Gabriele Perretta, Napoli. Città senza confine, 1984

Realtà sconfinata: città e mezzi espressivi (ecr.: 03 – 1985)

Prosegue qui l’analisi dei risultati di Città senza confine iniziata alla fine dell’anno scorso. Rileggere questi scritti (del 1985) oggi? Un modo, anche, di contrapporre le testimonianze ai tentativi rammendati di “rewind”, la seduzione della memoria all’attualismo odierno. Nulla a che vedere con il cinismo giornalistico che maschera un modus operandi, quello dei cataloghi vacui e indifferenziati: giacchè il paradosso qui sta nel fatto che la parola di allora può talvolta condurci al «confronto». Senza dimenticare la febbre, l’inquietudine, il godimento: un vero strumento storico, legato al gioco e alla strategia della sostanzialità. Come se esistesse un’intima relazione tra il piacere della città e lo sconfinamento dell’urbe.

È indubbio che il tema dello sconfinamento rappresenti una sfida estrema ed inedita per gli strumenti semiotici, sia come metodo di lettura della realtà espositiva e sia come pratica di perimetrazione delle nuove forme di conoscenza che si contrappongono al tentativo di museificazione della street art. Una sfida inedita, perché inedite sembrano essere le strutture mediali urbane e le densità espressive che potrebbero derivare da questa peculiare forma testuale. Il condizionale è d’obbligo, vista la velocità con cui, grazie alla catastrofe sismica, si stanno evolvendo le applicazioni di realtà segnica ed i dispositivi che la supportano. Certamente, “l’oltre new wave” (come chiama l’attività artistica di Città senza confine, Francesco Vincitorio, riflettendo su un mio testo, inserito nel catalogo della medesima manifestazione partenopea, Image Team 1984) – raggruppabile sotto il termine ombrello «street media» o «espressionismo metropolitano» – mantengono quella sovrapposizione di estrinsecazioni, modi di impiego corrispondenti, abitudini di fruizione e modalità relazionali tipiche di una esponibilità comunicativa (come direbbe Susanne K. Langer); eppure presentano anche una propria specifica forma di ibridazione curatoriale. I nuovissimi modi dell’esponibilità incorporano infatti la possibilità di trasformare funzioni segniche tradizionalmente ascrivibili nella sfera della pittura, della fotografia, del video in funzione d’altra esposizione; una “trasformazione sconfinata” che trova la propria ragion d’essere nel conseguimento di un obiettivo determinato e circoscritto: come se fosse una mostra (coniugare l’eredità duchampiana, includendo i processi retinici come sperimentazione sulla nuova immagine). Non a caso, la struttura compositiva di Città senza confine sottolinea che, più che di una medializzazione delle singole opere, si debba parlare di una convergenza politica dei segni della cultura alta sulla street art, o di una ri-funzionalizzazione espositiva. Nel caso di Città senza confine non si tratta della sola combinazione di media diversi, o della semplice integrazione di un media analogico in uno cartellonistico, pubblicitario e stradale, o anche di un segnale pittorico che si integra con quello fotografico; si tratta, piuttosto, dell’utilizzo creativo (e circoscritto al territorio) di determinate funzionalità previste dal medium urbano. Le mura della città di Pomigliano D’Arco e di Napoli sono gli artefatti in cui questo processo di esponibilità si manifesta in modo più lampante e post-retinico: sono dispositivi in cui le applicazioni possono prestare la loro specifica funzionalità ad altre realizzazioni. Un’esponibilità (o un progetto espositivo come quello di Città senza confine) – come sappiamo tutti e come ci dice Susanne Langer – racchiude in sé un numero vastissimo di idee, ciascuna delle quali è in grado di attribuire al dispositivo-mostra le funzioni di un determinato strumento: macchina fotografica, scenografia, collocazione, medialità, elaboratore di immagini, documento storico, immagine impersonale, texture complessa e tanti altri: “Il concetto di arte, inteso come una sorta di comunicazione, presenta i suoi rischi, perché analogamente al linguaggio ci si aspetterebbe che la «comunicazione» avvenga fra l’artista e il suo pubblico, nozione che io considero fuorviante. Ma c’è pur qualcosa che, senza incorrere nel rischio di esprimersi troppo letteralmente, può essere chiamato «comunicazione attraverso l’arte», e precisamente il rendiconto che le arti danno di una determinata nazione o epoca agli uomini di un’altra epoca. Nessun documento storico potrebbe dirci in migliaia di pagine altrettanto intorno al pensiero egiziano, di quanto può una sola visita a un’importante esposizione d’arte egizia. […] In questo senso l’arte è comunicazione, ma non è personale né desiderosa di essere compresa” (Langer, Sentimento e forma [1953], tr. It. Feltrinelli, Milano, 1965, p. 410).

