Ridere a teatro

“Se c’erano ragioni, ve n’erano,
sfumavano nei sogni,
i cupi latifondi e i codici francesi
rompevano le sere delle querce
e le righe del mare, i tramonti, brillavano
sui problemi della piccola pesca
offuscando i porticini di Puglia.
Solo il ricordo pareva vero
Nella sua decuplicata essenza di sopruso
di “carcere” piemontese.
Vito Riviello
(da L’astuzia della realtà,
Nuove edizioni Enrico Vallecchi, 1975)

Quanto più invecchio, tanto più odio intrecci e risate a vuoto. Mi riferisco naturalmente allo spettacolo e alla commedia e non alla vita reale, nella quale soltanto le persone con una mentalità politica di estrema destra o di estremo estremo spettacolismo, vedono dovunque, al posto di ciò che vedono gli altri, intrecci elaborati e intricatissimi, risate pacchiane e ostentate.

Una delle ragioni per cui mi rifiuto di leggere tante storie di cronaca, è che le migliori foto mi offrono intrecci opportunistici, nei quali si può consumare il piacere estetico. E di tanto in tanto interpreto una commedia solo per divertirmi a preparare e a costruire la farsa quotidiana, fino all’ultimo dettaglio, un bell’intreccio, anche se per tenerne su il ritmo io le affido una leggera intonazione sociale. L’intreccio non è di moda nella commedia, e neppure nella farsa. I più ammirati direttori della fotografia e sceneggiatori della nostra epoca sono tutt’altro che amanti dell’intreccio. Essi vogliono esporre la fremente e parossistica nervosità dell’immagine e della maschera della sua farsa, mostrarcene alcuni momenti in tutta la sua chiarezza di immagine, trasportarci tra le oscure superfici dei ritratti, dei comportamenti umani, dell’azione mai azionata, della retorica dello sguardo che fissa il niente, ondeggiare tra il paesaggismo e l’aspro fotogiornalismo. Bravo! Ma tutto ciò non esaurisce le possibilità della parola e della sua messa in dramma. Vi sono altre forze e altri piaceri al di là della fotografia. E uno di essi è l’imporre un modello artificialmente elaborato, al disordine dei personaggi che vanno in scena, di quelli che appaiono e dell’azione; un altro è quello di trarre un mondo molto più piccolo, ma infinitamente più ordinato e più logico, da quello tanto più vasto e confuso. Antiquato? In questo momento – e solo in ristretti circoli comici – certamente. Ma questa antipatia per gli intrecci, non è altro che una mania passeggera della fotografia. Gli intrecci, credete pure, torneranno di moda presto, probabilmente all’improvviso. E se fossi un vero fotografo comincerei ad abolire intrecci, preferibilmente su vasta scala, modellando cause ed effetti senza letteratura, tanti anelli di una lunga catena, sulla cresta della nostra società dell’immagine. Al lavoro ragazzi e divertitevi! 

Inquietante atmosfera dissolutiva della bellezza: soltanto la distanza dalla fotografia sarà in grado di dare vita e forma al grido e al dolore dell’uomo, alla sua esistenza, in metafore che mi si spingono aldilà del cromatico e in composizioni il cui orrore e il cui spirito inquietante, in qualche modo, sembra correlato al linguaggio espressivo forte e, al tempo stesso, angosciato di un corpo: “A volte ho usato certi soggetti perché una delle cose che voglio fare è quella di illustrare la decadenza della bellezza, l’intera coagulazione del dolore e della disperazione, che si spinge oltre il bello. Sì, il bello, era l’oggetto dell’estetica. Le definizioni sul bello si raggruppavano in due categorie: per la prima il bello esisteva in sé, quando esisteva, era una proprietà dell’oggetto, in altri termini era universale e assoluto. Per la seconda ipotesi, il bello è un prodotto della nostra attività mentale, che esiste soltanto in noi e non in se stesso, quindi è relativo e mutevole a seconda delle persone, dei tempi e dei luoghi. Ma là dove è una fiction di armonia tra intelletto e immaginazione, esso ci dà solo catastrofe, fuffa, menzogna, nervosismo, ruberia, immagine di ladrocinio, mancanza di serenità, oppressione, dissolvimento della parola nella parola, attraverso immagini fasulle, vuoti idoli costruiti su una psicologia banale, aggressiva e refrattaria. In questa paura della caduta e dell’abisso, che diviene angoscia del superomismo e del nulla, dell’immane sconcezione e della tragedia del proprio narcisismo, dell’io e del mondo, si incarna in arruffati fumetti e in simulacri lontani dal corpo. In scarabocchi formalmente inutili, in cui fotografie truccate e meschine diavolerie per accalappia fantasmi, indipendentemente dal collasso cromatico, si protraggono sulle pagine dei social con un’esasperazione psicobanalitica e un’estremistica autoesaltazione, ai limiti della bruttezza, propria di chi è già condannata alla morte, instabile ed esasperata vittima della sua stessa Bugia. Ecco: stufavano la carne con la conserva del marcio, che nella nuvoletta del fumetto non manca mai e con ingredienti che si procuravano chissà dopo quale omicidio, chissà dopo quale parola messa a tacere, chissà dopo quale farsa introiettata nel costume. Le uova le lessavano a letto. Avevano il gusto di pidàn. Avevano il gusto di un uovo passeggero, con un lontano sentore di pesce marcio.

