Gabriele Perretta, profondità del metagramma, scheggia fotografica, 2002

Memorie … (2)

La memoria è spesso prerogativa dell’assurdità; in genere appartiene agli spiriti indigesti; che rende più afosi con i colli di cui li ricolma. Perché dobbiamo avere abbastanza memoria da ricordare fin nei minimi particolari quello che ci è capitato, e non ne abbiamo quanto basta per rammentare quante volte lo abbiamo riferito alla stessa persona? L’immagine, gli engrammi mediali, sono un compromesso: gli uomini si difendono con quello …

Alfa. Sul ring del grande palazzo sportivo dell’Isola Dodecafonica, stava per iniziare il concerto tra i due più esilaranti musicisti del mondo. In un angolo c’era il colossale Enrico Maria Sestante, campione di musica sperimentale, ecforico, grosso e forte come uno schoenberg-nauta. Aspettava fermo, a testa bassa, seduto sul suo sgabello, ascoltando i consigli della sua stessa Memoria, che il suo Tutore Mnemonico gli urlava dentro le orecchie per farlo Mnemosinizzare. Nell’Angolo di fronte scalpitava Jim Mnemosine, campione dell’Androginia performatica e artistica, rossastro e feroce come un rapper, con la faccia coperta di nei e le sopracciglia folte come una Dama della Memoria e dei Fantasmi Ctonici.

Tutt’intorno, nel semibuio dell’immenso Living-Theatre, migliaia di spettatori-attori eccitati ed impazienti parlavano, gridavano, imprecavano, ridevano, mangiavano noccioline, fumavano sigarette di hashish e succhiavano caramelle di LSD. Alcuni guardavano i due musicisti con il cannocchiale, altri leggevano alla fioca luce gli articoli sull’arringa musicale di Mnemosine, che parlavano di concerti di musica concreta falliti, happening di musica sonora estemporanei, etc … Certi giornalisti avevano scritto che Sestante era più in forma per sconfiggere i fantasmi, altri che era più in forma Jim Mnemosine; certi dicevano che Sestante aveva miglior gioco di grancasse e di timpani, altri che Mnemosine era più svelta sul palcoscenico degli echi spirituali. I giornalisti più informati riportavano che Sestante si era fatto otturare i fiati da un tecnico cyber, e che Mnemosine soffriva di un’ossessione che le prendeva dritto dritto nella memoria. I giornalisti meno informati, come al loro solito pensavano a diffondere le cazzate, e quindi avevano scritto che Sestante era della provincia di Napoli, dove brilla il sole, e Mnemosine della Terra dei Mani, i cosiddetti Manomessi, dove finisce l’oceano delle fake news, della Fuffa e dei bitcoin.

“Vagli sotto subito, a quella batteria di strumenti a percussione, sii tautologico con la musica e con l’evocazione delle Immagini. Mi raccomando: Fantasmi, fantasmi, fantasmi”, diceva il tecnico del suono di Mnemosine, “e dagli tre o quattro colpi di grancassa di sinistro per rompergli l’aspettativa. Poi prova col destro, ma ricorda che quel buffone di concretista salta qua e là come una cavalletta”.

“Giragli attorno mezzo minuto, a quel avanzo di Folk Studio” diceva il tutor di Sestante, “e pestalo un po’ sulle pentole, fino a rievocare Rosso Napoletano di Toni Esposito. Fallo stancare senza scoprirti, poi mollagli due o tre note prog, ma bada che quell’ubriacone si piega di qua e di là come un orchestrale”.

I due performer ascoltavano e sbuffavano, digrignavano i denti e scuotevano bruscamente piccoli strumenti a corde che limitavano il palcoscenico, tanto che da lontano anche il teatro sembrava tremare per l’attesa del concertone. Il tutor, insieme al tecnico, si spostava nervosamente al centro del fossato e, con la sua camicia bianca, sembrava un azionista cieco in cerca di stimolazioni. Ai piedi del teatro c’erano le altre «orchestrate» e le postazioni dell’organizzazione dell’happening, poi i posti dei giornalisti-truffatori e degli operatori della televisione digitale, che illuminavano dal basso con lampi e fari le enormi schiene inquiete dei due musicisti contendenti, mentre in cerchio migliaia di ciglia battevano, migliaia di fantasmi offrivano immagini, migliaia di nuovi protagonisti, così come l’Uomo della folla di E. A. Poe, si agitavano e davano calci alle strumentazioni musicali e agli echi delle loro stesse memorie.