Ma non è questa personificazione dell’arte di Città senza confine l’elemento peculiare dei nuovissimi modi di esposizione dello sconfinamento tra Pomigliano e Napoli; il loro tratto distintivo, piuttosto, sta nell’essere dotati di energie espositive pubbliche, che permettono all’utente di rifunzionalizzare determinate capacità tecniche dell’intervento: si pensi, per esempio, ad applicazioni come la pratica artistica post-situazionista, alla pittura della Figuration Libre (di: Robert Combas, Rémi Blanchard, François Boisrond e Hervé Di Rosa), oppure ai Neuen Wilden, o ad alcuni dei writers in dissidenza con quelli esposti in Arte di Frontiera, attraverso cui si può misurare il proprio battito cardiaco poggiando il dito sui segni tracciati sul muro. I gradi di esponibilità di Città senza confine, inoltre, forniscono un esempio di immediata conversione tra un sistema semiotico e un altro: basti pensare alla funzione di allestimento critico delle sezioni (Pittura estasi, Nuova pittura europea, Nuova Pittura Italiana, Graffiti Americani, Selvaggi Italiani, Tecnicamente dolce, L’impero dei disegni, Gli abitatori dell’iconosfera, Piccoli Racconti), dei messaggi e degli slogan, o ancora alla comunicazione attraverso medium installativi – un utilizzo del dispositivo di esposizione che ricorda la comunicazione attraverso i concetti critici e mediali tratti dal Cratilo, da Abraham Moles, Erwin Panofsky, Walter Benjamin, Guy Debord, Asger Jorn, Ferruccio Rossi-Landi. In casi come questo, la scrittura diventa immediatamente parlato espositivo e il parlato scrittura esposizionale, con una immediatezza e una trasparenza che nessun altro mezzo aveva prima potuto proporre. Ne è un esempio la citazione di un famoso saggio di Panofsky (Iconografia e Iconologia) che, a proposito delle origini della medialità in arte, dice di distinguere tre diversi livelli di significato nella pratica artistica: ”a) il soggetto primario e naturale (fattuale o espressivo), che consiste nell’identificazione di pure forme; sul piano scientifico a questo livello corrisponde l’identificazione dei motivi; b) il soggetto secondario o convenzionale, vale a dire i temi contenuti nell’opera e il modo in cui sono organizzati: è il livello dell’iconografia; c) il significato intrinseco o contenuto, il quale consiste nell’atteggiamento fondamentale che in una nazione, in un’epoca storica, in una classe sociale, in una cultura, condiziona l’artista ed è riassunto e concentrato nell’opera: questo è il livello iconologico vero e proprio” (risale al 1939 la prima pubblicazione e poi in Il significato delle arti visive [1955], tr. it. Einaudi, Torino, 1996, pp. 33-36, ndr.: in sintesi).

