Retrospettive. Il mito di La jetée

Può risultare sorprendente la constatazione d’un permanere della remota coppia Dioniso / Apollo. Ma i tempi la impongono, la richiedono i media attuali. La nostra percezione e la nostra memoria, acuite e allo stesso tempo anestetizzate dai media, si misurano col turbine d’un continuo mutamento, che però sembra frazionarsi indefinitamente in istanti, ognuno dei quali in sé concluso e (in)significante. In termini di resa simbolico-culturale, assistiamo allo scontro fra l’attitudine “dionisiaca” delle procedure performative e il tentativo “apollineo” del perfetto agghindarsi, della posa definitiva.

Esemplificando la questione a livello della quotidianità mediatica, indicherò come idealtipi delle due movenze il videogioco e il selfie. Da un lato lo spostarsi sia pure simulato sullo schermo, l’esperienza, il coinvolgimento emotivo e intellettuale; dall’altro la ricerca d’una sorta di perfezione da parte di chi delega il proprio ritratto al telefonino, nonché l’ipotetica contemplazione dell’immagine da parte degli osservatori.

Passando in rassegna le esperienze di uso artistico dei media non tradizionali, alla ricerca di tematizzazioni dello scontro Apollo/Dioniso, ci si imbatte inevitabilmente nel “mito di La jetée”. Il genitivo qui è soggettivo e oggettivo. Esiste una “mitologia” concernente quel “cortometraggio [circa 27 minuti] in bianconero a foto fisse e ferme”, realizzato nel 1962 da Chris Marker (Christian François Bouche-Villeneuve); e allo stesso tempo il breve film ha come oggetto implicito un mito.

La vicenda del film è inestricabilmente connessa alla singolare scelta “non cinematografica” di Marker. Il film propone immagini “ferme”, ognuna delle quali evidentemente vuole porsi come l’emersione d’un ricordo. Infatti, si parla di un tempo “già finito”, in un non luogo senza più spazio. Lo spostamento del protagonista nel passato e nel futuro non è affatto fisico ma, misteriosamente, solo mentale o forse onirico.

La “vicenda”: “Sulla piattaforma dell’aeroporto di Orly la morte di un uomo di cui all’inizio non sappiamo l’identità è associata allo scoppio della Terza guerra mondiale. I superstiti della catastrofe nucleare sono nei rifugi sotterranei. Si inviano emissari affinché il passato e il futuro soccorrano il presente. Durante i suoi lunghi e penosi viaggi l’uomo ritrova l’immagine che l’ossessiona: quando all’aeroporto di Orly corre verso la donna amata comprende il significato dell’evento iniziale”. 

La mitologia di La jetée ha numerose manifestazioni e non pochi motivi. Innanzitutto il film costituisce un esempio di continuità rispetto alla storia del cinema: fra gli antecedenti va ovviamente segnalato La donna che visse due volte (Vertigo). Marker cita esplicitamente il film del 1958 di Alfred Hitchcock. Un film in cui si narra di una ripetizione e d’un camuffamento, cioè si narrano materiali mitici; ma qui conta notare come Vertigo sia già l’ennesima concretizzazione d’un vero e proprio mitologema connesso ai media della riproducibilità. Si tratta del mitologema della ripetizione, vista come di qualcosa capace di “fermare l’attimo”. Vediamo il mitologema in azione già in Ballet mècanique del 1924 (realizzato da Fernand Léger con la collaborazione di Dudley Murphy), là dove si ripete la breve sequenza della lavandaia che sale le scale: la reiterazione tende a coincidere con l’immobilità.