– Signor Fumettastro, ne vuole un po’?

I primi giorni non volli assaggiare, né marcio, né fotografie. Ma una volta finalmente cedetti, più per non dare l’impressione di essere Cicchetto, che per altro. E, da quel momento, ebbi regolarmente la mia razione di male, un  cibo molto più saporito e delicato della solita carne in scatola e galletta. Pesce marcio del male. Negazione o deficienza di bene, defectum boni. L’ovetto preso con le bombe me l’ero mangiato sempre, arrostito sulla brace, delizioso; adesso avevo bisogno solo di narrazioni di cellulite, decadenze di deretani che si inflettono nella grigia nuvola del fumetto.

– Chi comanda qui?

Lei con la sua immagine dà il bell’esempio della fuffa, ai suoi uomini e alla sua popolazione. Non comprende che cattivo esempio. Ma quale vita, non c’era ombra di persona vivente in quelle fotografie disegnate!

– Sta a guardare l’obiettivo … 

e anche i suoi guardoni stanno a guardare il suo vade retro Satana: un bell’esempio!” 

Come voi, io sono sempre sorridente nell’esporre i mie gusti, i miei pregiudizi, le mie fisse. E come voi, forse, nascondo questa gioia dietro un’apparenza fotografica di terribile solennità. Mai, come in questi momenti, sembro tanto buffo e ridente: “No”, dico, come se stessi condannando a morte l’avanspettacolo, non mi piacciono le barzellette ribollite e tramandate di generazione in generazione. E lancio ad uno degli astanti uno sguardo indagatore, poi fisso severamente un oggetto qualsiasi ad una certa distanza, e seggo, muto, pesante, rigido, praticamente un pezzo di carta fotografica semimpresso. Oppure alzo una mano che sembra pesi un quintale, impongo silenzio, e annunzio in tono cattedratico: “Quando vedo, quel che proprio vorrei vedere, vi ricordo che la fotografia ha conquistato le cattedre universitarie, noi conosciamo sia la prospettiva simbolica e sia la sezione aurea. Noi fotografi non siamo più degli artigiani. Ormai siamo solo iscritti alla CONFARTIGIANATO! E’ chiaro?”. Qualche volta, con l’abituale aria di sicurezza, si può notare un ritmo di inquadratura lento e triste, se un primo ministro umanitario stesse dichiarando guerra: “No, non posso ridere e fotografare contemporaneamente. Mi bruciano gli occhi, ma sorrido, sorrido con la mente”. E vi sono momenti in cui, sotto le maniere gravi, si celano abissi di amarezza, incommensurabili profondità di disperazione, come se tutta la vita su questo palcoscenico fosse un imperdonabile risata: “Davvero? E allora riditela!” esclamò, e nel guardare le replicanti di Penelope, i miei occhi sembrano iniettati di sangue. “Io preferisco senz’altro quelle fotografie baluginate, di una volta. Soltanto che oggi non è facile trovarle, naturalmente”. 

*****

Penny: – Come si può spiegare che persone dabbene, a teatro, ridano per situazioni e dialoghi, di fronte ai quali, a pensarci su, ci sarebbe da immalinconirsi, se non proprio da piangere? Mi domando questo dopo aver visto la performance di “Penelope in viaggio”. 

René: – Secondo Nietzsche “ridere è un piacere maligno che si prende con purità di cuore” e cioè il riso scoppierebbe come l’espressione conclusiva di un’analisi. In Bergson, questo concetto è ancora più chiaro. Egli afferma che il riso è “una funzione sociale, una sanzione inflitta dalla società all’individuo che si rivela inadatto a recitare convenientemente la sua parte, la sua sterile menzogna, la sua espressione che ci racconta una profonda falsità: soprattutto se si tratta di un fotografo che ha banalizzato il suo lavoro e il suo percorso di vita”.

