Lotta tra «incendiari» e «incendiati»

Si può certo dire che ogni ideologia incendiaria ha carattere autobiografico. Ma in quel fare dove dominano la provocazione e l’insidia convenzionale, l’autocelebrazione diventa evidente; perché non si può fare dell’incendio che sopra se stessi. Appare dunque necessario, per il primo artista engagé, sostituire al paradigma del “centro incendiario” i contenuti di un “centro pieno” di sapore pubblico e accattivante, in una parola seduttivo, uscendo definitivamente dalla vulgata del “lasciatemi fare” e restituendo una forte legittimità alla “romanza” naturalista del conflitto: l’artista dell’incendio si inserisce nel “fuocherello” amplificato dell’incendiato. Siamo liberi di agire solo nell’ambito degli stracci e degli incendi di cui disponiamo, perché non si sceglie se non fra l’alternativa a noi presente (guerra, miseria, morte ecologica, crisi permanente, etc …); e in questo senso quel che sappiamo, lungi dal proporsi come qualcosa di staccato dalla scelta, in realtà ne condiziona incendio e incendiato, vittima e carnefice, artista collettivo e luogotenente degli stracci.

Voce furiosa: Un grido furioso, il ringhio di una persona della classe media si leva da ogni lato di Piazza Municipio: “È ora di farla finita con la neo-avanguardia!”. A dire la verità i cittadini medi che hanno frequentato il liceo artistico negli anni ‘70 si precipitano a ripetere: “È finita la neo-avanguardia”. Ma si sa: “in un paese come il nostro”. È bruciata la “Venere degli Stracci” per istigare tutti a massacrare il colpevole del “cippo”, quel cippo di cui c’è sempre bisogno! Quegli stracci e quel cippo che si riproducono all’unisono. Che sarà senza dubbio una scultura, un’installazione migliore e idealmente esponibile. L’Italia non è una Galleria d’Arte, ma un insieme di Gallerie d’Arte e le Gallerie, come le scuderie pubbliche e private, hanno bisogno solo di due cose: il fuoco da appiccare al rituale e il rituale di successo che va sottoposto alle «regole della gogna», pardon comunicazione pubblica. Nell’ambito dei cippi di Santantonio, conosciuti anche come fuocarazzi, l’installazione neo-poverista (e la religione dell’avanguardia) è il nuovo manuale del “fuocarazzaro”. Sostituirlo non è mica difficile. Siamo o non siamo nell’era dell’AI? Ergo il Novecento accompagnato da uno strascico di retorica. Basta cominciare con l’incendio successivo e siamo a cavallo. Non resta che allinearsi, non resta che sostituire questo autore con lo spettatore, e come dicevo in art.comm (del 2002) dichiarare l’accendino dell’autore all’opera, il gesto del fruitore come esilarante figura condivisa dell’opera. E sbrigarsi a dividere la torta tra “autore come accendino”, “osservatore partecipante come gognatore”, “agorà dell’opera come dinamica sociale”: incendiato, incendiabile e inceneribile.

Il fervore dell’incendio e dell’incendiato genera due piccoli mostri, egualmente smaniosi, per incendiare l’Incendio e spegnere il popolo in vista del loro radioso avvenire: presso le tasche di Bill Gates, Elon Musk, insomma i bruciati e i bruciatori. I due si muovono, in apparenza, in osservatori artistici diversi: ma è solo fumo negli occhi perché a ben guardare con la loro fiamma finiscono per condividere le stesse istanze e le stesse forme di rappresentazione. Lo si vede bene quando si creano occasioni ritualistiche di confronto, com’è avvenuto per esempio nel maxi scoop sul canone della bruciatura di una venere già svanita in partenza: bilancio di un’arte che forse non vuole esserci più! 