In tutto quel fervore e quel caos orchestrale, l’unico a star tranquillo era il sintetizzatore di R. Semon l’ecforista: era un sintetizzatore piuttosto anziano, e lavorava nel mondo degli «happening interattivi», introdotti da Tommaso Tozzi, ormai da trent’anni. I suoi antenati abitavano nella Toscana di Giuseppe Chiari, dove svolgevano importanti compiti artistici; poi le generazioni di sintetizzatori erano emigrati e, attraverso l’oceano musicale riproposto dal poeta Franco Battiato, si erano fermate sulle coste di Leptis Magna. Più tardi ancora, portate da viaggiatori e mallevadori-musicanti, si eran sparpagliate in tutti i territori del Mediterraneo, trovando vari impieghi: alcuni presso orchestrali, altri da orologiai digitali, ulteriori in case di registrazione musicale per fantasmi della pittura, e secondi eran finiti, come appunto il sintetizzatore che sonnecchiava sul tavolo dell’ecforia dell’ecforista1, a lavorare nel mondo della musica e dell’immagine per fantasmi.

James Ensor, Autoritratto con Maschere, dettaglio

Il nostro sintetizzatore era piccolo e massiccio, di un bel colore bruno, appeso con due fili metallici ad una impalcatura di plastica rossa, non molto elegante ma facile da trasportare e da montare in mezzo alla folla. Dopo trent’anni di lavoro e di quella sperimentazione, gli Agenti del Caos non gli interessavano più: aveva visto troppi rumori trasformarsi in fantasmi, braccia prive di laccio per la siringa, occhi gonfi di eroina e cervelli sbattuti. Così, ormai da dieci anni, nel chiuso di una saletta discografica, custodita male, tra un incontro e l’altro studiava musica post-dodecafonica per stemperare i Nuovi Fantasmi di Dentro; moderni, Nuovissimi Fantasmi autorizzati dal Maestro Eduardo De Filippo. Nessuno lo faceva, ma se qualcuno avesse appoggiato l’orecchio alla scatola sonora dove il sintetizzatore era contenuto, avrebbe potuto sentire melodie post-sonore, sinfonie post-consonantiche, fughe discrete e struggenti pastorali trascritte da Arrigo Lora-Totino, anche se non sempre suonate alla perfezione: ma chi avrebbe preteso di più da un vecchio sintetizzatore consonantico, e per di più impiegato nel campo dell’happening teatrale e iconografico?

Quella sera il sintetizzatore stava appunto sognando di trovarsi in una immensa sala da concerti nel centro di Napoli, di fronte ad un vecchio tecnico del suono dai capelli folti e bianchissimi, e con un pubblico attoriale di fantasmi vestiti di rosa e arancio pallido, di giovani Mani in frac e gran colletti di pizzo attorno alle guance.

Mentre sognava così da far schifo, il tecnico del suono fece cenno ai due avversari di avvicinarsi. Saltellando e scuotendo tutte le loro bacchette sonore, Jim Mnemosine e Enrico Maria Sestante raggiunsero il centro del palcoscenico, mentre alle loro spalle suggeritori e tecnici del suono facevano smorfie e segni di «scongiuro fantasmatico». Poi l’ingegnere, tanto per dire, disse loro di rispettare le regole e, tanto per fare, controllò le spinette e i jack di collegamento, infine li rimandò agli angoli e alzò un braccio verso l’ecforista per far cominciare l’happening. In quel momento, svegliato dall’improvviso silenzio del pubblico, vide un tale bianco con le braccia alzate sopra di loro (era  l’ingegnere del suono, ma sembrava il direttore dei Fantasmi Ctonici), vide gente seduta con fogli e strumenti (eran mentori e giornalisti, ma sembravano orchestrali): insomma, per un attimo ebbe ad ingannare gli inganni, raggirare le truffe, e pensò che il suo sogno fosse vero quanto quelle immagini che scorrevano lungo tutti gli schermi digitali, e che adesso gli toccava suonare. Così, quando l’ecforista lo colpì con la bacchetta della batteria, invece del solito suono che fa iniziare gli incontri di happening, il sintetizzatore cominciò con forza e dolcezza su una corda di Aries di Battiato, perché era la cosa più facile che venne da suonare, in quella Voce del Padrone.