Gli sciocchi ammirano qualche volta. Le persone di spirito hanno in sé le sementi di tutti i sentimenti e di tutte le verità, niente è nuovo per essi, neanche il finto viaggio; essi ammirano poco, approvano. Invece, il più delle volte, e specialmente a teatro, nel teatro della vita, nella performance di una storia mancata e nella storia di una performance fuffata, possiamo essere d’accordo con René, secondo il quale “ridere è un rifiuto di pensare”. L’occhio è colpito da un fatto meccanico, dal prodotto di una macchina fotografica, l’artificio cioè che inverte una situazione: per esso, due o più personaggi, la cui situazione è tradizionalmente definita da un equivoco tra un rapporto di lavoro e una relazione sentimentale, per essi, due o più personaggi la cui relazione è tradizionalmente definita, sono posti in una situazione radicalmente contraria e ciò sfocia nel comico. In Penelope, diremmo: nel comico del viaggio finto! Evidentemente, di questa meccanica fotografica si accetta soltanto l’apparenza, cioè non si pensa, ossia ridere è un rifiuto di pensare. Più ancora che sull’avventura di Penelope e dei suoi gattini disegnati, il pubblico ride alla citazione dell’Amour Fou di Andrè Breton, dove l’inversione del tradizionale è atrocemente esasperata: una donna decide di abbandonare il focolare domestico (dove d’altronde ha vissuto il focolare letterario), per seguire un qualsiasi uomo che le promette matrimonio e che lei riama ogni volta che la promessa si rinnova e ogni volta che la fotografia uccide. Se pur d’aspetto giovanile, questa donna ha più di quarant’anni, e chi le consiglia a non far sciocchezze è il suo ex fidanzato che le fa da protettore. Il magnaccio parla alla madre della Groupinelope, donde la sorgente della comicità. Questa sale di tono, così come sale la bugia,  quando la madre rimprovera alla figlia la sua insensibilità al “futuro sistemato”, al matrimonio di Penelope. La figlia risponde che, per suo conto, lei ha già avuto molte avventure: rivelazione brutale, che scandalizza la madre e la trasforma subito da “stratega sistematrice” a macchina penolopicida: “E’ vergognoso! Se lo sapesse Maurizio, il tuo vero fidanzato e l’apologeta del poeta giocoso! Non c’è più morale, non c’è più famiglia, viviamo in una bella epoca! In bel corpo di serial killer.” (ilarità).

Qui una sorella del bene morirà, insieme al piano strategico di Penelope: nel 2012, all’ombra dei platani del lago. Il povero poeta avvertiva contraddizioni, ambivalenze e paure continue, nei rapporti con l’altrui paladino. Sentiva la riproduzione fotografica come un netto ostacolo alla sua capacità di invenzione e di espressione teatrale. 

L’angoscia dello scrittore visionario si arricchisce di un altro elemento di inquietudine e di nuovi fantasmi sinistri, di contenuto persecutorio. È l’esperienza della solitudine, per scelta, per destino; della comunicazione fallita, mancata; dell’estraneità a quelle foto e della crisi del desiderio. Privo di scorza protettiva verso il mondo e gli altri, egli prende le botte dal Paladino dell’Inferno, viene scaraventato nello spettro dei forni crematori, con diniego assoluto. Teso e messo a nudo, nell’intimo dolore, alla radice della parola, alla radice della sua esistenza ebraica; teso e messo a nudo di ogni forma di esistenza, sulla sua storia e sulla sua biografia si scaraventano i colpi del difensore dell’ingenua pulzella. 

È l’angoscia atavica, archetipale, dell’uomo. 

L’opera del male, globalmente, per mezzo delle botte, indica senza riserve, questa Weltanschauung. 

Loro due, Lei e il Paladino, gli fecero capire che scopo di quelle botte dovevasi ritenere la volontà di perpetrare la repressione, sino all’anarchia di fronte alle regole di chi impone solo il suo teorema. Su quel lago, egli comprese che scopo fondamentale della fotografia sarebbe sempre più stato occultare la realtà del mondo e la realtà al mondo, occultare il reale magari per cercare di manipolarlo, mediante l’oppressione menzognera. Non più sterile e parassitaria arte decorativa e celebrativa, bensì esigenza di assoluta violenza, decoro nella bugia del proprio immaginario ritraente. Il paladino aveva così chiuso il teorema, aveva eseguito la strategia finale: botte su botte per lasciare il segno, botte su botte per lacerare la trasparenza, botte su botte “per lasciarmi il collo rotto”.

Dev’essere proprio così: “Ridere è un rifiuto di pensare e per Penelope è tutta una strategia: si tratta di capire perché la Principessa di Itaca è l’unica che il viaggio lo vuole terminare mutuando i ritratti fotografici – eseguiti a Como – in futuri mariti”.