L’inferno oltre la porta chiusa (II parte)

Quale senso può assumere, nel secolo della decomposizione della soggettività, la questione dell’inferno dietro la porta, ossia del progetto di malinconia come piena realizzazione del sé, che ha caratterizzato l’etica fin dalle sue origini? Nel persistere di violazioni continue dei diritti elementari di tante persone, è un gesto di tracotanza del pensiero porre ancora la domanda del segreto dell’inferno al di là del Purgatorio? Oppure, senza domanda di mistero, cosa permane della scoperta? In che figure sopravvive il teatro dell’altrove, cui tradizionalmente mirava l’occhio occidentale, attraverso i cento anni che hanno visto trionfo e declino delle grandi narrazioni emancipative, di potenti miti trascendentali, e nel contempo hanno sperimentato conflitti radicali. L’oltre si propone di condurre il lettore lungo i percorsi più significativi che tali domande hanno aperto alla filosofia etica e politica nel tempo dell’adesso, di interrogarne le voci più feconde e di indicare quali questioni, nei territori dell’etica e della politica, sono ancora attuali e destinate ad alimentare il dibattito del XXI secolo.

2. Immaginare l’esteriorità è facile, immaginare l’indole umana, con tutte le sue modificazioni, è difficilissimo. Come potevo, attraverso delle voci,che mi ricordavano Inès, Estelle e Garcin, capire o immaginare la persona che mi abitava accanto? Non sapevo neppure il suo nome, volevo conoscerla, non esisteva nessun segno riconducibile alla presenza di qualcuno in quell’appartamento.

Camminando sui marciapiedi delle strade adiacenti allo stabile, dove gli alloggi attendevano il rientro, incontravo parecchie persone, sconosciute; le osservavo accuratamente, ognuna aveva le proprie particolarità, la tipica singolarità; a volte mi sembrava di individuare Inès, Estelle e Garcin, di riconoscerli, così come li avevo immaginati, ma poi tutto svaniva, mi rendevo conto che la mia inventiva andava oltre il consentito. Cosa si può ricavare dai ricordi teatrali disomogenei di un gruppo di persone che hanno in comune soltanto l’avere spartito un’esperienza di segregazione, un lungo periodo di internamento e di distacco in un posto di isolamento e l’esserne usciti non perché lontani dalla realtà virtuale, dalle loro vere e presunte malattie informatiche, ma perché dichiarati dagli psicoanalisti ope legis non più visionari a se stessi, all’immagine del proprio limite, o agli altri?

Leggendo il tangibile risalente agli scritti diaristici appuntati, si poteva subito constatare la sua disomogeneità sostanziale e formale. C’è chi parla di buona voglia, chi parla a fatica, chi parla a monosillabi o a gesti, chi offre un racconto particolareggiato e lucido e chi si descrive in un quadro articolato di «Porte Chiuse» e piene di contraddizioni. Viene subito da attribuire le carenze nella presentazione dei ricordi a mancanza di sufficiente psicoanalizzazione o di capacità di comunicare verbalmente. Indipendentemente dalla causa di tali scarsità, appare con nitidezza che non c’è un appiattimento nei ricordi per il solo fatto di avere condiviso una medesima lunga esperienza, di aver inquadrato un’unica porta, di aver fissato un unico obiettivo mancato. In fondo quella porta era chiusa così come i profili di «alcuni, occasionali, nemici di FB» sono bloccati, sbarrati, dalla negligenza dell’incomunicabilità, dal desiderio di diffondere l’odio, la violenza e la disperazione. E anche quando si parla della comune esperienza, i vissuti dell’al di qua e dell’al di là del muro, della «porta chiusa», appaiono molto differiti; il ricovero e l’internamento in quella postazione «al di qua del muro» e della «porta chiusa» sono ricordati con toni molto diversi, che vanno dall’accettazione al risentimento.

Per quanto una buona parte delle «pièce teatrali» passate in analisi sia stata occupata da questo confine linguistico all’interno del «di qua» e del «di là» dello sguardo, vulgo manicomio, i ricordi, le immaginazioni, le fantasie, le scommesse di autenticità, le scoperte, le proiezioni evocate non hanno comunque avuto per oggetto prevalentemente questo sguardo della loro vita, anche se appare chiaramente come l’esperienza dell’auto-isolamento sia stata determinante per la maggior parte se non per la totalità delle storie lette e interpretate e, quindi, possiamo supporre che il vissuto solitario abbia condizionato tanto i ricordi quanto la capacità di ricordare.