Pomigliano D’Arco, Stazione Circumvesuviana, 1984

Un’ulteriore specificità sembra essere legata alla nuova concezione dello spazio (fisico e testuale), che alcuni interventi di esponibilità dello sconfinamento espressivo, tra dispositivo della mostra e contenuti, possono proporre al fruitore. Luciano Giannini, a tal proposito, in un articolo dedicato alla manifestazione partenopea, sottolinea come la differenza dai tradizionali strumenti espressivi sia evidente: “Si considerano “brigatisti bianchi”, “terroristi estatici”, “selvaggi” … Rifiutano il moralismo bigotto, la retorica, accertano la bomba con realismo post-atomico: “La bomba – è scontato cadrà. Ma nel frattempo io che faccio, come sopravvivo?” In genere, sono emarginati, ma non hanno il piacere sepolcrale dell’emarginazione: “Come diceva John Lennon, voglio avere i soldi soltanto per essere ricco”; il denaro è l’unica arma contro l’alienazione”; “Non vogliamo i soldi per diventare capitalisti, ma per usarli”. Vengono quasi tutti dalla provincia gli artisti di Città senza confine o dalla regione, le regioni del mondo, come dice Perretta. Uno addirittura dall’Egitto e un altro da Milano, che lasciò dodici anni fa, quando decise che non era il caso di vivere in famiglia. Sembrano scapigliati, underground. Ma le etichette – essi dicono – limitano, non sono creative. Hanno un luogo geografico di ritrovo: l’Accademia di Belle Arti in Via Costantinopoli che, per un altro verso, è la controparte istituzionale, il potere costituito non da abbattere ma, per lo meno da prendere con le pinze, da sfruttare quando è necessario. Sono i nuovi artisti di questa Napoli anni ’80, sospesa nel vuoto proprio come loro, perennemente in cerca di qualcosa, perennemente in cerca di un Godot che, fedele al proprio ruolo, non arriva. I nuovi artisti sono ragazzi tra i 25 e i 30 anni che manipolano tele, olio, tempera, colori acrilici, vernici spray, nastro adesivo, sabbia, materiali alchemici, come terra e pietre e legno trasformandoli in visioni, […] Per campare fanno i grafici pubblicitari e gli impiegati, lavorano il cuoio e l’ottone, fanno disegni per l’architettura e fotografie per matrimoni, colorano vasi e bomboniere “Ma hanno tecnica e professionalità per affrescare il palazzo delle poste e adornare gli abiti di Valentino, se questa città offrisse spazio per emergere e affermarsi”, puntualizza Gabriele Perretta, il critico che li segue, li asseconda, li studia” (Luciano Giannini, Reporter, giovedì 21 giugno 1984, p. 14).

Chiunque abbia la possibilità di intervenire in uno spazio cittadino di esponibilità ha ben presente l’importanza del suo uso “contestuale”, basti pensare alle funzioni di espressione parallela e di rilevatore di posizione, di localizzazione. Ancora, un’altra caratteristica degli strumenti mediali convergenti sembra essere la progressiva scomparsa della mediazione organizzativa: “ […] un no deciso alla cultura del giovanilismo “e cioè alla pratica paternalistica del potere … che uniforma e condiziona. […] La novità – sostiene Gabriele Perretta, il critico – sta nel fatto che questi artisti cominciano a cercarsi da soli lo spazio per emergere, scavalcando per esempio la tradizionale figura del mediatore-manager. Il rapporto tra artista e istituzione pubblica comincia a essere più diretto. La serie di mostre tra Pomigliano D’Arco e Napoli sono un esempio concreto di quel che voglio dire” (L. Giannini, ibidem).

Lucia Gangheri, smalto e scotch su telo di plastica cm.130×150, 1983

I tradizionali strumenti artistici vengono sostituiti da media sempre più trasparenti, dalla relazione sempre più tenue e dalla sempre più accentuata sensazione ‘immersiva’ dell’esponibilità. All’interfaccia galleristica, cui ci ha abituati il vecchio medium espositivo, si sostituisce un’interfaccia che si pretende metropolitana e sconfinata, dove l’interazione attraverso il tocco, i gesti, operazioni come lo stringere e l’allargare le espressioni nello spazio urbano, conducono in definitiva a illudersi di avere a che fare ‘direttamente’ con le cose del mondo.

La versione di un mio articolo di commento alla mostra Città senza confine, edito dalla rivista Le Arti News, curata da Filiberto Menna, definisce in questo modo la voce “realtà artistica-espositiva”: “L’arte mediale ritrovata nello sbandamento espositivo della visualità, prodotto dalla tecnologizzazione delle percezioni: è una mossa di adattamento e di ripristino dell’immaginazione. E più che agire sulla memoria e sul tempo la traccia esposizionale sta agendo sullo spazio”, è questa l’onda della nuova medialità”. 

