Luce-madre PPP
(prima parte)

E quindi, a prima vista, strano che un eretico che si definisca corsaro, come PPP, sembri ripercorrere a ritroso la strada che dalla “Religione del mio tempo” porta alla luce e al tramonto dell’empirismo, della sovversione ed attribuisca un segno particolare al concetto di luce-madre. Ma, guardando più da vicino questa digressione, vi si scorgono degli aspetti del tutto nuovi. La religione del mio tempo esprime la crisi degli anni Sessanta … La parola di PPP è una parola di crisi, ma una crisi dichiarata, leggibilissima perché scritta e, soprattutto, documentata poeticamente, superando le argomentazioni sociali e storiche delle Ceneri. Da qui il concetto che l’arte poetica altro non è che la traduzione della critica che la produce. Le madri dei poeti possono avere impensabili luminescenze: essere ombre di passaggio o presenze accecanti del tempo presente, o silenziose compagne della mutazione che trepidano intorno al desiderio di luce, quando tutto intorno a noi è cambiato o sta cambiando.

I poeti moderni, si sa, arrivano sempre a giochi rinnovati. Riordinano dal punto di vista concettuale, quanto è già accaduto e coniano nuovi idiomi per ciò che in futuro terrà occupati gli storici. A volte si illudono di essere estranei al mondo che penetrano con la sensibilità, ma prima o poi il tempo sopraggiunge e assorbe il significato delle loro parole. Allora, a distanza di pochi anni, le «loro deissi» si rivelano sintomatiche di un mondo che ha cessato da tempo di esistere. Ci sono, però, alcuni rari modelli di poeti che attingono al loro tempo senza appartenervi del tutto e, nei casi più malinconici, anticipano addirittura i tempi a venire. Essi dispongono di un organo particolare, in grado di captare ciò che si sta delineando all’orizzonte, senza manifestarsi ancora apertamente; i fenomeni, insomma, per i quali i tempi non sono ancora maturi. Questi poeti, che agiscono in modo “luminescente” e non solo riflessivo, e che devono volare ad una certa altezza per dare il meglio di sé, non pensano in termini di decenni, ma di secoli e millenni. In essi, è all’opera una forza capace di sprigionare le nuove realtà concettuali della luce, di cui ospiteranno il logos.

Un poeta di questo tipo è Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Ostia, 2 novembre 1975; L’ecopolitica di Pasolini… a ridosso dei “CSC” (terza parte) – segnonline).
Nel 1961, PPP irrompe sulla scena letteraria, con una raccolta di poesie La religione del mio tempo (dedicata all’amica Elsa Morante), destinata ad entrare nella storia della letteratura mondiale, oltrepassandone e ampliandone al tempo stesso le “metafore di luminosità”. Il libro comprende poesie scritte a Roma tra il 1955 e il 1960 e si divide in tre parti. La prima comprende a sua volta tre sottosezioni: La ricchezza (1955-59), A un ragazzo ( dedicata al giovane Bernardo Bertolucci; 1956-57) e La religione del mio tempo (1957-59), che dà il titolo al volume ed è seguita da una Appendice alla «Religione»: Una luce (1959). La seconda è a sua volta tripartita, e raccoglie due lunghe serie di epigrammi, Umiliato e offeso, Epigrammi (1958) e Nuovi epigrammi (1958-59), seguite dalla poesia In morte del realismo (1960). La terza comprende le cinque Poesie incivili (aprile 1960). Coerente con il significato più vero delle Ceneri di Gramsci, questa nuova raccolta di Pasolini “condivide” una poesia che è trasposizione, traslitterazione mimetica di un meccanismo etico, originatosi nel «buio della coscienza», prima ancora che come risposta alle false ideologie dei poteri costituiti, come ambiguo e indistinto «urto biologico»: un inquietante atto d’amore per l’esistente, per la sua condizione goffa, per le sue opere umili e mortificate. Nelle riflessioni sulla luce e sulle ombre, o la minaccia del nero il poeta lancia un robusto e dichiarato attacco al Partito Comunista, imputato di intraprendere quegli stessi valori borghesi contro cui avrebbe dovuto lottare, offrendosi quindi al gioco del neocapitalismo, teso a promuovere un’aspirazione generale all’imborghesimento di massa. Al tempo stesso, Pasolini riferisce tutta l’amarezza e la rabbia generate in lui dai sentimenti delusi, sviluppando un tremendo atto d’accusa contro una generazione che ha tradito tutte le aspettative rivoluzionarie. Infatti, in un’altra riflessione dedicata alla luce ed Al Sole, dice: “Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, ma massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, e lo trasforma, a ogni schermo,/ a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s’assesta là dove il Nuovo capitale vuole”. L’impegno etico dello scrittore, anziché cadere prigioniero delle cose e degli eventi, e impaludarsi insomma in una sterile casistica, non ha mai cessato di svilupparsi secondo linee peculiari ed intrinseche, con la ripetuta e terrificante continuità, appunto, dei processi biologici. Questo espone come la probità di Pasolini, sul piano della polemica, abbia potuto mantenere intatto, attraverso duri confronti, l’originario valore concettuale e rimanga quindi pregiata, insostituibile moneta di scambio. L’autore descrive in essa i meccanismi propri di una diffusa coscienza percettiva al suo risveglio, o davanti ad una nuova speranza mancata, sottolineando che la mancanza suscita l’urgenza.