Va tutto bene: quello che non va è l’azione della bruciatura, il marchio, lo stimolo al tatuaggio, la pretesa di stabilire un canone sull’opera, o se preferite tenervi al titolo, di fare un bilancio tra gli stracci, mentre ancora il Novecento tarda a morire. Chi fa incendi dovrebbe essere fuori dal manuale di storia e invece, come faceva Enrico Crispolti, a me pare che noi siamo ancora tutti dentro ai residui stracciati del ‘900 e non siamo assolutamente nelle condizioni di redigere qualche nuova strategia. Al massimo possiamo fare delle Confessioni; possiamo divenire portatori o sottrattori di un accendino. Ma è banale “scriversi la storia morta addosso”, mentre la si sta ancora vivendo, incendiando, partecipando; non nella forma dell’Insurrezione francese, ma nella panoplia del sermone perbenista italiano. Questo atteggiamento falsamente obiettivo, questo tono da super potente della verità che sistema una volta e per tutte il passato, assegnando come Domineddio della Storia dell’arte ad ogni città ciò che gli spetta in una gerarchia di mercato assolutamente adatta a Napoli, come a Berlino o a Londra, può forse piacere a politici e mafiosi, ai mandanti ed ai mandatari degli incendi fittizi, delle piromanie e a tutti coloro che, senza il gesto strategico del fuocherello e dell’infuocato, mette in subbuglio chi vede la storia dell’arte come qualcosa di vivo, mobile, incerto, complesso e mediale. Senza contare che, in una simile critica all’esposizionismo strumentale, si finisce inevitabilmente con l’escludere tutto ciò che è spontaneamente “arte pubblica”, arte collettiva e viene dalla strada e molto spesso nella strada muore. 

