Roberta Iazzetta

L’io educante di Rosaria Iazzetta

La creatività come antidoto è il nuovo libro di Rosaria Iazzeta pubblicato da Mind edizioni (Milano, 2021) nella collana Le vie del successo diretta da Roberto Cerè

«Sempre “sotto il sole”, il testo non pretende mai di dare una lezione metafisica», osserva il sociologo e teologo francese Jacques Ellul a proposito della grande lezione di vita che si può trarre dal celebre libro veterotestamentario di Qoelet. Per quest’ultimo l’andamento anaforico non è certo un curioso vezzo, bensì un modo per evidenziare che le sue parole sono il portato di una esperienza, ed essa avviene appunto sotto il sole che sovrasta la Terra e la durezza dei suoi quotidiani lavori, prima ancora che nel chiuso della propria camera. Allo stesso modo va inteso il costante rimando di Rosaria Iazzetta alle vicende tratte dal suo vissuto in questo volumetto, La creatività come antidoto (Mind edizioni, Milano, 2021), in verità difficile da incasellare in un genere. Non certo un’autobiografia, ma neanche un manuale sulla pratica artistico-creativa tout court, come si potrebbe pensare considerando il suo essere Coordinatrice della Scuola di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli – prima donna, peraltro, ad insegnare in quell’istituto tale disciplina – tradizionalmente, più di ogni altra disciplina artistica, appannaggio degli uomini.  

Da tempo non è più pensabile – se mai lo è stato – intendere l’insegnamento di livello universitario di discipline come la pittura e la scultura – per non parlare di quelle legate ai nuovi media – come una serie di regole formali da impartire. Ecco perché la Iazzetta, interrogandosi sulle caratteristiche e sulla utilità stessa di un manuale per l’insegnamento della Scultura nelle Accademie di Belle Arti oggi, non può fare a meno di intenderlo non solo come un manuale sulla creatività in generale, ma anche come un manuale in cui lo specifico scultoreo non è tangibile se non in quanto qualcosa di prossimo al discorso beuysiano sulla scultura sociale, che però nell’artista campana subisce uno slittamento d’accento verso la dimensione individuale. Se infatti per lei, come per l’artista-sciamano, la scultura trascende il piano letterale per estendersi a quello metaforico, nel secondo il “plasmare l’anima” è inteso come un primo passo in vista della rivoluzione della società – «la rivoluzione siamo noi». Nella Iazzetta – fresca, tra l’altro, di diploma al [MICAP Master internazionale in coaching ad alte prestazioni] – tale orizzonte ultimo non pare invece troppo esplicitamente rimarcato, ma trova continuo riscontro la credenza nella potenzialità creativa insita in ciascuno: «Per questo ho proposto molti esercizi, semplici e pratici, ma che aiutano a coltivare e ad aprire le porte della creatività. So bene che non tutti sono creativi, ma so altrettanto bene che, anche se sopita, la creatività è in ognuno di noi, e attraverso questo lavoro ho provato a farla “vedere” in modo che ognuno riesca ad accedervi consapevolmente e ne possa trarre ciò che serve ai suoi scopi, che sono diversi dai miei e da quelli di chiunque altro». 