La coscienza visuale della luce è per PPP una forma della coscienza «idiolettica del desiderio di luminosità». Quest’ultima presenta molteplici sfumature e gradi di sviluppo. Nella percezione della luce, PPP parla della classica sequenza formale della nuova stagione politica. Un secondo modo di indugiare con la verità della luce consiste nell’ammettere l’esistenza del non-luminoso, ma nel dotare contemporaneamente il luminoso di una duplicità che gli permetta, secondo le esigenze del momento, di ravvivare insieme ciò che è e ciò che non è: l’illuminazione esiste veramente, ma è doppia. Possiede una plasticità tale che, pur restando l’illuminazione che è, può anche essere tutt’altro. In tal modo è così ben contaminato da ciò che non è, che può senza alcun rischio esonerarsi dell’appoggio del non-luminoso, in caso di contrasto: avendo già fagocitato ed integrato l’altro nella propria sostanza, non sa più cosa fare delle proprie prestazioni. Nel ritorno su questa illusione di una illuminazione doppia – di cui Pasolini ha tentato altrove, soprattutto in La ricchezza, di sondare i misteri e la tenacia, se non di aggiungere alle precedenti riflessioni un breve codicillo su un aspetto di questa illusione abbastanza secondario, ma non privo di ogni sostanza – intendo parlare dell’uso in/proprio della parola poetico-politica, parola-straccio.
Nel 1959, pubblica Una vita violenta (ancora scandalo e critiche). Successivamente La religione del mio tempo ottiene il premio Chianciano. Pasolini diventa profeta, ma la poesia si spegne, o si riflette nell’empirismo della cronaca sociale, unica consolazione resta la madre Susanna. Nel 1960 Garzanti pubblica i saggi di “Passione e ideologia”. Tra 1960 e ’61 fa un viaggio in India con la Morante e con Moravia. Sono gli anni in cui conosce Laura Betti, la “Giaguara”. Ma era il tempo del CINEMA. Nel 1961, realizza il suo primo film da regista e soggettista, “Accattone”. Il film viene vietato ai minori di anni diciotto e suscita non poche polemiche alla XXII mostra di Venezia. Nel 1962, dirige “Mamma Roma”, con Anna Magnani, dedicato a Roberto Longhi, suo insegnante all’Università. L’io, si legge ne La ricchezza, in apertura a La religione del mio tempo, è «testimone e partecipe di questa / bassezza e miseria» (PPP, La ricchezza, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 933.), osservatore e insieme parte del mondo osservato. Il motivo pasoliniano che, mutuando la formula dell’etnologia partecipativa, potremmo definire dell’“essere là”, nel luogo dove si sente il bisogno, è costitutivo dell’eloquenza dell’autore e della territorialità dell’arte: si pensi a quella rievocazione autobiografica disseminata ne Le ceneri di Gramsci, che lungi dall’essere prodotto di narcisismo, costituisce il tramite conoscitivo, così come accade nell’approccio
