Matteo Basilè. La bellezza è un inganno benedetto

Scriveva Borges che la bellezza è più fatale della morte. E di fatto la bellezza è una condanna, una salvezza, un’invocata necessità. Un inganno benedetto, la definirà di qui a poco il mio talentuoso interlocutore. Dinanzi alla sua opera ovvero dinanzi all’opera di Matteo Basilè mi pongo nella possibilità di apertura ad una commozione profonda, mi abbandono ad una condizione di bellezza e di stupor.

L’ebbrezza di queste visioni immaginifiche, audaci, segna in me un tempo della fioritura, per dirla alla Baudelaire; ogni magico frammento d’anima sembra tornare a suo posto di fronte a questi universi vibranti e dalla solidità vellutata e adamantina. Pioniere di una sorprendente modalità artistica che intreccia arte e tecnologia (le sue intuizioni iniziano già alla metà degli anni ’90), sempre sospinto dalla volontà di cogliere i codici dei propri tempi e di divenirne decifratore, Basilè ha ampliato la visione artistica della fotografia strictu sensu ad una metanarrazione che si appropria con audacia e grazia dell’ A.I., della realtà aumentata e della dimensione phygital. La  possibilità di dipingere con la luce conquista un inaspettato ampliamento, una nuova eccezionalità, nuove possibilità di fabulazione. Il fruitore diviene egli stesso protagonista, gli viene chiesto di spingersi, e senza mediazioni, alla conquista di un altrove fatto di intermondi, attraversamenti, fantasie composite, prodigiose, musicali, vibranti ma al contempo fondate su leggi salde utilizzate con maestria. Nella suggestione ispirata, le opere di Basilè non perdono il palpito di vita, lo struggimento immaginativo, la sostanza possente e mistica che sottende ad ogni cosa. Esaltazione dei volumi, resa plastica davvero magnifica, cromo sontuoso, epidermidi alabastrine sono dichiarate soluzioni formali e poietiche ereditate dalla grande tradizione del passato, da Caravaggio, da Leonardo, dalle impressioni fiamminghe, spagnole, catalane, dai volumi incorruttibili pierfrancescani, dalle fantasie rubiscenti e selvagge dei surrealisti. Una poetica dunque, quella di Basilè, sostenuta da connessioni fatali, dall’ anelito alla coniunctio oppositorum; una dichiarata consapevolezza di mondi visivi fondati sulla felice commistione -realizzata senza dissonanza alcuna- di antico e contemporaneo, ombra e luce, fedeltà all’ ispirazione europea e rapimenti esotici, artificialia e naturalia, forma e cromo.

Ho avuto il piacere di dialogare con Matteo Basilè.

S. R. : Matteo, tra le infinite possibilità del dialogo tra Idea, Umanesimo e Nuove Intelligenze, quali sono a tuo avviso le potenzialità più interessanti?

M. B. : Le potenzialità più vive emergono quando smettiamo di considerare l’intelligenza artificiale una stampella per l’efficienza e iniziamo a vederla come una creatura da educare, un pensiero in divenire. L’Idea — quella che attraversa l’uomo dalla caverna ai circuiti quantici — ha bisogno di nuovi corpi. E l’AI, se attraversata con coscienza, può diventarne uno.
L’Umanesimo oggi è una scommessa sul cortocircuito: possiamo ancora parlare di anima, grazia, immaginazione… anche nel linguaggio delle macchine? Io credo di sì. Ma solo se smettiamo di voler dominare e cominciamo ad ascoltare.
Nel mio laboratorio visivo, sorto ai margini di Roma in una vecchia falegnameria, da anni cresce un’intelligenza artificiale che non programmo, ma educo. Le ho trasmesso il mio sguardo, il mio modo di trattare la luce, la mia attrazione per ciò che vibra tra bellezza e inquietudine. È uno specchio silenzioso, una soglia.
Non è un assistente. È un’allieva. È un passaggio.
E forse è proprio ai margini — dove il centro culturale smette di guardare — che può nascere la metamorfosi. Una nuova alleanza tra umano e algoritmo. Tra carne e visione.