Impegno e disimpegno: Queste due banali parole, ereditate dalla retorica del ‘900, costituiscono i poli del pensiero artistico contemporaneo e dell’attività dell’arte attuale. L’abiguità provoca l’incertezza, il dubbio e l’equivoco su cui gioca la discriminazione dell’arte borghese. L’impegno è sinonimo di coscienza della classe colta e dei padroni della cultura liberale, di intransigenza, di verità e, dunque, della scienza politica in grado di governare le persone più disagiate. Nella storia, tuttavia, questo tentativo è stato fatto a più riprese. Scrive, realisticamente, Roland Barthes: ne Le plaisir du texte (1973): “dalla parte dei dominati non c’è niente, nessuna ideologia, se non appunto – ed è l’ultimo grado dell’alienazione – l’ideologia che sono costretti [per simbolizzare, dunque per vivere] a riprendere dalla classe che li domina”. Oggi, la lotta sociale non si può ridurre alla lotta di due ideologie “dell’incendio rivale”: in causa di riparo e di giustificazione è proprio la sovversione di ogni ideologia, il turbamento unico dei linguaggi calati dall’alto, quelli che stabiliscono le culture dell’impegno e del disimpegno, degli incendiati vittime e degli incendi totalitari, delle opere pop o delle opere dell’avanguardia poverista o mediale. Se qualche volta qualcuno provasse ad esporre la bellezza senza i simulacri e le differenze di classe, nessuno penserebbe che l’elan vital rivoluzionario sia destinato al fuoco. A ben guardare, sono i cenci dell’avanguardia ad essere andati a fuoco, gli altri sono sempre lì, nel mercato di Resina dopo che sono sbarcati da una nave del continente Pop. In quella stessa città, maestra di detti e di saggezza popolare, si usa dire che il cane del padrone “mozzeca semp’ ‘o stracciato”! Il proverbio, che letteralmente si traduce con “il cane morde sempre lo straccione”, sottolinea che spesso il destino delle classi meno agiate sembra accanirsi proprio contro coloro che già conducono una vita parecchio tormentata. In questo modo di dire, la figura del cane (per noi che amiamo i cani e soprattutto i randagi) è allegoria della sorte che si scaglia inesorabilmente contro lo straccione, colui che non ha più la forza di reagire e a cui sono destinati il disprezzo di chi manovra stracci e bellezza, veneri e loro imitazioni. Ma la cultura popolare quasi sempre, anche se diretta dalla filosofia e dall’intellighenzia populista si riscatta: vedi il cesso di Tom Vesselman, prima della bibbia del dissenso moderno che noi chiamiamo The Square (2017) e Triangle of Sadness (2022). Dal picaresco del professor Bellavista traiamo molto di più che da un suggerimento post-poverista. In effetti, Il Mistero di Bellavista (1984) di Luciano De Crescenzo, grazie ai disastri della neo-avanguardia, si è trasformato in un cult storico: – Il professor Bellavista e i due amici/allievi, Saverio lo spazzino e Salvatore il vice-sostituto portiere, vanno a Villa Pignatelli per un’esibizione d’arte contemporanea. Saverio e Salvatore fanno il loro primo incontro con i quadri di Lucio Fontana e Alberto Burri, ma soprattutto restano “feriti a morte” (proprio nella maniera in cui passionalmente lo intendeva Raffaele La Capria) da un’opera di Tom Wesselmann: l’interno di un bagno con tanto di lavello, specchiera e vaso di ceramica, ovvero cesso. Usciti dal Museo, i due dibattono a lungo su cosa si possa definire arte, finché Salvatore la spunta con una specie di parabola. Un amico muratore, racconta, una volta trovò tra le macerie di una villa a Torre del Greco un quadro di Luca Giordano, riconobbe che si trattava di un’opera eccellente, comunicò la sua scoperta e rimediò pure una mazzetta. Ebbene, pone poi questo interrogativo: un muratore dell’anno Tremila che trovasse tra le rovine i resti dell’opera di Wesselmann, che cosa penserebbe? Direbbe che è “un capolavoro, o nu cess’ scassato”? Sembra una conclusione qualunquista, vicina a chi con un mazzetto di accendini prova a diventare protagonista di un’operazione collettiva, ma badate, non lo è. Chi è che istruisce il proletario a liberarsi della rabbia di vedere in una mitica opera Pop nient’altro che un cesso? La classe agiata forse? Gli insegnamenti che si trovano nella ricerca del paradiso perfetto sono di quelli che ti dicono, alla Thic Nhat Hanh: spegni il fuoco della rabbia per riconoscere, circoscrivere e alleviare il dolore di una bellezza che può essere di tutti solo se la si accetta filtrata dagli stracci. Per soppesare questo conflitto, secondo i rampolli dell’avanguardia, “bisogna proseguire e andare avanti con bontà e far capire che proprio anche chi brucia alla fine viene bruciato”. La prima reazione, appresa la notizia, è stata di “un forte controllo dell’emozione, perché la ragione deve vincere, sempre”: ma chi controlla veramente desideri, ragione, sentimenti, idrofobia, incendi e incendiati, condanne e condannati? L’Intellighenzia, che possiede il dialogo diretto con la Venere, sostiene che grazie alla pratica della felicità e della compassione è possibile non solo vincere la rabbia, ma anche mutarla in potente alleato. Con una semplicità strategica e pubblicitaria, che concilia il corpo e lo spirito dell’arte della liberazione, Thinc Nhat Hanh ci mostra gli strumenti capaci di rinnovare il nostro atteggiamento di fruizione artistica e annullare l’influenza della rabbia in ogni ambito: lavoro, famiglia, affetti. La ricostruzione del concetto di alienazione politica e culturale, in arte, ovvero attraverso la pratica della Bellezza e del desiderio, mediato dagli stracci, ha lo scopo di mostrare solo la contraddizione: che è un rapporto con se stessi, magari non alienato solo se ci si rapporta alle pratiche sociali che determinano le nostre vite e appropriandosene non attraverso un “filtro stracciato”, che è la sua negazione astratta. Se, come il fare artistico ha argomentato, il sé emerge solo nella relazione conflittuale con gli stracci – come risultato di ri-stratificazione permanente di un processo sociale in cui ci si appropria del mondo – allora questo mondo può essere anche sempre un mondo della bellezza per molti (social media). Ma al popolo tutte le chiacchiere rimangono estranee, soprattutto se il soggetto di incendio-incendiato ha un parente nei contingenti militari italiani delle missioni estere. Su alcuni degli incendi più scottanti di oggi scarseggiano le opinioni di pensatori qualificati e indipendenti. Parlare di “incendi artistici” e di fanatismi, razze e migranti, ma anche di famiglie e “pace estetica”, di povertà e di ricchezza espressiva fa diventare i liberi autori (i liberal autori) e i liberi pensatori “autori senz’arte”, artisti senza legittimità e si subisce una sorta di ostracismo. Senza timore di diventare “nemici del popolo”, toccando estetiche considerate inviolabili, si raccoglie il controsenso ai social media, quei conflitti che sono caratterizzati dall’autenticità storica di Saverio e di Salvatore, contro la neo-avanguardia farlocca e imposta dall’alto. Da sempre nell’umanità vige una legge per la quale, nel contrasto tra comprensione e incomprensione estetica, si sceglie l’incendio. Il buon autore d’avanguardia sacrifica alla patria dell’arte borghese la sua cifra poetica, cioè sacrifica alla qualità la quantità della piazza, del site specific. Anche lo Stato, dichiarando guerra e assecondando la guerra, sacrifica la quantità popolare della piazza alla qualità della visione!