Le note di quella «STRA-dodecafonia Fantasma» riempirono l’immenso salone del teatro come il profumo di birra e di luppolo riempì il naso di un barman ubriaco in una notte di febbraio e tutti restarono fermi come pupazzi in una gigantesca immagine firmata da Bill Viola.

Poi, dolcemente, Jim Mnemosine e Enrico Maria Sestante si mossero l’uno verso l’altro, si incontrarono con un dialogo di voci, si passarono delicatamente bacchette e spinette dietro la schiena e cominciarono a fare ampi giri di «Aries» intorno al mucchio di campionatori, con incantevole leggerezza, mentre il tecnico del suono prese a volteggiare leggiadro come un Fantasma dell’Immagine, intorno a loro come un folletto festoso si mosse Dibbuk.

Il sintetizzatore si era accorto dell’errore, ma ormai era troppo tardi per cambiare musica, e oltretutto la performance che si svolgeva sul palcoscenico era come un racconto in videoclip.

E a poco a poco, tutt’intorno a quella specie di rituale alchemico illuminato e animato, giudici e giornalisti, venditori di noccioline e di gazzose, malelingue e fuffologi, migliaia di attori sorridenti cominciarono a trasformarsi nelle macabre maschere di James Ensor, da soli, in coppie, in gruppi numerosi, con tanta grazia e fervore che sembravano volare sopra i sedili e gli scalini delle gradinate di cava.

Il sintetizzatore gongolava, e sempre più sicuro di sé attaccò a quel happening un altro, e poi un altro e un altro ancora, per tutta la notte e senza bisogno di colpi di timpani o di grancassa.

Tutti performavano come fantasmi e nella trebbiatrice del «fantasmale napoletano», e ai due primi performer, Sestante e Mnemosine, era la prima volta che girava la testa non per una ubriacatura di suoni e di emozioni, ma per la felicità dell’immaginazione critica.

Sullo sguardo di Aby Warburg

Beta. Da ciò che termina a ciò che inizia: In un colloquio ipotetico con Beatrice, Dante nel Paradiso fa dire alla contemplata Madonna d’Amore: “Apri la mente a quel ch’io ti paleso/ e fermarvi entro; ché non fa scienza,/sanza lo ritenere,avere inteso”(Paradiso, V, 40-42). Nel Cato Maior de senectude, Cicerone campionando un detto popolare latino diffonde la famosa frase: Memoria minuitur […] nisi eam exerceas”. E’ procedura generalmente accettata ripercorrere a posteriori un evento, o una serie di eventi, dal principio sino alla fine, analizzando ogni passo del discorso in riferimento a ciò che lo precede e ciò che lo succede: ciascun momento risulta da ciò che è venuto prima ed è destinato a lasciare il posto a ciò che si accoderà. Si instaura quindi un nesso di tipo causale tra punti che si susseguono su un’ipotetica linea retta, singoli istanti nel divenire storico.

Ripercorrere un evento significa, dunque, secondo questo criterio, risalire a ritroso questa catena di fatti sino a raggiungere l’origine. Si pratica la comprensione sforzandosi di avvicinarsi a questo punto fisso in capo al filo della storia e si costruisce un percorso posizionandovi i momenti bene in fila, uno dopo l’altro.

È curioso che una pratica tanto ovvia possa essere oggetto di giudizio; tuttavia se, come spesso accade, basta scavare appena un po’ sotto gli eventi logicamente incasellati per vederne affiorare le prime crepe, forse la bontà dei metodi, dello sguardo che si riserva abitualmente all’esperienza della realtà, non è così ovvia.