etnografico, che alterna introspezione e interrogazione dell’altro. Chiamando il lettore alla costruzione di un discorso relazionale, Pasolini lo sottrae al pericolo di un dominio inavvertito: se «il potere ha deciso che noi siamo tutti uguali», lo scandalo è quello di opporre alla «persona-consumatore» che non “si appartiene”, la persona-poeta che si riappropria del suo sé, aprendo vie di fuga ad un pensiero che proclama la sua libertà. Quelle pagine, che impronte assassine hanno vietato di essere, chiedono di proseguire la narrazione delle «sfumature emozionanti delle differenze», delle voci, degli sguardi diversi nel loro uguale bisogno d’amore. Accanto ad un Poeta che è sempre stato altrove dal torpore di «uno stato di normalità [in cui] non ci si guarda intorno, [in cui la persona] non sa domandarsi più chi è», sfidiamo l’inesauribile viaggio di un «senza fissa dimora (di un nomade)» spalancato, sensibile ad ogni allarmante manifestazione in cui l’Altro si disvela. Pasolini, archetipo del nomade (prima di tanti Deleuze e Guattari e prima di tanti epigoni transavanguardistici), in cerca di «risillabare le parole ingenue», che attivino «l’arte del fare (poiein), ci interroga in prima persona a declinare l’esercizio paziente dell’ascolto: «Donchisciotteschi e duri, aggrediamo la nuova lingua /che ancora non conosciamo, che dobbiamo tentare» (PPP, Ai redattori di «Officina», in La religione del mio tempo, Tutte le poesie, Mondadori Milano, p. 110; ci riferiamo ad un Pasolini “capace di trainarsi con la sua stessa parola”, ivi, p. 139). Per fare questo occorre uscire fuori-quadro, magari farsi aiutare dal cinema, come dice Lotman “nell’interscambiabilità” (J.M. Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia 1972, p.308) per poi ritornare in una prospettiva poetica, ridisegnando nuove mappe di saperi condivisi. Credo che l’attualità di Pasolini riguardi, nella crisi e nei momenti come il nostro, in cui tutto sembra finito e spacciato, il suo pensare diversamente, il suo errare nel segno dello spaesamento, vivendo ai fianchi: dove “patire” il suono di certe parole. Il problema del valore del linguaggio, della parola umana, così legato al valore di quel senso che si spinge oltre le “partage du sensible”, a cui si riferiscono Negri e Ranciere (Antonio Negri, Il pensiero politico di Petrolio (romanzo postumo) di Pasolini, discusso insieme a Francesca Cadel e Manuele Gragnolati, Giovedì 23 giugno 2011 ore 19:30 In italiano; https://www.ici-berlin.org/events/antonio-negri ), ha improntato di sé tutta la luce moderna del poeta e della sua funzione politica.

Il partito della parola è qualcosa di più di un programma e che va oltre l’io, in un’esperienza quotidianamente rinnovata, attesta un’esigenza di veracità. Si tratta di parlare sinceramente con se stessi e con gli altri, ma non si può parlare sinceramente se non si è sinceri. In questo modo, si definisce la necessità di mettere in drammaturgia la ricerca della luce tra sé e gli altri e tra sé e sé. Gli ordini qui sono precisi. Ci sarà prima di tutto il rifiuto di far chiacchiere e di accontentare se stesso e gli altri con parole che non impegnino con l’essere intimo. La parola sia “parola della luce piena”, indice sempre di una presenza. La facilità verbale nasconde troppo spesso le mancanze di carattere. Il poeta di luce non paga a chiacchiere, ma paga di persona.