ZetaLo spettacolo funereo: l’avanguardia artistica sarà stata un episodio. Il termine episodio significa tempo intermedio: il sentimento dell’avanguardia si manifesta nel passaggio da una forma di strategia pubblicitaria all’altra, fino a che anche quest’ultima non si rivela una forma di feticcio che la piccola, la media e la grande borghesia non sono in grado di inscenare tra le regole dell’incendio. Così, alla scenetta della liberazione segue la forma della sottomissione dell’etica popolare e democratica e ciò che era passato alla testa del corteo dei diritti precipita nella testa del corteo del funerale: è questo il destino del neo-dadaismo (borghese), inscenato dai rampolli del progressismo, il cui significato letterale è “mascherare lo schiavo per difendere gli interessi della vecchia classe al potere”. Oggi, chi inscena lo spettacolino della “Venere degli stracci” non si ritiene soggetto-schiavo, ma progetta gli otto volanti della nuova libertà, le fondazioni della nuova massoneria, che delinea e reinventa se stessa in modo sempre più “stracciato”. Il conseguente passaggio dall’installazione alla realizzazione del feticcio strappato è accompagnato dal sentimento neo-dada al potere: ormai il progetto stesso di risanamento di una città si rivela non tanto una figura della dialettica, ma piuttosto una forma ancora più efficace di soggettivazione e di sottomissione dell’incendio al mondo in guerra, che già brucia. L’incendio come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi oscurantisti e costrizioni mercantili imposte dallo spettacolo della politica, si sottomette ora e sempre a obblighi istituzionali e a costrizioni politiche auto-imposte, forzandosi all’incendio volontario e all’ottimizzazione del rogo.

Viviamo una tappa storica fondamentale, in cui la stessa libertà borghese dell’incendio genera nuove detenzioni: accusa le altre classi sociali più povere di essere colpevole dell’incendio. Ma come dice un vecchio motivo popolare: «se bruciasse la città da te tornerei» cara, inutile arte, per rifarmi l’io e divenire più psicoattivo di quello che sono. La libertà neo dadaista produce persino più vincoli disciplinari, essa si risolve con gli obblighi e i divieti degli straccivendoli. La borghesia ha un limite: il potere della schiavitù, invece, non ne ha.

L’oppressione è, nei fatti, lo schiavismo della costrizione, l’essere debitori significa essere condizionati alle scelte dello spettacolo. Al momento, questa performance – che dovrebbe essere il narcisismo della sopravvivenza – genera essa stessa vincolo, obbligo e catastrofe. Funzionalità dei disturbi, funzionalità dello scenario depressivo e stato di stress cronico, come caratterizzazione neo-liberale, sono espressione di una profonda apologia dello sviluppo mediale: sono indicatori psicomediali di ciò che nell’attualità si catapulta nella schiettezza, nello slancio vitale dell’intelligenza artificiale, della nuova macchina del vedere e dell’essere visti.