La quotidiana tentazione di percorrere la realtà con sguardo pigro, abituato al già visto: questa è la premessa che giustifica il tentativo di gettare ombre sulle verità costanti e chiaramente riconosciute. In Umano troppo Umano di F. Nietzsche, troviamo scritto: “Il vantaggio della cattiva memoria è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta”. Nietzsche sosteneva che ogni sistema linguistico socialmente stabilito nasce come canonizzazione di un sistema di metafore – e quindi menzogne, inventate arbitrariamente per descrivere cose mediante suoni che non hanno nulla a che fare con le cose stesse – che si impone sugli altri e viene generalmente accettato. Quando un sistema diventa il modo pubblicamente prescritto di intendere allegoricamente le cose – cioè mentendo – nascono alcune forme di comunicazione societaria. La memoria si presenta come tipo creativo, e non replicativo, ed è definita perciò dall’adattatività, associativa e dinamica: “Una memoria non è una rappresentazione, ma rispecchia il modo in cui il cervello ha modificato la propria dinamica per consentire la ripetizione di una prestazione […]. In un certo senso è una ricategorizzazione costruttiva di un’esperienza in corso e non una riproduzione puntuale di una sequenza passata di eventi […]. Non esiste un insieme a priori di codici determinati che regolano le categorie della memoria. Esistono solo la previa struttura popolazionistica della rete, lo stato dei sistemi di valore e gli atti fisici realizzati in un determinato momento. I cambiamenti dinamici, che legano un primo insieme di circuiti a un secondo insieme nell’ambito dei repertori neuroanatomici enormemente variati nel cervello, consentono di creare un ricordo, la cui probabilità è aumentata dall’attività dei sistemi di valore”(G. Edelman, G. Tononi, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi Torino 2000, elaborato da: pp.111 a 120). La base biochimica della memoria è fornita dalle variazioni di forza sinaptica dei gruppi in forma generale. Come il linguaggio nasce arbitrariamente e si impone per consuetudine, anche lo sguardo, ovvero l’esigenza di scattare foto – l’approccio alla realtà, l’esperienza del mondo – può fondarsi su metodi usuali e fittizi. Potrebbe essere una sfida da lanciare all’esperienza ed alla conoscenza quella di rinunciare a spiegare, ad oggettivare ed a distillare verità, e prendere l’abitudine di dubitare del chiaramente noto, preoccupandosi di attraversare le cose anche – soprattutto – nelle direzioni mai intraprese. Benjamin scriveva che:«lo storico è tenuto a spazzolare nel senso opposto il pelo troppo lucido della storia». Immaginiamo una civiltà in cui gli strumenti per imprimere la memoria sono pochi e a uso di pochissimi, la capacità di ricordare diventa indispensabile. Niente smartphone, niente phone, niente computer, niente post-it, nemmeno un lapis per annotare ciò che si vuole ricordare, ritorna Montaigne: “La memoria è il ricettacolo e l’astuccio della scienza”. Più si torna indietro nel tempo e più l’unico vero metodo per ricordare è fare affidamendo sulla propria azione memoriale, sull’individualità del proprio processo mentale. Questa era la realtà dei nostri antenati, oggi impensabile, perchè, sembra proprio, che oggi abbiamo “dimenticato a memoria”, nel senso che «abbiamo dimenticato come ricordare». Tra i frammenti storici dello scorso millennio c’è anche la capacità e il valore del ricordo. Una facoltà sopravvissuta nel corso dei secoli, invalsa da qualsiasi tempesta: ora diventata capacità superflua del nostro sistema, non più utile e quindi da gettare fuori da qualsiasi interscambio memoriale. Scrive Apollinaire in Corni da Caccia: “Les souvenirs sont cors de chasse/ dont meurt le bruit parmi le vent” (da Alcools). 

Il primo testo ad oggi conosciuto, che tratta esplicitamente di memoria, è l’Ad Herennium, redatto tra l’84 e l’82 a.C., il cui autore rimane ignoto. Questo testo latino, che attinge probabilmente a fonti anteriori, è diventato il testimone della conoscenza dell’arte della memoria classica, sia greca e sia latina. La memoria compare come una delle cinque parti della retorica, formata nel suo insieme da inventio, dispositio, elocuzio, memoria, actio, e permette all’oratore di ricordare il proprio discorso associandone le varie parti a una serie di «luoghi» e «immagini» impressi nella mente. L’insieme di queste regole finalizzate al miglioramento della capacità di conversazione e fruizione di informazioni prende il nome di mnemotecnica. In questo testo l’Anonimo autore individua due tipologie di memoria: una naturale, come facoltà innata dell’uomo, e una artificiale, da potenziare e consolidare con l’educazione. La memoria artificiale è quella che fa affidamento ai luoghi e alle immagini sopracitate. Un locus, dunque, era un posto fisico semplice da ricordare. Luoghi e immagini per essere adoperati in maniera adeguata dovevano rispondere a regole precise. I luoghi avrebbero dovuto risultare chiaramente distinguibili l’uno dall’altro, di modeste dimensioni, mediamente illuminati e, dopo un uso corretto, riutilizzati per ricordare materiale diverso, come fossero panetti di cera sui quali scrivere, cancellare e riscrivere. La regola più importante per la memorizzazione delle immagini era sceglierne una di singolare bellezza o bruttezza, in quanto, a causa dell’impatto suscitato, si sarebbe impressa con maggiore forza nella memoria.