Questa cristallizzazione della parola è pertanto a doppia apertura, implica una clausola di reciprocità. Bisogna portare la luce verso gli altri, stare attenti di non comportarsi come quelli che parlano soltanto loro e non ascoltano mai gli altri. Accogliere la luce lessicale degli altri e riaffermarla nel loro significato migliore, sforzandosi sempre di non ridurla al comun denominatore della banalità consumistica, dell’orgia mediale, ma di trovarle un valore orginale: “rappresentare situazioni, […] si potrebbe dire allo stesso titolo estraniarle”, come dice Walter Benjamin in Che cos’è il teatro di Brecht? (in Appendice all’Opera, tr. di E. Filippini, Einaudi, Torino, nona ed., 1977, p. 130). Brecht amplia la nozione di teatro epico e Benjamin, che deve all’incontro con lui le sue prime riflessioni sul lavoro scenico, nell’arco di una decina di anni, dal ’30 al ’39, dedica numerosi saggi a questa forma di teatro, che significativamente ha definito anche «teatro dell’emigrazione» (W. Benjamin, Il paese in cui non si può nominare il proletariato, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Einaudi, Torino, 1972, p. 184.). Il termine Verfremdung – da verfremden: offrire l’estraneo – è utilizzato definitivamente da Brecht nel 1935 e, generalmente, è reso con l’espressione Verfremdungs Effekt. Al termine Entfremdung, in precedenza adoperato per indicare l’esercizio critico che vuole teatralizzare, preferisce Verfremdungs Effekt per porre l’accento sull’esito, sull’obiettivo a cui si mira: l’effetto di straniamento sul pubblico. Il rapporto tra straniamento e citazione è esplicitato da Brecht in più passaggi; ad esempio, in Effetti di straniamento nell’arte scenica cinese, scritto nel 1937, osserva come l’attore cinese «rinuncia alla metamorfosi totale e si limita a “citare” il suo personaggio, così l’attore epico, che abbia rinunciato alla totale metamorfosi, recita il suo testo non come colui che improvvisa, ma come chi fa una citazione» (B. Brecht [1957], in Id., Scritti teatrali, Einaudi, Torino, 2004, p. 76).

Una chiave di accesso alla comprensione dell’estraniamento è, quindi, il concetto di richiamo e la lettura de La religione del mio tempo di PPP; ed è Benjamin a comprendere, attraverso Brecht, che la citazione sulla scena del teatro epico avviene anzitutto attraverso il gesto. Un gesto che noi ritroviamo in Bestia di Stile, in Porcile e le altre opere teatrali del poeta bolognese. In Che cos’è il teatro epico?, l’«interruzione» a teatro, considerata «uno dei procedimenti fondamentali di ogni strutturazione della forma», (W. Benjamin, [1938-1939], in Id., L’opera …, p. 131) sta alla base della citazione, e rende citabili i gesti in quanto strumento per interrompere l’azione, il naturale svolgimento della rappresentazione. Nel gesto che permette di presentare l’azione in cui si è coinvolti, l’attore crea delle distanze: dalla parola perché la cita, dal personaggio perché lo mostra, dal fatto perché lo ripete. Insieme a questo scarto, l’attore, così come il poeta, condensano, inoltre, delle contraddizioni: parlano al passato mentre il personaggio parla al presente, e colui che parla non è ʻfreddoʼ ma esprime delle emozioni, che non sono necessariamente le stesse del personaggio (B. Brecht, ‘Breve descrizione di una nuova tecnica della recitazione che produce l’effetto di straniamento’ [1940], in Id., Scritti … , Teoria e tecnica dello spettacolo …, p. 182). Del resto, aiutando l’altro a manifestare la sua voce-luce, lo si spronerà a scoprire la sua più intima esigenza straniante.

Questo è il compito del nomade, se sorpassando il monologo del partito, egli sa spingere il riflesso di luce fino al dialogo autentico, in cui si dissoda l’incancrenito. Il grande punto di riferimento è colui che diffonde intorno a sé il senso dello schiarimento del linguaggio, come ansia di probità nella presenza al mondo e a se stesso. Siamo soggetti di genere sempre in transito ed è proprio questa la condizione necessaria, che rende ogni linguaggio difficile, incessantemente scoperto alle domande dell’alterità, nel cui accostamento si viene elaborando il nostro Sé culturale, frutto dell’incontro di sguardi e ascolti. Pasolini ha espresso la necessità di rinnovarsi, ovvero di «portare al di sopra e al di là, e tornare presso di sé dopo essere stato preso dall’altro». Come un proto-nomadista: abbandonare la casa dell’appartenenza linguistica e culturale del pensiero occidentale, educarsi nella capacità di guardare e di ascoltare le piccole cose e tradurle in segni significativi. Da Casarsa, attraversando le borgate romane, fino ad incontrare il meridionalismo più sofferente, Pasolini ha combattuto contro «una forma di crudele disturbo del linguaggio, una aggressiva pigrizia» provocando uno sguardo-altro, ridestando curiosità, facendo parlare l’espressione muta delle cose, spogliando quella parola che diviene il perno per accendere un cammino di consapevolezza. Come la parola-chiave «straccio», potente metafora che avvia un quadro metonimico per indicare il “diverso” (l’operaio, il subalterno, lo zingaro…), spia lessicale che attraversa tutta l’opera pasoliniana ed è legata alle condizioni di ottenebramento e disturbo eloquente.

