Federico Bonelli

Trasfomatorio, intervista al fondatore Federico Bonelli

A metà tra un progetto artistico e una ricerca antropologica, tra una poetica geografica e un collettivo itinerante, Trasformatorio dal 2013 rompe le leggi del “fare arte”. L’edizione di quest’anno, svolta a Cosio di Arroscia (Liguria), è avvenuta senza la presenza degli artisti, i quali raggiungeranno la comunità cosiese nel prossimo ottobre. Abbiamo dialogato col suo fondatore, l’artista e filosofo Federico Bonelli, interrogandoci soprattutto sulla dinamicità che caratterizza questo workshop site specific.

Partiamo dal nome: cos’è “Trasfomatorio”?
Intorno al 2000 passeggiando per Amsterdam in due vedemmo una scritta “Trasformator” e fu un illuminazione: “Trasformatorio!”. Un laboratorio d’arte multimediale incentrato sull’idea di flussi di trasformazione, a volte caotici. Quello che indaghiamo (collettivamente) con trasformatorio sono le modalita’ con cui creare “trasformatori”, intesi come “opere” che applicano e rappresentano un principio di trasformazione trovato immergendosi nei processi e lavorando all’interno di una situazione. A me interessano azioni e simboli “vuoti” come li chiama Eugenio Barba. Questo, per me come artista e non come direttore artistico sono i capisaldi del poco che credo di aver “capito” di ciò che cerco nell’arte.  
L’opera secondo me, va intesa come trasformatore. La rivelazione dei situazionisti, che avevo appreso da Luther Blissett, è che non si puo’ prescindere dalla situazione in cui si immagina l’opera. Io sono rimasto fedele a questa intuizione, sia che abbia fatto teatro, multimedia, cinema, lo ho sempre disegnato disegnando nella situazione di “fruizione” e lavorando sui flussi di energia.
Dopo anni di lavori fatti elaborando a partire da quell’intuizione ho pensato di dedicarci un laboratorio. Non avevamo né soldi né il tempo di cercarli, perché nel 2012 si percepiva una urgenza particolare, e così ci siamo buttati, offrendo attività aperta in cambio di spazi temporanei a borghi e comunità. 

Qual è l’origine del nome? 
Trasformatorio è un neologismo creato da Laboratorio più Trasformazioni.
Trasformare in arte è un concetto alchemico, necessita la materia, che nel nostro caso è la realtà che ci circonda, mortale, che si disfa e fermenta continuamente, dissolve e coagula. Affrontata, come hanno ben insegnato le avanguardie come situazione, la realtà è popolata di segni e significati. Siano incorporei o corporei, umani, ideali o non umani, è di una ricchezza estrema. La situazione per chi partecipa a Trasformatorio è un fenomeno in cui immergersi, da cui trarre energia e in cui rispecchiarsi grazie agli effetti della propria intuizione, intesi come possibilità di espressione, a cui il partecipante presta le sue abilità come colori. Ricercare in un laboratorio e farlo insieme come comunità è per noi fondamentale, è ciò che porto con me dalle esperienze degli anni ’90. Quest’anno a Cosio D’Arroscia lo abbiamo fatto anche “in absentia”, senza esserci con il corpo. Esserci senza essere lì. 

In Trasformatorio muta anche la concezione dell’opera d’arte?
L’opera, secondo me, va intesa come trasformatore. Un enzima che opera sui luoghi provocando l’apparire di storie e comportamenti che possano illuminare e riflettersi. La rivelazione dei situazionisti, che avevo appreso da Luther Blissett, è che non si può prescindere dalla situazione in cui si immagina e esegue l’operazione. Vedo in Trasformatorio una ricerca di situazioni di “fruizione” e di lavorarci dentro operando flussi di energia. Non necessariemnte endocronici e performativi, ma anche sociali e appartenenti a narrative più vaste e proprie delle tradizioni del territorio. Tradizioni che trasformate da un occhio d’artista tornano nel territorio provocando riconoscimento e sorpresa.

