la necessità di imaprare ad osservare da un punto di vista mai fisso, piuttosto plurimo e sfaccettato, poiché lo spazio e il rapporto che intrattiene con l’umanità è il punctum da cui partire per dar credibilità al dubbio e far posto al cambiamento.

RIDISEGNARE LO SPAZIO
Marina Caneve, Andreas Gefeller, Giulia Marchi, Massimo Vitali
Bologna, Labs Contemporary Art
Via Santo Stefano 38
12 febbraio – 9 aprile 2022

Azzurra Immediato

Azzurra Immediato, storica dell’arte, curatrice e critica, riveste il ruolo di Senior Art Curator per Arteprima Progetti. Collabora già con riviste quali ArtsLife, Photolux Magazine, Il Denaro, Ottica Contemporanea, Rivista Segno, ed alcuni quotidiani. Incentra la propria ricerca su progetti artistici multidisciplinari, con una particolare attenzione alla fotografia, alla videoarte ed alle arti performative, oltre alla pittura e alla scultura, è, inoltre, tra primi i firmatari del Manifesto Art Thinking, assegnando alla cultura ruolo fondamentale. Dal 2018 collabora con il Photolux Festival e, inoltre, nel 2020 ha intrapreso una collaborazione con lo Studio Jaumann, unendo il mondo dell’Arte con quello della Giurisprudenza e della Intellectual Property.