Loci e images sono cambiati nel corso della storia. Basiliche e arene sono divenuti duomi e chiese metropolitane, figure affrescate e personaggi letterari hanno sostituito costellazioni e segni zodiacali, numeri e lettere si sono succeduti a immagini mitiche e ecclesiali. Le regole classiche dell’Arte della memoria sono state rivestite di senso religioso, rimaneggiate, recluse, riscoperte, deviate, ampliate, perfezionate e in qualche modo sono sopravvissute (si veda anche: Paolo Rossi, Clavis universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Ricciardi Napoli, 1960).

Frances A. Yates è la prestigiosissima studiosa della memoria, a lei va il merito di aver riportato alla luce l’arte della memoria e di averne tracciato il percorso sinuoso nel corso della Storia. Yates nei suoi studi afferma: «la storia della memoria abbraccia in maniera totale la storia della cultura, abbattendo le barriere tra le diverse discipline» (L’arte della memoria, Einaudi, Torino 2007). In altri termini gli studi della Yeats confermano l’immagine classica della nozione di memoria, ovvero: capacità di un organismo vivente di conservare tracce della propria esperienza passata e di servirsene per relazionarsi al mondo e agli eventi futuri.

Secondo Giambattista Vico, la memoria è la capacità produttrice di cultura e attraverso il lavoro della Yeats è facile ripercorrere la storia della memoria e contemporaneamente riscoprire la storia della cultura occidentale. L’altro classico che si occupa in maniera consistente della memoria e del suo rapporto con l’immagine è Aby Warburg. Per l’illustre connaisseur la memoria è latente, si sedimenta, ma in determinate circostanze riaffiora e si manifesta di nuovo. Questi continui ritorni Warburg li denomina Nachleben(sopravvivenze), e le identifica in figure e formule che si sono ripresentate nel corso della storia in maniera imprevedibile. Aby Warburg è un intellettuale indipendente e un critico d’arte che ha aperto una nuova strada nella concezione degli studi sulla Memoria, il passato, il tempo e della stessa Storia. Nasce come storico dell’arte, ma ha un approccio del tutto nuovo a questa disciplina, una metodologia della quale mira a confermare l’aspetto ermeneutico e di critica d’arte aperta. Rifiuta l’analisi delle opere dal punto di vista puramente estetico e formale e si interessa alle dinamiche che si nascondono dietro le immagini. Per Warburg la forma è il risultato di un gioco di forze; attraverso lo studio della morfologia – analisi delle forme – possiamo riscoprire le dinamiche latenti della memoria, lì dove emergeranno i residui vitali della storia. Nelle tesi del 1889, sulla Nascita di Venere e la Primavera di Sandro Botticelli, Warburg identifica nella figura della “ninfa” un’immagine archetipica che si è tramandata dalla classicità greca, al periodo medioevale fino al Rinascimento fiorentino. Altro legame viene trovato tra le figure degli affreschi del Palazzo Schifanoia a Ferrara e le descrizioni delle immagini dei decani egizi nell’Idruductorium di Abu Ma’shar. Impiega tutta la vita per ricercare i legami iconografici fra civiltà e epoche diverse, fino a spingersi verso la conoscenza delle comunità indigene del centro America. Realtà cronologicamente e geograficamente intangibili si ritrovano a coesistere nell’ultima ricerca warburghiana: Mnemosyne (Mnemosyne. L’Atlante delle immagini, Aragno, Torino, 2002). In questo rivoluzionario Atlante il tempo – inteso come successione cronologica di momenti – è esploso e i frantumi, fatti di formule e figure, si ramificano e si diffondono in maniera capillare e anacronistica, mostrando la visione oppositiva dell’atto storiografico espresso da Benjamin. Quello che ne deriva non è semplicemente una mappa di immagini incomprensibilmente collegate tra loro, ma come la definisce Warburg Mnemosyne è una storia di fantasmi. Col termine generico fantasmi si indicano apparizioni dubbiose di esseri soprannaturali dalla vita sconosciuta  e inafferrabile, immagini che popolano il libero «immaginario della gente comune», fumetti senza autore e senza una storia precisa, che vengono conservati nella memoria del singolo pittore, fantasm-azioni che solo in certi marginali aspetti entrano in contatto con il mondo dei vivi. La rappresentazione banale che si dà dell’immagine del fantasma è quella di una figura vagamente umana coperta completamente da un panno bianco, con due buchi al posto degli occhi: aspetto che poco ha a che fare con le immagini che si ritrovano nella tradizione popolare. Qui il fantasma è il vero e proprio simulacro di un essere vivo che s’aggira soprattutto di notte (ma non necessariamente) in determinati luoghi, spaventando, avvicinando i vivi, parlando con loro che lo credono un proprio simile, svelando pericoli, tesori, colpe segrete, o chiedendo d’essere liberato dalla sua pena, perfino facendo l’amore. Più propriamente il fantasma, per Warburg, potrebbe esser detto spirito dello chef d’oeuvre inconnu (vedi Balzac). Nell’antropologia sui generis si parla appunto di casa degli spiriti, così come nei racconti di E. A. Poe. La parola del celebre scrittore è un luogo infestato dagli spiriti, prescindendo dalle figure evocate dallo spiritismo, che appartiene più alla tradizione borghese che popolare. Lo spettro, invece, pur appartenendo alla categoria dei fantasmi ha un aspetto sempre terrificante e presenta sovente la volontà di incutere terrore. Questa credenza, per lo più confusa e non di rado irta di contraddizioni, deve essere ricondotta a una concezione pagana in cui dopo la morte, sopravvive non l’anima come principio immortale, ma un idolo, un’immagine, un essere dalla vita ridotta a figura artistica, destinato a dissolversi col tempo o a raggiungere per sempre il luogo del suo eterno soggiorno: «il Museo». E qui secondo Warburg il soggiorno è nell’arte, nell’arte di tutti i tempi! L’argomento può chiarirsi relativamente rifacendosi alle credenze che i pagani avevano sui Mani, le anime dei defunti, che sovente tornavano sulla terra dagli inferi. A ben guardare anche i latini su questo argomento non avevano idee precise: li consideravano ora anime separate dal corpo, ora divinità infernali, ora geni tutelari dei trapassati, ora anime degli antenati, oggetto di culto e dispensatrici di felicità. Molte sono le caratteristiche che i Mani hanno in comune con i Fantasmi: sono infatti perlopiù persone che hanno subito morte violenta e che restano legate al teatro del loro eccidio. Come narra Pausania, presso il campo di Maratona, nella notte, si udivano grida che atterrivano i passanti, con frastuono d’armi, rumore, credenza che il Foscolo riportò ne I sepolcri. Talvolta le ombre apparivano nei pressi del luogo d’un delitto, e si usava allora fare sacrifici, innalzare statue, come in seguito hanno fatto anche i cristiani, benedicendo la terra con croci o erigendo tabernacoli. I Mani, per licenza del dio Summano, sbottavano dalle loro dimore per visitare i vivi e si aggiravano nelle tenebre, evadevano allo strepito di oggetti di ferro e di bronzo (così poi le campane avranno nel mondo cristiano il potere di allontanare i demoni e gli spiriti notturni); amavano la vista del fuoco, da cui l’uso di porre lampade nelle tende o accenderle presso le lapidi; I Mani di coloro che morivano in terra straniera tornavano ai loro luoghi d’origine a chiedere onoranze funebri o la sepoltura; avevano cognizione dell’avvenire, usavano addormentarsi presso I sepolcri per avere sogni profetici; provavano a volte di entrare negli esseri viventi, erano vendicatori soprattutto del finto; venivano chiamati a testimoniare dei giuramenti … ce n’è abbastanza per vedere in trasparenza negli spettri la degenerazione dei Mani, ma anche la storia dell’immagine, nonché l’immaginario del regista George A. Romero; anche se la questione si complica ulteriormente col sovrapporsi del cristianesimo. Gli spiriti sono infatti, di solito, anime di coloro che hanno conti rimasti in sospeso con la vita, per cui non possono accedere ai regni oltremondani: per adempiere a ciò che impone loro la legge, restano sulla terra finché è necessario, o il tempo che sarebbe durata la loro esistenza naturale se non fossero stati uccisi. Sono legati alla terra dove si sparse il loro sangue, all’albero dove furono impiccati, alla casa del loro destino, alle polveri del loro incendio… Come l’apparizione dei Mani può far perdere la ragione, così la vista dei fantasmi e delle immagini che si presentano allo scrittore Stendhal fa smarrire il senno: imbianca improvvisamente i capelli, sconvolge irrimediabilmente la vita. Allo stesso modo le dame bianche possono essere collegate alla tradizione pagana delle Lamie, camole di femmine la cui brama d’amore non si è estinta con la morte e che si aggirano nella notte cercando di accoppiarsi con un vivente, come scrive Filostrato nella Vita di Apollonio.