Come afferma Giulio De Martino, in un articolo su Napoli Notte: “La pittura giunge lì dove l’immagine tecnologica ha ormai azzerato ogni cultura regionale: è il nuovo spazio che viene ad essere affrescato dai pittori: sono le scene di alcune performance teatrali, le pareti di un garage, i vagoni della metropolitana, un muro sbrecciato. La pittura sta ripopolando gli spazi con un immaginario quotidiano, con colori sintetici, con grandi distese di tinte: producendo figure che sono segnali di spazialità, di corporeità, di danza. Dal muro si rimbalza nell’ambiente: è la tecnologia che provoca questa controtendenza, per cui i pittori sentono il bisogno di ritrovare un rapporto fisico con la spazialità” (giovedì 26 gennaio 1984, p. 13).

Rosa Persico, Senza titolo, olio su carta,in Città senza confine, 1984

Su Il Mattino, la voce di Michele Bonuomo replica e sentenzia tra invettive strategiche ed enfatiche astuzie: “Se questa di Pomigliano voleva essere una prima campionatura delle nuove forze creative, nate a Napoli sulla scia di altre situazioni e personalità nella loro espressione di rinnovamento, bene, l’esperimento si può dire riuscito …” (Anno XCIII- giovedì 21 giugno 1984 …).

In sostanza, abbiamo a che fare con la realtà esposizionale prolungata ogni qualvolta un’azione retinica o a-retinica – un elaboratore cromatico sensibile – aggiunge “informazioni multimediali alla realtà già normalmente percepita”.

In un’auto-intervista impossibile, “chi scrive” “ha sottolineato come l’ultima frontiera della tecnologica consisterà nella condivisione di “esperienze totalizzanti”, come l’essere immersi nella realtà virtuale e urbana. E proprio gli strumenti di realtà spaziale-urbana, indossabili durante l’intero arco della giornata (si pensi alle famigerate bombolette spray dei writers), saranno fondamentali per “migliorare le nostre esperienze comunicative”. La realtà espressiva metropolitana potrebbe, dunque, diventare un medium fondamentale nella nostra esperienza fisiologica. A mio modo di vedere, queste dichiarazioni possono essere lette attraverso la lente critica della semiotica materialistica. L’idea di futuro proposta da Città senza confine è strettamente connessa alla progettazione di nuovi dispositivi e alla strutturazione di nuove forme di comunicazione. In questa prospettiva, non mi sembra azzardato affermare che la diffusione della realtà virtuale nella vita quotidiana e l’immersione dell’artista in un universo comunicativo mediato da determinati  stili comunicativi siano obiettivi di una forma specifica – e anche abbastanza esplicita — di quella che Rossi-Landi definisce “progettazione sociale”. Una visione sconfinata del mondo – in questo caso, del futuro – che non è pura contemplazione, ma “azione progettante”. La categoria di preparazione sociale vuole connotare la dimensione pratica, realizzativa, di ogni “slocalizzazione mediale”. Attraverso la tesi dello sconfinamento come progettazione sociale, Rossi-Landi ha proposto un’interpretazione semiotica di uno dei temi più problematici del dibattito sulla teoria marxiana: il rapporto tra struttura e sovrastruttura. Rossi-Landi ha ipotizzato che «i sistemi segnici» debbano essere considerati l’elemento negoziatore delle relazioni tra i rapporti di riproduzione e le istituzioni. L’assunto di partenza è che ogni reciprocità sociale, tanto a livello strutturale che a livello sovrastrutturale, debba necessariamente articolarsi in base ad una narrazione, cioè in base ad una parte finita di un determinato sistema segnico. La stessa nozione marxiana di impegno – secondo Rossi-Landi – non può prescindere da quella di esposizione, essendo il processo lavorativo un’attività conforme allo scopo: se l’opera è un’attività sociale, una forma di cooperazione tra individui in vista di un determinato scopo, allora questa attività non può svolgersi indipendentemente da qualche forma di semiosi espositiva, cioè, non può non “svolgersi secondo un’esposizione”. Il livello dei sistemi segnici, in questa prospettiva, costituisce una parte fondamentale dei rapporti materiali di produzione, ponendo – sotto forma di testimonianze – le finalità dei processi. Dunque, si può affermare che il livello dei sistemi segnici medi è quello strutturale; ma tale mediazione, a propria volta, altro non è che un’azione particolare del livello sovrastrutturale, cioè un’azione sul livello strutturale di una parte più o meno estesa e stabile della riproduzione sociale nel suo complesso o, quanto meno, di alcuni dei suoi processi fondamentali: questo proposito immane è costituito dallo sconfinamento urbano.

