Kamran Afshar Naderi

Danzando sul vuoto. Kamran Afshar Naderi

In questo dialogo con Kamran Afshar Naderi, architetto, scultore e designer iraniano di fama mondiale innamorato dell’Italia, in cui ha studiato, parliamo di arte contemporanea tra Iran e Italia, in particolare della sua, dagli anni Settanta ai nostri giorni.

Anticamente scultura e architettura, almeno in Occidente, erano un’unica arte. Vale anche per te?

A 18 anni frequentavo una scuola d’arte, diretta da un carismatico professore di nome Ebrahim Jafari. I sui insegnamenti erano una vera performance artistica. Durante le lezioni usava contemporaneamente ogni mezzo per spiegare quella che riteneva fosse l’essenza dell’arte: proiezione di diapositive, canto, disegno sulla lavagna, recitazione dei frammenti di opere teatrali, lettura delle sue poesie, suonare il setar (strumento tradizionale a corde) ecc. Sono cresciuto con l’idea che la creatività fosse un processo unico per tutte le arti e che le differenze fossero per le necessità funzionali e i medium utilizzati. 

Io credo nell’unione fisica e concettuale di architettura e scultura, anche se il mio legame con la storia del mio paese, mi porta a intendere architettura e scultura in modo diverso dalla tradizione classica. Nell’architettura iraniana prevale il concetto del vuoto ed i volumi pieni e le forme scultoree sono ridotte al minimo o addirittura rese invisibili. Spesso gli edifici, e persino i grandi complessi come il bazar, non hanno una forma esterna, bensì un interno riccamente lavorato e all’interno non ci sono né sculture né elementi architettonici che richiamino la forma di una scultura. Nella mia opera “Rose Garden”, questo concetto mi ha portato a esplorare la geometria interna delle rose, piuttosto che la forma esterna. Le mie sculture sono spesso superfici in rilievo secondo una regola geometrica. Questa è un’altra eredità dell’arte persiana. L’affinità delle mie sculture con l’architettura nasce dal fatto che esse sono spesso dedicate a luoghi precisi. Non riesco a concepire un’idea nuova senza saperne la destinazione. Questo vale anche quando partecipo ad una mostra collettiva. Nei primi mesi del 2019, ho ricevuto l’invito per partecipare ad una mostra collettiva nel prestigioso centro culturale Niavaran, costruito negli anni ‘70 dall’architetto Kamran Diba, cugino di Farah Diba. Sono stato il primo a presentarmi sul luogo e ho scelto il luogo migliore. Le mie sculture sono grandi e perciò non posso tenere niente di pronto a priori. Dovevo creare qualcosa per quel luogo. Vedendo il posto, prima di tutto ho stabilito con precisione le dimensioni dell’oggetto che andavo a realizzare. Le altre idee sono venute successivamente.

Hai studiato, dopo Teheran, anche in Italia. Come è cambiato, nel corso degli anni, il panorama artistico dei due paesi?

Durante la seconda metà degli anni ‘70, prima di venire in Italia, avevo frequentato una scuola di arte e la facoltà di belle arti dell’Università di Teheran. La facoltà era basata sul modello di istruzione dell’École Des Beaux-Arts di Parigi. Allora si sentivano già i fermenti che hanno portato alla rivoluzione del 1979. Gli studenti criticavano tutti i paradigmi delle società occidentali. C’era un clima piuttosto confuso. Si pronunciavano gli ideali, politically correct, mischiati con una buona dose di retorica rivoluzionaria: il rifiuto dell’alienazione causata dall’importazione degli usi e costumi occidentali; la ricerca delle proprie radici e identità culturale; l’arte al servizio della società ecc. Ma i tentavi degli artisti Iraniani ad esprimere questi concetti attraverso l’arte erano vani. Ricordo i murales di Hannibal Alkhas, pittore iraniano cristiano, fortemente influenzato dal Realismo Socialista sovietico. Le sue opere pro-rivoluzionarie rappresentavano il meglio della pittura di allora. La Scultura, per la sua affinità all’idolatria, veniva considerata contraria ai dettami della religione islamica e perciò, dal 1980 fino al 1993, anno del mio ritorno dall’Italia, l’ateneo di scultura era stato cancellato dai programmi universitari. La prima mostra dopo la rivoluzione, la Triennale della scultura, iniziò la sua attività nel 1995. 

Ero venuto in Italia nel 1980. Allora in Italia si parlava del postmodernismo e anche del Genius Loci. L’orizzonte del futuro si confondeva con la visione del passato e lo spirito del luogo trovava il suo spazio accanto a quello del tempo. I critici sfogliavano le pagine del passato per tirare fuori le opere degli artisti banditi come Mario Sironi, che verso la metà degli anni ’80, ebbe la sua prima mostra del dopoguerra. Cosi anche l’architettura del Novecento, che prima veniva considerata irrilevante o addirittura disgustosa, veniva rivisitata con benevolenza e contemporaneamente De Chirico, con le sue raffigurazioni architettoniche che ricordavano un po’ l’architettura storicistica del periodo fascista, veniva visto sotto una nuova luce. 

Erano anche gli anni in cui Achille Bonito Oliva, che ebbe una grande influenza sul mio modo di intendere la critica, pubblicava i suoi libri sulla transavanguardia internazionale. Penso che una parte del mio modo di scrivere, di fare architettura e scultura risentano dell’influenza di quegli anni.

La tua scultura geometrica, specchiante, mi ricorda il lavoro di Monir Shahroudy Farmanfarmaian. Ti ritrovi nel confronto? Chi sono i tuoi modelli tra gli artisti contemporanei, iraniani e non?

È un confronto allettante. Sicuramente esistono delle affinità, in quanto tutti e due ci siamo ispirati alle stesse fonti. I due punti in comune sono giustamente quelli che hai menzionato.

Monir, concettualmente e tecnicamente è più attaccata alle tradizioni. A differenza di lei, io non ho mai utilizzato gli specchi, ma acciaio inox in combinazione con altri materiali come legno, cemento, ceramiche ecc.

Per essere sincero, essendo di formazione architetto, ho vissuto sempre ai margini del mondo dell’arte e perciò non ho modelli che possano avere impatto sulla mia vita professionale; ci sono piuttosto dei grandi artisti che ammiro nel loro genere, molto diverso dal mio: Sahand Hesamiyan Mehdi Shirahmadi, Mohsen Vaziri Moghadam, Mohammadreza Yazdi, Anish Kapoor, Louise Joséphine Bourgeois e Richard Serra.

Black Panter e Jup del set Guarians- fotografia Studio Nimkat
×