I fantasmi che hanno animato e continuano ad animare la memoria dell’Europa sono i protagonisti della genealogia e dell’archeologia della Mnemosine di Warburg! Come loci e images, sono impronte, tracce, semiotiche del tempo, pulsioni energetiche e tensioni spirituali che Warburg chiama dinamogrammi. Questo termine deriva dall’engramma di R. Semon, la cui concezione di memoria condizionò molto la critica d’arte warburghiana: «La memoria non è una proprietà della coscienza, ma la qualità che distingue il vivente dalla materia inorganica. Essa è la capacità di reagire a un evento attraverso un periodo di tempo: vale a dire, una forma di conservazione e trasmissione dell’energia sconosciuta al mondo fisico. Ogni evento che agisce sulla materia vivente, lascia una traccia che Semon chiama engramma. L’energia potenziale conservata in questo engramma, può, in determinate circostanze, essere riattivata è scaricata, nel qual caso diciamo che l’organismo agisce in un certo modo perché ricorda l’evento precedente(Die Mneme als erhaltendes Prinzip im Wechsel des organischen Geschehens (1904))».

Simboli e immagini nella storia dell’arte agiscono come engrammi, in essi si cristallizza una carica energetica, un’esperienza emotiva capace di conservarsi e di trasmettersi nella memoria collettiva attraverso immagini mnemoniche. Queste immagini non sono da intendersi come una copia mimetica del passato, ma come una forza nuova che si riappropria di formule antiche. Il lascito di Warburg è una scienza che abbatte i confini tra una disciplina e l’altra, o meglio che dimostra come di fatto questi confini non siano mai esistiti, la stessa ambizione che ritroviamo negli studi di Yates. Attraverso la memoria, la scienza di Warburg connette estetica, biologia, antropologia e psicologia. Questa interdisciplinarietà è possibile perché il metodo di Warburg non agisce secondo le logiche razionali della storia ma seguendo l’andamento  paradigmatico della memoria. Solo una «scienza senza nome» e «senza metodo» può essere in grado di sondare nel buio del passato, scavare nei buchi della storia, negli abissi dell’inconscio. Il compito del critico d’arte è paragonato a quello di un sismografo che agisce come un sensore di individuazione e registrazione delle «patologie del tempo». Le sopravvivenze sono sintomi del tempo; un bravo critico d’arte, come un abile psicanalista, deve riuscire a individuarli, cogliere le forze vitali che si agitano sotto la superficie dell’apparenza, per arrivare a quella che Warburg stesso definisce una diagnosi della persona occidentale, con lo scopo di capirne i bisogni e di guarirlo dai disagi e dalle patologie della civiltà in cui vive. Gli studi critici di Warburg saranno fondamentali per capire l’approccio critico contemporaneo. La prima proposta è che attraverso lo studio della memoria affiorano le necessità, i bisogni e le mancanze, i disagi e le malattie di una civiltà. La seconda proposta di Warburg riguarda,invece, il legame tra arte e memoria, ovvero come le immagini dell’arte  siano impronte nel tempo, tracce di memoria, registratori di forze dinamiche che muovono l’uomo occidentale. Dice Didi-Huberman: «Ciò che rimane vivo di un sapere è quanto di più rimosso, di più cupo, di più distante e viscoso in quella cultura ci sia. Il più scomparso in un certo senso, perché il più tumulato è il più fantasmale; ma anche il più attivo perché il più trasportabile, il più prossimo, in più pulsionale». Applicato alla nostra nuova e catastrofica modernità, il metodo-non metodo critico di Warburg insegna che per capire la società in cui viviamo dobbiamo portare alla luce ciò che è rimosso, offuscato, occulto nei «fantasmi della memoria».

  1. Negli studi sulla memoria il recupero, o ecforia, secondo l’espressione assegnata da R. Semon, che nel 1908 aveva introdotto anche il concetto di traccia mnestica o engramma (utilizzato da Aby Warburg), è il richiamo alla mente del materiale precedentemente immagazzinato nel registro sensoriale con la ritenzione e, ipoteticamente consolidato, reso disponibile per l’effettivo ricordo.