Lucia Gangheri, smalto e scotch su telo di plastica cm.120×150, 1983

La pratica dello sconfinamento è un sistema segnico complesso che comprende in sé “tutte le istituzioni non direttamente economiche e tutte le attività artistiche, scientifiche, religiose, politiche” (F. Rossi-Landi, Ideologia, Mondadori, Milano, 1978; n. ed., Meltemi, Roma, 2005, p.105). 

L’originalità dell’argomentazione di Città senza confine sta nel ritenere che, sprigionandosi dal livello generale dell’esecuzione sociale al livello particolare delle “esponibilità”, il fattore “mostrificante, urbano” arrivi ad istituire come proprie articolazioni gli innumerevoli propositi di comportamento, su cui si reggono le interazioni sociali: in questa prospettiva, non si dà interazione umana che non sia in qualche modo istituzionalizzata – in quanto basata su un codice – e dunque anche intrinsecamente ambientale. Questa tesi, tuttavia, non deve essere interpretata in maniera rigida. Il fatto che ogni interazione sociale immagini uno sfondo istituzionale o ambientale, non implica l’impossibilità di un margine di eccedenza: i soggetti artistici possono “produrre qualche cosa che non è previsto dal giro di riproduzione sociale”, mettendo in discussione le fattualità che dovrebbero condizionare il proprio agire. Secondo Città senza confine, le due forme testuali – tutto sommato consuete nella vita quotidiana – della pratica personale e della mappa del territorio sembrano convergere in maniera inedita nelle bombolette spray, attribuendo loro la peculiarità di essere strumenti al contempo personali e mobili. In particolare, la mappa e l’agenda di intervento urbano possono essere lette come due azioni fondamentali, per orientarsi nello spazio urbano attraverso la “nuova realtà estemporanea”. La pratica disegna “uno strumento per l’organizzazione delle formazioni segniche e adattabili, legato a una dimensione ovviamente e completamente personale, prospettica, progettuale”; la mappa, invece, disegna “l’immagine di un universo condiviso, il mondo di tutti”. L’ipotesi di Città senza confine è che l’opposizione tra queste forme testuali ricalchi quella struttura primaria che si colloca “alla base di ogni disegno narrativo”, ponendo in relazione due istanze fondamentali: l’istanza di finalità e quella di prospetticità. La prima “porta nell’installazione narrativa tutto ciò che fa riferimento a un sistema di valori condivisi, collettivi, tendenzialmente impersonali, idealmente statici, perché votati al mantenimento delle convergenze intermediali. La seconda si pone invece come un’istanza, processuale e soggettiva, centrata sui meccanismi del desiderio e sulle dinamiche del volere. Questa definisce una specifica sensibilità, genera tensioni patemiche e processi di riformulazione personale dei criteri d’investimento semantico: qui si propone, dunque, la progettualità di un’azione tesa a trasformare stati di cose, a lavorare il sistema per ridefinire senza posa identità e performance continuamente in gioco e relazioni perennemente instabili.