A proposito di “straccio”, forse è il caso di ricordare la quarta tesi di filosofia della storia di Benjamin che inizia con la citazione dall’epistolario di Hegel-Knebel: «Cercate innanzitutto cibo e vesti e il regno di Dio vi verrà dato in sovrappiù (Hegel, 1807)./ … La lotta di classe, che è sempre davanti agli occhi di uno storico che si è formato su Marx, è una lotta per le cose rozze e materiali, senza le quali non si danno cose fini e spirituali. Queste ultime, però, sono presenti nella lotta di classe altrimenti dall’idea di una preda che tocca al vincitore. In questa lotta esse sono vive come fiducia, coraggio, gaiezza, astuzia, perseveranza, e operano a ritroso nella lontananza del tempo. Esse metteranno sempre di nuovo in discussione ogni vittoria che mai sia toccata a chi è al potere. Come i fiori volgono il capo verso il sole, così, per un eliotropismo di natura misteriosa, ciò che è stato tende a rivolgersi verso “quel” sole che sta per sorgere nel cielo della storia. Di questo, che tra tutti i mutamenti è il meno appariscente, deve intendersi il materialista storico» (Nel tempo dell’adesso. Sulle 18 tesi di filosofia della storia, a cura di Gabriele Perretta, Mimesis, Milano 2002).

Una parola “marginale” diviene il “centro” di un viaggio umano e intellettuale: gesto profondamente civile perché gratuito, attraverso cui un oggetto insignificante acquista valore di un’epifania e fa sì che, in una zona di doppia luminosità, si riveli la persona investita di «una luce pura come uno sguardo/divino». Calandosi nella descrizione dell’alterità, dei tanti “volti muti” della Storia, Pasolini compie un movimento che va dal percepire al redigere e dal redigere al ravvisare – in un’attività laboratoriale mai conclusa e non egemonica, in quanto si oppone all’arroganza del Potere – di nominare le altre umanità e di assegnare loro un posto. Interrogare, indagare «il documento del passaggio del pensiero [di un’anima] che accanitamente continua a pensare» è il gesto più sedizioso possibile. In questa “scandalosa” tensione morale ,che produce un magmatico «brusio» di fondo, l’Educazione, la Poesia e la Lingua rappresentano le anti-economie politiche che oppongono la gratuità alla logica del profitto, l’eccezionalità all’adulto «in serie». Se, con Pasolini, crediamo che «essere trascurati significa aver perso deliberatamente ogni rispetto per la persona umana», bisogna sperimentare ogni strumento critico per contrastare un processo di graduale riconoscimento culturale e cogliere la lezione di ogni «umanità bandita», restituendole la parola ancora, troppe volte, negata. Una parola che parte dal desiderio della Madre, dal dialogo diretto con la propria Madre e la propria iniziale figura di donna. Il poeta di parola si afferma nel cuore della realtà umana materna, originaria, come un punto di riferimento e un punto base, come un elemento di pacata certezza. Egli corre senza dubbio il rischio della solitudine, dell’insuccesso. Non si può essere veri da soli e rischiare da soli, se tutti gli altri barano. Questa almeno la scusa facile di coloro che si sforzano di giustificare il loro mancare di parola con l’inerzia generale. Certamente, se tutti fossero sinceri sarebbe facile per ciascuno conformarsi all’uso comune. Ma il compito del poeta consiste nel prendere l’iniziativa, nel senso di affrontare il valore, e non il costume. Bisogna essere figli senza remore, senza aspettare che lo siano gli altri e proprio perché gli altri lo siano. La parola forte genera intorno a sé un ambiente radioso. L’esigenza che essa manifesta si dimostra comunicativa, trascina gli altri nel suo lessico. La parola