La scultura che agisce nella metafora dell’autrice è pertanto una scultura più per via di levare che per via di aggiungere, e in quanto tale michelangiolesca, ma anche immediatamente connessa al paradigma socratico della levatrice, giacché ella non intende fornire indicazioni sul cosa creare, ma solo ed esclusivamente sul come creare, in particolare circa la necessità di sciogliere tutti i nodi – paure «determinate da fattori esterni, ambientali o culturali» o da «nostre costruzioni psichiche» – che sovente tengono imbrigliata una vena creativa già potenzialmente esistente. Tale liberazione è avvertita come assai urgente sia in seguito a reiterati incontri di un certo tipo – «Sono coloro che si appagano di vissuti che hanno valore circoscritto, di solito sono esperienze che possono anche essere gratificanti, ma sono costituite da eventi di breve durata, da sprazzi raggiunti magari in giovane età. Spesso raccontano qualche episodio vincente di questo tipo come l’unico picco esperienziale degno di memoria. E altrettanto spesso, dietro a questi racconti di episodi e di guizzi fugaci su cui hanno focalizzato la propria vita, traspare il rimpianto di non avere deciso di insistere» -, sia in considerazione dei suoi personali travagli, cominciati fin dalla tenera età – «Mi chiamo Rosaria perché, quando sono stata concepita, mia madre per nove mesi ha pregato la Madonna di Pompei, al Santuario della Beata Vergine Maria del Santo Rosario. Dopo aver dato alla luce due figli maschi desiderava tanto una bambina, che avrebbe potuto abbigliare modellando vestitini femminili forgiati appositamente per lei grazie alla sua abilità di sarta. Nella sua testa avrei dovuto essere una persona un po’ più “normale”. […]  Ripensando al mio passato, mi sono accorta che in realtà alcuni miei pensieri erano delle convinzioni di mio padre, uomo straordinariamente generoso e intelligente, ma con un’idea del mondo come qualcosa di ostile e nemico. Nella sua visione, le opportunità sono sempre per pochi, magari per i raccomandati o per chi è disposto a omologarsi e in fondo a rinunciare a vincere. Nella sua diffidenza, gli altri sono un potenziale pericolo, da cui è sempre bene guardarsi. L’essere creativi, poi, è qualcosa di incerto, talvolta un capriccio, e comunque una aspirazione rischiosa che sfugge al nostro controllo e che non è funzionale alla vita reale, fatta di altre cose più solide e concrete».

La trattazione si snoda così tra racconti di piccoli episodi tratti dalla propria biografia, ma che non valgono solo e tanto in sé, bensì come esemplificativi dell’assunto per cui realizzare certi desideri, abbattere certi ostacoli, cavarsela in situazioni apparentemente proibitive è qualcosa di possibile. Molti di essi provengono dal suo viaggio-performance «in moto in solitaria da Napoli sino al Giappone che è durato 118 giorni, e in cui ho attraversato 13 Paesi e percorso 14.706 chilometri», facendo «tappa in 48 città lontane per intervistare 58 donne che operano in diversi ambiti culturali, con lo scopo di comprendere se nell’autodeterminazione femminile siano rintracciabili delle differenze territoriali». Esso – intrapreso il 27 giugno del 2018 e costituendo quindi un ricordo ancora molto fresco – non è in verità che il culmine di un percorso cominciato fin dalla prima età adulta, ispirato da una irrefrenabile volontà di viaggiare verso mete lontane nello spazio, o comunque con connotazioni assai “altre” rispetto al proprio luogo d’origine, e spesso evitando i mezzi di trasporto più improntanti al comfort – per amore dell’avventura prima ancora che per ristrettezze economiche -: dal Giappone, dove in particolare ha vissuto diversi anni, divenendo «la prima italiana ad aver conseguito un master di specializzazione in Scultura alla Tokyo University of the Arts», all’Australia, senza dimenticare il viaggio in moto che l’ha portata ad attraversare la Grecia nell’estate del 2015, quando il paese è sotto i riflettori della stampa internazionale a causa della grave crisi economica e sociale – dalla quale peraltro tutt’oggi non è certo uscito.

L’autrice non tralascia di adoperare tuttavia anche esempi di grandi artisti del passato e di personalità che hanno compiuto importanti imprese più in generale: «Yayoi Kusama è un’artista giapponese diventata la più famosa donna della pop art americana, eppure da bambina ha subito una forte pressione psicologica da parte di suo padre. Che la osteggiava nelle sue aspirazioni. Joan Miró fu ostacolato a lungo dal condizionamento familiare e solo in seguito a un fortissimo esaurimento nervoso ottenne il consenso dai genitori di frequentare l’Università d’Arte che lo avrebbe condotto a diventare un gigante dell’arte spagnola. E anche il pittore russo Chaïm Soutine veniva umiliato dal padre ogni volta che tentava di dipingere un ritratto, ma alla fine divenne l’artista degli artisti che ispirò geni come Francis Bacon o Jackson Pollock»; «I vicini di casa dei fratelli Wright, davanti ai tentativi di far decollare il primo prototipo di un velivolo a motore in grado di volare con un uomo a bordo, li compativano e li giudicavano matti»; «Un genio come Einstein ha sempre ripetuto che le sue teorie così innovative, come quella della relatività, sono state possibili perché non conosceva tutto ciò che era stato prodotto sul tema che indagava, in fondo era solo un impiegato dell’ufficio brevetti di Berna. […] Tadao Andō è un architetto giapponese di fama mondiale, ma prima di costruire i suoi musei basati su programmi innovativi era stato un puglie. E ciò dimostra che anche chi non possiede titoli di studio appropriati può raggiungere risultati eclatanti».