Di certo conoscerai la staticità del Sistema dell’arte. Schematico, elitario e polveroso, con la pandemia ha conosciuto una nuova decadenza che cerca in ogni occasione di dissimulare. Come il Sistema ha accolto (se l’ha accolta, o se ne hai avuto percezione) la vostra idea?
Quando abbiamo appreso che esistono “signori dei dischi” che “ci scelgono” per portarci nell’“empireo dei sogni” e che questo è lo scopo dell’artista? Perché dobbiamo arrenderci a questa interiorizzata storia-piramide in cui l’arte non è cultura viva, ma un progetto che deve o non deve avere un ritorno di successo? Assomiglia per me a qualcosa di assurdamente sbagliato come se un cane crede che la casa sia giustificata dalla sua catena. Il secolo ventunesimo ci insegnerà, se vuoi anche con la pandemia, a liberarci di ogni monolitico “sistema” o “modo di vedere” o “linguaggio elitario”.
Immagina questo: opera contemporanea aperta e multimediale, costruita sui territori, portata li dove è stata scritta e perfettamente intesa dalla popolazione che si fa pubblico per gustarsela. E non succede solo con noi. Penso a un sacco di esempi, sia visti in Europa che in Sicilia.
Una è uscita dal Trasformatorio, nel 2018. Scritta in collaborazione, musicata dal Compositore olandese Hans Visser, ha preso vita a Giampilieri, partendo da suoni e storie trovate li. Il primo disegno messo in scena chitarra e voce su una piazza gremita e incantata che ha mantenuto un silenzio assoluto. E ne abbiamo parecchi di esempi del genere che mi consentono un certo ottimismo.
Credo che su questo modo di vedere la cultura, fuori dai “bastimenti stabili” della professorale accidia italica bisogna investire. Non spero nei denari pubblici, ma negli aquisti dei biglietti e del lavoro dei mille nuovi artisti da parte del pubblico!

Perché l’esigenza di entrare nei territori e rendere più applicato il concetto di arte?
I territori soffrono. Soffre chi ci vive, chi è costretto a lasciarli dall’economia, soffre l’ ambiente che frana, che brucia. Luoghi il cui patrimonio culturale viene a volte violato e frainteso da turisti distratti e ignavi. I territori sono ricchi, soffrono del fatto che questa ricchezza, espressa dalla cultura dominante non sia riconosciuta come valore se non nell’aspetto grettamente monetario. L’arte che nasce nei e con questi posti è riconosciuta più immediatamente come un valore da chi ci vive. E nel riconoscere questo valore il territorio si vede gia’ trasformato. E si riconosce vivo.

Credi che l’arte contemporanea, seguendo il suo itinerario, possa dissolversi? In onestà ti anticipo la mia risposa: secondo me no; farà di tutto per rimanere nell’agonia in cui si trova; in fondo il Sistema dell’arte è di chi non ha gran gusto o desiderio di ricerca…
Non credo né nel valore né nella nozione di “arte contemporanea” che è propagata dal presente. È una verticale che rappresenta un mondo incapace di vedere altro che l’apocalisse oltre la morte del capitalismo (per citare Žižek) e di farsela pagare a peso d’oro senza lasciare che nessuno possa valutare né l’onestà del gioielliere né la purezza dell’oro usato. È un valore fatto a tavolino, per scopi altrove (finanziari, fiscali ecc.). Spesso non ha neppure molto altro dietro che non sia un intento pop-pubblicitario pagato alla fine dal denaro pubblico. Non parlo degli artisti, ma del sitema-arte. Noi si risponde a un bisogno di vita e di cura con un glocale senso di onestà intellettuale. D’altronde un agonia è parte della vita e si conclude in una buona morte, che è l’effetto ultimo di una buona cura, di una buona vita.

Trasformatorio continuerà? E come?
Trasformatorio è inarrestabile. Perchè muta. Torneremo anche in Sicilia presto. È vero che ci piacerebbe riuscire a dialogare con una politica dei territori più sensibile, vogliosa di riconoscere e valorizzare i risultati che la società civile riconosce come “suoi”. Quello che facciamo è aperto e rimarrà tale. Ma alla fine possiamo fare a meno anche della politica. Abbiamo realizzato Trasformatorio all’inizio senza un euro; quindi è dimostrato che è possibile. Il denaro è solo zucchero, serve ad accellerare i processi, ma non fai il buon vino con lo zucchero e basta, tantomeno una cena. L’Europa ha bisogno di ricominciare a produrre culture e di andare oltre questa lunghissima parentesi neocon in cui l’arte è il prodotto di un mercato e l’innovazione di problemi. Fuori dalla macchina concettuale della finzione neoliberista i problemi non esistono, esistono persone, bisogni, contesti, flussi, forze contrarie e opportunità. Fuori dal mercato c’è lo spirito.
Continuiamo a realizzare Trasformatorio per lo spirito con l’onestà intellettuale di un buon viticoltore onesto che vuole bere il proprio vino con gioia e fierezza. Il terreno su cui coltiviamo è una rete diversissima e colorata, in espansione, e ci coltiviamo con le nostre forze e con una certa disincantata e picaresca allegria.
Lavorare con l’arte per perseguire innovazione (tecnologica e sociale) è l’unico modo per innovare davvero e immaginare un mondo al di là delle siepi di rovi del “contemporaneo d’autore” di cui parlavi prima. E’ ciò che già si sta facendo, in tantissimi, non solo come Trasformatorio, in tutto il mondo.
Le apocalissi sono i momenti stupendi del cambiamento…

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.