di verità, la parola per la Madre, irradia una luce che rimanda ogni testimone a se stesso, costringendolo a giudicarsi. Un Socrate, un Messia, un compagno della resistenza, impongono ai loro interlocutori quell’accoglienza di cui loro stessi si fanno per primi interlocutori. La parola della Madre, o attraverso di essa, esercita un’efficacia intrinseca che forza l’altrui consenso, infatti l’appendice alla “Religione”, scopre le parole definitive di UNA LUCE: «”Pur sopravvivendo, in una lunga appendice/Di inesausta, inesauribile passione/-che quasi in un altro tempo ha la radice-/so che una luce, nel caos, di religione,/una luce di bene, mi redime/il troppo amore nella disperazione…/ È una povera donna, mite, fine,/che non ha quasi coraggio di essere,/e se ne sta nell’ombra, come una bambina,/coi suoi radi capelli, le sue vesti dimesse,/ormai, e quasi povere, su quei sopravvissuti/segreti che sanno, ancora, di violette;/con la sua forza, adoperata nei muti/affanni di chi teme di non essere pari/al dovere, e non si lamenta dei mai avuti/compensi: una povera donna che sa amare/soltanto, eroicamente, ed essere madre/è stato per lei tutto ciò che si può dare./La casa è piena delle sue magre/membra di bambina, della sua fatica:/anche a notte, nel sonno, asciutte lacrime/coprono ogni cosa: e una pietà così antica,/così tremenda mi stringe il cuore,/rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita./Tutto intorno ferocemente muore,/mentre non muore il bene che è in lei,/e non sa quanto il suo umile amore,/-poveri, dolci ossicini miei-/possano nel confronto quasi farmi morire/di dolore e vergogna, quanto quei/suoi gesti angustiati, quei suoi sospiri/nel silenzio della nostra cucina,/ possano farmi apparire impuro e vile…/In ogni ora, tutto è ormai, per lei, bambina,/per me, suo figlio, e da sempre, finito:/non resta che sperare che la fine/venga davvero a spegnere l’accanito/dolore di aspettarla. Saremo insieme,/presto, in quel povero prato gremito/di pietre grige, dove fresco il seme/dell’esistenza dà ogni anno erbe e fiori:/nient’altro ormai che la campagna preme/ai suoi confini di muretti, tra i voli/delle allodole, a giorno, e a notte,/il canto disperato degli usignoli./Farfalle e insetti ce n’è a frotte,/fino al tardo settembre, la stagione/in cui torniamo, lì dove le ossa/dell’ altro figlio tiene la passione/ancora vive nel gelo della pace:/vi arriva, ogni pomeriggio, depone/i suoi fiori, in ordine, mentre tutto tace/ intorno, e si sente solo il suo affanno,/ pulisce la pietra, dove, ansioso, lui giace,/poi si allontana, e nel silenzio che hanno/subito ritrovato intorno muri e solchi,/si sentono i tonfi della pompa che tremando/lei spinge con le sue poche forze,/volenterosa, decisa a fare ciò che è bene;/e torna, attraversando le aiuole folte/di nuova erbetta, con quei suoi vasi pieni/d’acqua per quei fiori.. Presto/anche noi, o dolce superstite, saremo/perduti in fondo a questo fresco/pezzo di terra; ma non sarà una quiete/la nostra, ché si mescola in essa/troppo una vita che non ha avuto meta,/Avremo un silenzio stento e povero,/un sonno doloroso, che non reca/dolcezza e pace, ma nostalgia e rImprovero,/la tristezza di chi è morto senza vita:/ se qualcosa di puro, e sempre giovane,/vi resterà, sarà il tuo mondo mite,/la tua fiducia, il tuo eroismo:/nella dolcezza del gelso e della vite/o del sambuco, in ogni alto o misero/segno di vita, in ogni primavera, sarai/tu; in ogni luogo dove un giorno risero,/e di nuovo ridono, impuri, i vivi, tu darai/la purezza, l’unico giudizio che ci avanza,/ed è tremendo, e dolce: che non c’è mai./disperazione senza un po’ di speranza”»(1959).