L’attore presente, che si crede principe della libertà performatica, è in realtà l’esecutore del delitto: un burnout che, nella misura in cui sfrutta la sua abilità e legittimazione artistico-storica, recita il rinnovamento, il finale di partita, l’ultimo atto! Nessuno spin doctor lo fronteggia e lo obbliga a lavorare per il capitale sociale. L’attore-lavoratore detiene le due facce della medaglia: la strategia di consenso è sinonimo della strategia di attacco. A questo schiavo del sistema (Black Mirror) è estranea la legge del dominio, o meglio la libertà di esecuzione che, secondo il liberismo del vincolo di classe, non si disincarna e provoca l’esclusività del godimento. Tale sovranità dello spin doctor consiste nell’elevarsi al di sopra della forma-spettacolo e, di conseguenza, nel farsi carico persino dello scandalo. Questo parossismo della giustizia, questa forma d’arte gestita come forma popolare di morte e di masturbazione collettiva, è apparentemente estranea alla biografia dello schiavo. Al contrario di quanto afferma il sindaco della città, il lavoro di consulenza non lo rende libero: egli resta, comunque, effetto artificiale del favoritismo progressista. Lo schiavo-curatore obbliga anche il padre che l’ha promosso a lavorare per il capitale: la dialettica spin doctor sindaco della città, si trasforma nel rapporto tra capò e manovalanza, tra regista collettivo e atto cinematografico presenzialista. Come spin doctor di sé stesso, il soggetto artistico neo liberale è incapace di spiegare la sua utopia relazionale. Tra piccoli e grandi occultatori della vista, non si stabilisce alcun vincolo disinteressato: eppure, essere incendiari significa essere tra i poveristi il più astuto. Ci si sente davvero liberi soltanto in un’anonima incendiaria, in una felice simulazione della rivoluzione. La caratterizzazione totale a cui conduce lo spettacolo dell’infervorato e della sua città non rende davvero sospetti: così, si pone oggi il dilemma se – per sfuggire alla fatale neronizzazione delle città, che porta a rovesciarsi in artisticizzazione – l’arte non vada re-incendiata o ritualizzata nell’incendio.

La polis dell’autentico artistico è un sistema molto efficace, perspicace perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nel governo delle nuove miserie, il trend è assai sostenuto. Soltanto lo sfruttamento del cinismo governativo, dello spin doctor nepotista raggiunge il massimo risultato.

Oggi si parla molto di opera pubblica e, come ogni processo espositivo del neoliberismo, essa si presenta sotto una veste di “progressione” dell’incendio. Essere nepotisti dell’artivismo significa essere consulenti sindacali del Re e replicanti dello spin doctor. Essere artisti significa, quindi, nient’altro che realizzare 32 film da attori protagonisti per teorizzare la “regia anonima”. Qui rappresentazione è sinonimo di comunità artistica di tendenza, di apparato creativo che vede lontano e vede per tutti. Da qui viene l’obbligo di somigliare “all’apprendista osservatore”, di definirsi solo attraverso la propria alterità, di essere anzi gli accalorati del proprio incendio, gli avvistatori del proprio sguardo, i nepotisti del proprio nepotismo, gli incendiati del proprio credo, i fedeli del proprio spettacolare cinismo artistico. Attraverso la “cinesi cinica” (da social media) si realizza la rivelazione del pessimismo permanente. Lo sforzo di essere astratti, di somigliare a tutto e a niente, provoca un continuo rimando al nuovo ardore. Così, il mercato della disoccupazione artistica procrea ininterrottamente feticci viventi. La libertà del rivoluzionario, che assume oggi una forma eccessiva di funzionalizzazione artistica, è infine nient’altro che l’eccesso dell’incendio stesso. Secondo lo storico dell’arte consulente del sindaco, a un determinato stadio del suo sviluppo, le forze archiviste entrano in contraddizione con i rapporti di esposizione dominanti. La contraddizione sorge perché le forze espositive si consumano incessantemente: l’incendio, così, crea nuove forze di esposizione. L’esposizionismo crea nuove forze di esibizione, che entrano in contraddizione con i rapporti di controllo e di deviazione. Questa conflittualità porta ad una crisi espositiva, che spinge a un rinnovamento del “feticcio artistico”: essa è risolta attraverso le resistenze e le proposte rivoluzionarie, che portano a un ordine sociale post-democratico, l’ordine dell’incendio permanente e monumentale. Al contrario di quanto sostiene l’artivista sfigato, che è destinato a riempire lo spazio dei  wall drawing di provincia e di periferia, la contraddizione tra le forze espositive di governo e i rapporti di mostrificazione periferici non possono essere superati per mezzo di una rivoluzione liberal-democratica: l’immagine di essa è infatti invalicabile, essa è una amletica risorsa dello stato di riduzione al quoziente espositivo.