Alla mitologia di La jetée dà poi un contributo essenziale la ristrutturazione che ne effettuò Terry Gilliam nel 1995, ovvero L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys). Tentativo a suo modo inquietante di trasmutazione di materiali sperimentali in un’opera sostanzialmente commerciale, destinata al grande pubblico sebbene intrisa da una volontà “artistica” quasi disperata, 12 Monkeys assegna a La jetée il rango di antenato nobile di cui si cerca (invano) di salvare il patrimonio. Ma sarebbe assai lungo l’elenco delle narrazioni letterarie, cinematografiche e televisive più o meno direttamente in debito col “photo-roman” di Marker. Un lunghissimo elenco (che però qui non mi interessa) di narrazioni concernenti situazioni post-apocalittiche, viaggi nel tempo, incastri passato-presente-futuro che si risolvono in “nastri di Möbius”, loop temporali. In questo senso si potrebbe affermare che tracce di La jetée sono avvertibili perfino in film di Christopher Nolan come Memento (2000) e Tenet (2020).

(Al “mito di La jetée” forse ha paradossalmente contribuito, attirando la curiosità dell’ambiente artistico, il maltrattamento che gli ha inflitto Rosalind Krauss, assegnandoli in sostanza un “vorrei ma non posso”).

Ma mi interessa La jetée come prestazione a suo modo mitica. Qui si incrociano numerosi piani. Il film racconta un’ossessione legata a un’immagine. In fondo è “una storia di fantasmi per adulti”. Non sarà allora sovrainterpretazione collegarlo a un’attitudine per così dire warburghiana, stante il suo presentare una situazione compulsiva strutturata in un ricordo che si fa memoria. (Scrisse Gianni Carchia: “Letta nel suo nucleo di massima intensità, la storia come memoria scopre in Warburg l’enigma della confusione mimetica originaria, svelando quel fondamento mitico dalla cui rischiarata eredità ha potuto poi emergere l’arte”).

Il protagonista ha colto, da bambino, un momento di morte. Scopriremo infine che si trattava della sua. Ha visto la propria morte, sul grande molo (jetée) di imbarco dell’aeroporto di Orly. In una frontiera, in un luogo di passaggio, che però diventa un “non luogo a procedere”, un esilio nella propria casa, un doppio ed ennesimo trauma.

Quell’immagine traumatica è per lui un’ossessione, al punto da trasformarsi in medium per un incomprensibile viaggio nel tempo. Noterò come, data la situazione, il legame fra immagine e suo ricordo venga posto come quello fra realtà e sua elaborazione mediatica; la situazione di partenza è qualcosa come il Reale irraggiungibile, che il ricordo soggettivo elabora fino concretizzarsi (e qui sta l’elemento “fantastico”) in memoria oggettiva.

Ma il medium esplicitamente proposto è una sequenza di fotografie. Immobili. Da contemplare, brevemente. Il montaggio di queste fotografie destruttura l’illusione cinematografica ordinaria. Potrebbe richiamare forme paracinematografiche quali il fumetto e/o il “fotoromanzo”; senonché ciascuna di queste immagini, a cui Marker affida il compito di ricostruire un avvicinamento/allontanamento dall’immagine iniziale, dal balenio d’un Reale, è straordinariamente intrisa di durata. Una durata sistematicamente interrotta.

C’è qui un elemento di tangenza rispetto ad alcune esperienze di videoarte, là dove il dominio della durata e l’impossibilità di darne conto assumono una rilevanza prioritaria (si pensi alla notissima proposta di Douglas Gordon, ovvero 24 Hour Psycho, del 1993, esasperata dilatazione del film di Hitchcock). Viene allora in mente quanto magistralmente notato da Giorgio Agamben in un suo commento a Greetings di Bill Viola: “lo spettatore poteva vedere le figure femminili, che la Visitazione di Pontormo ci presenta intrecciate, mentre si avvicinano lentamente l’una all’altra, fino a comporre alla fine il tema iconografico della tela di Carmignano. […] Quando, alla fine, il tema iconografico è stato ricomposto e le immagini sembrano arrestarsi, esse si sono in realtà caricate di tempo fin quasi a scoppiare”. Viola, insomma (dice poi Agamben) inserisce “il tempo nelle immagini”. 

Si potrebbe chiosare: Viola mette in opera un’apocalisse di quell’immagine, la porta a compimento, le estorce dolcemente (e lentamente) un senso.