L’ipotesi dello sconfinamento situazionale, in questo caso, è che l’uso pratico-comunicativo del linguaggio (inteso sia nella sua dimensione verbale, che in quella non-verbale) ri-proponga l’opposizione tra capitale e attività artistica. Il linguaggio è lavoro, perché come il lavoro si esercita su determinati materiali, mediante determinati strumenti e dà origine a determinati prodotti. Ma, più precisamente, il linguaggio ripropone quella che marxianamente può definirsi struttura organica del capitale: il linguaggio presenta la struttura di un capitale che usiamo per esprimerci (visivamente), con il quale parliamo e visualizziamo, e che a sua volta ci usa come parlanti per riprodurre se stesso. Vi si possono chiaramente riconoscere una porzione costante e una porzione variabile. La seconda è costituita dai lavoratori linguistici (artisti) cioè dai parlanti; la prima corrisponde in gran parte al codice o lingua, si suddivide nei già incrociati materiali e strumenti linguistici, e comprende inoltre il denaro linguistico (F. Rossi-Landi, Metodica filosofica e scienza dei segni, Bompiani, Milano, 1985, p. 127). La costante di Città senza confine è che il capitale linguistico, sotto forma di sotto-lingue specialistiche, sfrutti il lavoro linguistico vivente, costringendo il parlante e il figurante comune (il writer) a “vedere il mondo nell’ottica di quella lingua speciale”. Si potrebbe dire – secondo me – che il capitale linguistico, attraverso i suoi diversi sotto-codici, cerchi di imporre la propria istanza di Destinazione al soggetto produttore di segni ed interpretazioni urbane. La definizione continua elencando degli esempi, da me stesso sviluppati, di realtà sconfinata: “Assai meno coinvolto da McLuhan nel rifiuto della critica tradizionale, ma quanto lui interessato a delineare i caratteri della nuova esponibilità, è il progetto allegorico post-situazionista di Città senza confine, i cui oggetti di studio privilegiato sono stati lo slittamento della metropoli barocca mediterranea e il post-simbolismo. Da essi Città senza confine trae ispirazione per delineare i tratti essenziali di una critica centrata su tre fenomeni: la catastrofe delle forme, la merce artistica e lo scollamento erotico. Questi sono effettivamente tre aspetti dell’esistenza, che la critica d’arte tradizionale ha trascurato, se non rimosso: l’originalità del vissuto sconfinante consiste, non tanto nell’averne fatto i cardini del suo vissuto, quanto nell’averli posti in relazione tra loro, conferendo una dimensione di pratica artistica ad una situazionalità vitale che, traendo spunto da una osservazione interna alla manifestazione stessa di Pomigliano D’Arco, si può definire con l’espressione “General Intellect/altro della differenza”. Il nucleo teorico di tale esperienza è costituito da una miscela tra la dimensione del vissuto artistico urbano e quello simulacrale dei segni; per cui, da un lato si evince la sensibilità artistica fuori dalla cornice e dagli studi artistici e dall’altro le opere sembrano dotate di una loro memoria e sensibilità, che governa allegoria e intraprendenza del viaggio mediale. La genialità diffusa, infatti, non è soltanto le pietre dei poveristi, ma anche il simbolico di Robert Combas ( le plastiche di Lucia Gangheri o gli lii su cartone di Rosa Persico): esso così si dissolve, diventa più astratto, più fumettoso, senza però trasformarsi in qualcosa che non ha più a che fare con la figura; anzi dietro tutte le configurazioni del materico e dell’immateriale opera come il paradigma di ciò che è massimamente alla portata di tutti, cioè della banconota fisiologica fattasi medialità” (Gabriele Perretta, in Città & Città, estate 1984).).

La realtà di Città senza confine potrebbe essere letta come una manifestazione di quello che Marx ha definito “general intellect”, il sapere sociale generale oggettivato nella macchina metropolitana. A tal proposito, sarebbe interessante – a mio parere – chiedersi quali nuove prospettive teoriche avrebbe potuto delineare lo sconfinamento analizzando la diffusione delle performance a-retiniche dei writer: un fenomeno che sembra «definirci» sempre più nella nostra dimensione quotidiana di operatori segnici (costruttori, writer sui generis ed interpreti di messaggi) e che sembra richiamare quel celebre passo dei Grundrisse, in cui Marx afferma che lo sviluppo tecnologico mostra quanto la conoscenza sociale (necessariamente organizzata in sistemi di segni) sia in grado di condizionare il “processo vitale stesso della società” (K. Marx, Grundrisse: 1857-1858, Vol. I, Einaudi, Torino,1968).