Vi sono inoltre punti in cui il focus si sposta sulla illustrazione di tecniche ad hoc per «iniziare a liberare l’intuizione creativa» – «Provate a osservare degli oggetti che avete intorno e immaginate di trovare loro una diversa funzione estetica o un nuovo utilizzo possibile. Osservateli nella posizione che hanno, e se non riuscite a inventare nulla per cambiare il loro senso, provate a capovolgerli, a immaginarli sospesi, a figurarveli per terra. Oppure provate a combinarli tra loro, o con altri elementi e altri oggetti, o a scomporli nelle loro parti per poi ricomporli in modo diverso» – o per visualizzare, ovvero «vivere un’esperienza senza averla ancora vissuta» – «Chiudete gli occhi e visualizzate un oggetto davanti a voi a grandezza reale. Adesso immaginate di girargli intorno e osservate quelli che prima erano gli scorci laterali che passano in primo piano, e poi immaginate di vederlo dietro, sotto, sopra. […] Quando sentite di controllare questa immagine mentale in modo fluente, immaginate di rimpicciolire l’oggetto sempre di più; se per esempio è un tavolo, riducetelo a una dimensione per cui potreste infilarlo in un taschino. […] Questo esercizio può essere particolarmente utile se l’oggetto immaginato corrisponde, per esempio, a un ostacolo che vi sembra insormontabile. […] Un esercizio opposto è quello di giocare sull’ingrandimento È un buon esercizio per accorgersi di ciò che in un primo momento trascuravate e per cogliere particolari cui prima non davate peso. […] La terza tecnica si basa sulla moltiplicazione. Sdoppiate l’oggetto che avete immaginato, ma può anche essere una persona, potete anche essere voi stessi. Adesso fatene 3 copie, poi 4 e così via all’infinito, come in un caleidoscopio. […] Quando avete imparato a controllare le prime tre pratiche siete pronti per la quarta, che consiste nel mescolare in una sola visione le prime tre».

Ciò che tra l’altro colpisce nel discorso della Iazzetta è questo equilibrio sempre sottile – e talvolta a rischio – tra forza della personalità ed apertura verso l’altro. Non c’è dubbio che l’amore costituisca il motore che alimenta l’intera operazione, e senza di esso neanche avrebbe avuto fiato di arrivare a stendere un rigo, ma l’amore – lo insegna Erich Fromm nel suo celeberrimo L’arte di amare (1956) – è legittimamente amore per se stessi prima ancora che amore per gli altri, giacché non si può amare se non ci si ama. Veniamo da decenni in cui non solo il concetto di autore, ma anche quello di personalità coerente ed unitaria è stato abbondantemente posto in critica, da fiumi e fiumi di inchiostro che si sono incaricati di mettere in profonda crisi la possibilità di pensare in termini di soggettività. Tutta l’attività di Rosaria Iazzetta – non solo questo libro e che lei ne sia consapevole o no non ha importanza – appare come una strenua negazione di ogni ipotesi di personalismo ed autorialità deboli. Resta da comprendere quali sono i parametri per ratificare senza tentennamenti l’autenticità di un io, per rimuovere ogni dubbio che si stia davvero parlando e non si sia piuttosto – benché naturalmente in maniera inconsapevole – parlati. Come dirsi, in altre parole, certi di trovarsi realmente di fronte ad una personalità volitiva e non di fronte alla sua ombra in un modo fatto di ombre di ogni tipo ma pur sempre ombre?