Marker attua un procedimento assai diverso, o forse opposto. Ognuna delle immagini che propone è “già qui”, al suo apparire, richiamando la nostra attenzione finché un’altra immagine la sostituisce. Ma non c’è illusione di movimento cioè di continuità, bensì interruzione. Fra un’immagine e la seguente si insinua un’assenza traumatica, uno strappo. Le immagini bucano la continuità del tempo “omogeneo e vuoto”. Diventano immagine/trauma. In altri termini, si potenziano fine a diventare l’inizio di un mito – un inizio che coincide con la fine, suggerisce peraltro La jetée.

Una strutturazione essenziale del mito è mostrare/narrare un’impresa carica di tempo, perciò sottratta al tempo ordinario. Il mito ha a che fare con quanto Benjamin chiamava Jetztzeit. La jetée narra/mostra l’immagine (ovvero qualcosa come un tempo fermato in una porzione di spazio) di una scena iniziale che è allo stesso tempo la fine, il contrassegno di una morte incastonata in un disastro collettivo.

La ripetizione. In Vertigo a ripetersi era l’incontro con una donna, la stessa donna, uguale e diversa; in Ballet mècanique la lavandaia sale le scale in una breve durata diventando così immobile in una durata potenzialmente eterna (la durata mediatica, la ripetibilità del film). In entrambi i film la ripetizione ha un che di dionisiaco, per così dire, sia pure su scala temporale estremamente diversa.

In un dipinto e in una fotografia ovviamente domina Apollo, la fissità dell’immagine congelata in quel momento. Marker escogita una sintesi dei due paradigmi (qui sta la sua attualità “postcontemporanea”, a mio avviso): le immagini di La jetée prendono per la collottola il nostro oscillare fra Dioniso e Apollo, fanno scontrare le due polarità in un momentaneo balenio di Reale, in qualcosa come un “non luogo a procedere”.

Quando la “vicenda” di La jetée volge ormai alla sua conclusione (ovvero ricongiungimento con l’inizio), vediamo la Donna dormire. Poi per alcuni secondi, l’immobilità viene infranta, la Donna apre gli occhi e ci guarda. Cosa vuole dirci? Cosa voleva dire all’Uomo, che accoglieva “con una fiducia muta, una fiducia senza riserve, senza progetti”, nonostante non sapesse alcunché di lui? “Lei lo accoglie, semplicemente, lo chiama il ‘suo spettro’”.

Guardandoci, nella breve simulazione di movimento in quel momento effettivamente straniante, la Donna forse vuole indicarci un nessundove, Nirgends, in cui Ella stessa nonché la lavandaia di Léger nonché la Donna di Vertigo, eccetera, sono trasmutazioni della Nympha di Warburg; un nessundove in cui durata e sua abolizione nella discontinuità sono il trauma, inevitabilmente ripetuto quindi mai-presente e sempre-presente, non luogo a procedere; forse vuole dirci: “Siete voi i miei spettri, fatti di ricordi, narrazioni, immagini che cercano un impossibile accordo fra Dioniso e Apollo”.

Nota
La breve descrizione di La jetée è tratta da Morandini; cfr. https://www.mymovies.it/film/1963/la-jetee/.
Per la nozione di “non luogo a procedere” cfr. il mio L’implosione postcontemporanea. L’arte nell’epoca del Web globale, Città Aperta, Troina 2002. In riferimento all’attualità postcontemporanea della diade Apollo/Dioniso cfr. il mio Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet, Macerata 2022.
Per il riferimento a Rosalind Krauss cfr. Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori Milano 2005.
La citazione di Carchia è tratta da Gianni Carchia, Aby Warburg: simbolo e tragedia, in «Storie di fantasmi per adulti». Il pathos delle immagini nelle ricerche di Aby Warburg sulla rinascita del paganesimo antico, numero speciale di «aut aut» 199-200, gennaio-aprile 1984, p. 101, disponibile online (https://autaut.ilsaggiatore.com/wp-content/uploads/2020/06/199-200.pdf).
Le citazioni di Agamben sono tratte da Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 9-10. 

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