Proprio a causa di questa conflittualità interiore che da sempre la connota, l’attività attivistica si è fatta immagine del discreto: invece di rovesciarsi in arte classica e reazionaria, cioè, invece di recitare la sceneggiata dello scetticismo sistemico, si è trasformata in spin doctor e in “se stessa alla seconda, alla terza, alla logica da quarta dimensione estetica”. Oggi l’arte non lavora per i bisogni dell’ecologia (per la vendita del bisogno buonista alla zerocalcare) o per trasformare l’anonimo cittadino in protagonista dello spettacolo da criticare, ma per il capitale incendiario da consumare e sostenere, quello che si deve trasformare in rinnovato feticcio artivistico. L’anonimo writer è nuovamente espulso dal piano delle risorse democratiche, nel quale destra, sinistra e centro governano la dinamica del consenso, in sostanza un ciclo espositivo ideologico e post ideologico, nel quale l’arte e il plusvalore artistico, invece di sottomettersi a uno scopo di dissenso, si riferisce a se stessa. A caratterizzare l’arte post-moderna è l’emancipazione dell’ordine espositivo, ovvero le premesse fondate sulla resistenza espositiva: la dialettica del sacro è nobile offertorio visuale, mettere in mostra la mostra, raggiungere lo stadio maturo dell’esperienza mediale arroccandosi sull’apologia del medium! Così, la politica dell’arte si trova di nuovo nel regime di riesposizione inventato dalle fondazioni private: ricostituire a partire dalla simulazione dell’incendio, dall’imitazione del corso di studi delle pratiche curatoriali che potrebbe chiamarsi “Bel Paese, promoting italian Art around the world, reaching for the star”.

Il nuovo underground: L’universo dei poteri artistici attuali è un universo sotterraneo. È un mondo che ha capovolto avanguardia e retroguardia, rivoluzionari e conservatori, gioco forza e gioco debole. Un territorio asfittico, livido, ambiguo, in cui al posto degli incendiari vi sono i pompieri e al posto di questi ultimi ci sono tutti quelli che capiscono, ci sanno fare e sanno sorreggere le ombre del potere. Una città immobilizzata da una politica culturale di volontarismo borghese che nasconde il terrore per la verità comunitaria. Il mondo del dialogo repentinamente risorto, remoto e angoscioso, solenne e inquietante come un dolmen isolato tra i feticci dell’innovazione. È il cielo di un fotoreporter che ha distrutto con le sue mani il suo obiettivo e proietta su un terreno melmoso la luce lugubre dei suoi finti distintivi, trasformando i fili di un otto-paradisiaco in schegge di residui installativi, reliquie di un tempo preistorico come i frammenti sparsi in un Museo sotto la cenere, una grotta inesplorata, paurosa, decorata da graffiti di cui è scomparso per sempre il senso. Sono gli oggetti, ready-made di un’epoca antidiluviana, un mondo di “macchine che non vedono”, installazioni cieche su cui tutti inciampano, senza che dai residui catramosi possa nascere mai nessuna razza artistica. Il mondo dei post-prodotti è un mondo in cui il gioco è puro meccanismo: un meccano che assicura una felicità da ingegneri a un mondo di cenciaioli, di feticci senza vita e senza bellezza, appena rischiarati da un funereo riverbero delle sue origini che ricorda a malapena il fulgore di una passerella con cui l’arte viene alla luce. Lo sguardo della Morte è l’occhio della Gorgone che ci inchioda all’incendio, apparendo all’improvviso nello specchio scuro della nostra esistenza vuota. Questo sguardo còlto negli specchi, quest’immagine di un lungo incendio, senza sorriso, come un dagherrotipo di una famiglia di straccivendoli stretti dalla disperazione, è tutto quello che riusciamo ad ammirare se accostiamo l’obiettivo, il “misterioso Altro” che attraversa il nostro cielo. Non un piromane, un artista, un installatore, un maestro di dolci inganni e di saggia provocazione: non artisti diversi l’uno dall’altro, casi unici irripetibili. No: l’incendio è solo il prevedibile feticcio che possiamo incasellare nei canoni della storia dell’arte scritta da Crispolti. La filosofia del canone, il prezzo da pagare se vogliamo continuare a scattare fotografie è la filosofia dei lettori di rotocalchi nelle sale d’attesa degli ottici, mentre provano le lenti da incendiario. Con gli occhi dilatati, gonfi e stralunati, mentre provano la violenta elasticità di queste dinamiti mediali, leggono le notizie del mondo. Non importa se il mondo urla di dolore. La sua eco è antica, attutita, come i rumori di una sala operatoria per chi ha appena subito un’anestesia e in un attimo passa dalla comprensione alla sciocchezza. 

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