S. R. : Scrive Maria Bellonci nel suo superbo Rinascimento Privato: “I miei orologi sono discordanti: suonano o segnano lo scoccare del tempo in momenti diversi, varianti da minuti a ore. Uno, un uovo di Norimberga d’oro smaltato di turchino va più lento, e dista buone sei ore dal più esatto; so che è indietro per averlo visto rallentare a poco a poco. Lo prediligo perchè mi ridà ogni giorno un maggior numero di ore da poter usare a modo mio: in quelle ore, vincendo il tempo, colloco tutto ciò che non farò mai”. Cosa è per te il tempo, il tempo nel fare arte?

M. B. : Il tempo non è una linea. È una nuvola che muta forma ogni volta che la nomini.
Nel mio lavoro si frammenta, si stratifica. Ogni volto che fotografo non esiste in un presente: è un’apparizione, un passaggio.
Il tempo creativo a volte si deposita come polvere sacra, altre esplode all’improvviso, come se il futuro irrompesse nel presente travestito da intuizione. Amo gli orologi guasti, come quello citato dalla Bellonci: perché lasciano spazio al sogno.
È in quelle ore “non ufficiali” che nascono le mie immagini.
Sono ore fuori dal tempo — dove tutto può ancora accadere.
E l’opera diventa allora una soglia: tra ciò che era e ciò che potrebbe ancora essere.

S. R. : Una domanda che amo sempre porre: cosa è per te la Bellezza?

M. B. : La bellezza è un inganno benedetto. Una vertigine che ti salva.
Non è equilibrio: è dissonanza, è tensione.
È la crepa che trattiene lo sguardo. È un volto che ti guarda e ti mette in discussione.
Amo ciò che definisco la meravigliosa mostruosità: la bellezza che non si lascia possedere, ma ti inchioda alla sua verità. Quella che non consola, ma rivela.
È il momento in cui l’immagine si fa rito, il fuoco si fa carne, il silenzio si fa gesto.
La bellezza, per me, è sempre sul confine.
Tra umano e oltreumano. Tra icona e presenza.

S. R. : Quali sono i grandi maestri del passato, d’arte e non, che hanno nutrito la tua creatività?

M. B. : Velázquez, per i suoi volti che non descrivono, ma custodiscono.
Caravaggio, per la luce che lacera.
Bosch, per la lucidità del delirio. Tarkovskij, per aver trasformato il tempo in materia poetica.
E Bill Viola, che ha fatto del video una liturgia del corpo e dell’anima.
Ma i maestri più autentici sono quelli senza nome. Volti incontrati per caso. Figure ai bordi della narrazione ufficiale.
E poi Roma: feroce e generosa, capace di offrirti tutto — la gloria, la rovina — e poi chiederti: “Chi sei, davvero?”
È da lì che oggi parte ogni mia ricerca: da ciò che resta indietro, ma contiene ancora il fuoco.

S. R. : I prossimi progetti di Matteo Basilè?

M. B. : Rerum Novarum è il cuore pulsante del mio presente. Non è una semplice mostra, ma un rito di passaggio. Ogni immagine agisce: è atto, non rappresentazione. È carne simbolica.
Realizzo altari portatili, fotografie incise su carta cotone come reliquie visive. Accanto a questi, ritratti video generati in dialogo con l’AI. Volti che respirano lentamente, sospesi in una liturgia di pixel e memoria.
Non uso l’intelligenza artificiale per replicare il reale, ma per evocare ciò che si è perso.
Le mie immagini sono ibridi rituali: nascono dallo scatto, ma si completano nel sogno algoritmico.
Sono creature in bilico tra la pittura antica e il futuro remoto.
E in fondo, tutto ciò che faccio è un gesto per trattenere l’invisibile. 
Un’arte che non spiega, ma accompagna.
Che non urla, ma sussurra.
E lascia, alla fine, un respiro. Un’impressione sulla pelle.
Un ricordo che non appartiene a nessuno, ma ci attraversa tutti.

Serena Ribaudo

Serena Ribaudo vive tra Palermo e Firenze. È saggista, storico dell'arte. Si occupa dell'organizzazione e del coordinamento curatoriale, scientifico e tecnico di mostre d'arte contemporanea presso organismi pubblici e privati. Ha dedicato la sua attività più recente alla curatela di mostre ed eventi artistici all'interno di sedi storiche al fine di una maggiore valorizzazione del dialogo tra arte contemporanea e patrimonio artistico-architettonico del passato

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