Arte Fiera 2025
Sarfatti
La scenografia dello spettacolo “Sarfatti” (foto Elisa Vettori)

Nel cubo il volto. Le molteplici letture di un ritratto in Sarfatti

L’opera “Sarfatti” è nata da un’idea di Massimo Mattioli e Claudia Coli con la regia di Andrea Chiodi e la scenografia di Guido Buganza, ha debuttato la scorsa estate al Teatro Franco Parenti di Milano.

Il silenzio e il buio aprono la scena; un cubo nero – la stanza. Siamo subito immersi e non più davanti al muto ingombro, non appena seduti a Sarfatti. Un altro cubo è disegnato dalla luce. È la gabbia, lo spazio del ritratto che ingloba la scena in cui campeggiano: una sedia, un tavolo, una teca che funge da basamento della statuetta del Duce, il monolite verso cui ella si rivolge e muove, catalizzandoci per tutta la durata del monologo. È uno spazio scarno e intimo quello che il monologo teatrale Sarfatti ricostruisce, eppure capace di smuovere il pensiero guidandoci verso una moltitudine di rimandi, intorno alle sfaccettature dello spazio, al cubo e al volto.

La Sala Blu calibrata da una successione di pilastri è ritmata dall’unica voce di Claudia Coli, che attraverso una recitazione caustica e sincopata interpreta il testo, della Drammaturgia densa originale di Angela Dematté, cui solo le menti allenate hanno potuto seguire senza mai perderne il filo. 

Appare una tautologia dello spazio-scultura e si afferma facendo coincidere la forma e il senso, dunque il significato e il significante, come le opere più celebri del padre del concettualismo Joseph Kosuth: “Neon” 1965 scritto con neon; “Una e tre sedie” (sedia vera; sedia fotografata; definizione del vocabolario di sedia). 

Tra queste polarità luce e buio, presenza e assenza e nel mutuo accordo l’assenza nella presenza – del lontano nel vicino è il cubo vuoto, il potere di fascinazione, non privo di rimandi come ad esempio In-cubo, per Carla Lonzi di Luciano Fabro. Due sono le immagini chiave di lettura che mi hanno fatto riflettere tra il nesso con l’assenza e con il limite: una è quella che pone il gesto alla base dell’opera come definizione e costruzione dello spazio di cui Lucio Fontana è maestro indiscusso; l’altra è quella intorno alla genesi del Cube, un disegno del 1932 di Alberto Giacometti in cui si nota tra sculture dai caratteri riconoscibili, una figura che assume l’aspetto di un poliedro irregolare, costituita da barre che formano una sorta di gabbia, al cui interno si trova una figura umana stilizzata. Come nelle parole di Didi-Huberman[1], «Ciò che Le Cube esibisce in modo evidente in quanto oggetto visibile, è certo una massa compatta e imponente; ma cominciamo a capire che racchiude o memorizza in sé un potere latente – latente ma visivo, visualmente messo in gioco – di elaborare l’assenza».

Così lo spazio travalica verso gli spazi immensi dell’arte dove confluiscono suggestioni, realtà e identità.

A partire dalla Sala Blu, lagunare come i ricordi fermati in Acqua passata (1955) o come le ore di ozio infantile Paradiso non perduto di orizzonti conoscitivi che accompagnarono la frenetica attività culturale di Margherita Sarfatti, figura cardine tra le più complesse del Novecento. 

Lo scheletro invisibile dell’alchimia, la formula chimica del blu, rimesta la scena, contaminando anche il respiro della sua luce fredda e meditativa, a ricordarci forse la parabola umana di Quando abbiamo smesso di capire il mondo [2]Anticipa e perpetua la struttura del dramma quello comune a tante donne troppo spesso condannate all’oblio, all’ombra di una società maschilista e ancora oggi da emancipare.


[1] Georges Didi-Huberman, Il cubo e il volto. A proposito di una scultura di Alberto Giacometti.

[2] Benjamín Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi Editore, 2020.

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