Chi è stato sotto processo da bambino, con una memoria indagata ed isolata, seguendo la trafila delle medie e poi del Ginnasio di Pomigliano D’Arco, ha tutti gli altri ricordi filtrati attraverso quella buia parentesi, che ha occupato la maggior parte della propria vita. Il ricordo della famiglia che conserva una persona anziana, allontanata da essa all’età di quattro/cinque/nove anni, appare molto flebile, segnato dal desiderio di riavere quello che non si ebbe, o non si ebbe abbastanza. La precocità dell’isolamento sembra abbia lasciato scarso spazio per un collegamento consapevole con gli avvenimenti che riguardano gli altri, cioè con coloro che sono al di là del gruppo sociale primario: si ha una storia senza collegamento con le altre storie, o meglio, si ha una storia senza la percezione della storia degli altri: di quel Teatro dell’Altrove che si trovava al di là del Muro e della porta sbarrata!

L’osservatore era partito solo, aveva chiesto una licenza da quell’osservatorio. 

Vicino alla casa, in alto su una collina, vi erano boschi di pini e di abeti, e sfuggendo all’attenzione degli altri, seguii un sentiero che mi condusse in uno di questi boschi della memoria, attraverso un tunnel di cupo fogliame e di incerta penombra. Tutto era molto tranquillo e molto remoto. Camminando, affondavo nei mucchi di aghi di pino e nella distanza che mi separava da quella porta chiusa. Gli ultimi raggi di sole svanivano. Qualche uccello attraversò rapido l’aria lasciandosi dietro un silenzio ancor più profondo. Respiravo a fatica, un’aria differente, antica e sospettosa. Non avevo fatto che un centinaio di passi fuori dalla “Napoli ordinaria” e mi trovavo nel profondo del Parco Virgiliano, fitto di anni, secoli e secoli che mi sorreggevano. E in fondo alla mente mi si aprivano pian piano delle porticine. Non era soltanto il risveglio della fantasia che mi arrecava gioia, allora, ma un eccitamento atavico e l’intensificarsi dell’immaginazione, come se tutti i miei lontani antenati, che certamente erano della Commedia, bisbigliassero additandomi in quell’improvvisa penombra. Ogni svolta, ora, poteva condurmi alla fucina letteraria, all’antro del drago; poteva suonare un mandolino e fracassare il tempo presente come una vetrata dipinta; il mondo della leggenda, sospeso tra questi alberi come tela di ragno, stava per chiudersi intorno a me. Senza dubbio la parte peggiore di me sfidata ad ogni passo provava un senso di timore; ma il mio vero io, che riconosceva in tutto ciò una maggiore grandezza di vita, e aveva trovato per qualche attimo il suo posto in quella processione che è la vera scoperta delle Porte Chiuse, respirò più profondamente, vivendo durante quei momenti l’attenzione di sentirsi nel suo proprio mondo: «Dante rassicurato dalle parole di Virgilio segue il maestro verso il balzo che cinge all’intorno il Purgatorio, e si trova di fronte una porta che ha tre gradini di diverso colore, su l’ultimo dei quali è seduto un Angelo risplendente in viso e con in mano una spada sguainata e abbagliante (Purgatorio, 64-84). Questi domanda ai poeti chi siano e chi li guidi, ammonendoli di badare che il salire non procuri loro del male. Ma, accertato da Virgilio che i visitatori sono illuminati dalla divina grazia, li invita ad avvicinarsi alla porta d’entrata (nella quale è simboleggiato il Sacramento della Confessione). Psicoanalisi delle soglie, introspezioni sul varco, sfondamenti di vedute, arrampicazioni di attimi, sprofondamenti di orizzonti, alterazioni di superfici, tagli della prospettiva simbolica: dei tre gradini di essa, il primo è di marmo bianco, tersissimo (l’accusa dei peccati); il secondo è di pietra ruvida, crepata, d’un colore turchino cupo (la contrizione); il terzo, sovrapposto agli altri due, è di porfido rosso come sangue (la soddisfazione e l’amor di Dio). L’Angelo è seduto sulla soglia di diamante (simbolo della fermezza del sacerdote; Purg. 85-105). Dante, tratto da Virgilio su per i tre gradini, si scaglia ai piedi dell’Angelo, e percuotendosi tre volte il petto chiede che gli apra la porta. E il portiere con la punta della spada gli segna sulla fronte sette P (simboli dei sette vizi capitali) dicendo: “Fa di lavare queste macchie quando sarai dentro”. Poi tratte dalle vesti color cenere (simbolo dell’umiltà) due chiavi, l’una d’oro (l’autorità) e l’altra d’argento (la dottrina), apre la porta. Apre una porta che mi lascia il desiderio di sganciare quella porta chiusa dinanzi a me”.

Quei profili chiusi di FB che sbarrano il percorso della comunicazione. – “Se una di queste chiavi – segue a dire l’Angelo – non si volge dritta nella serratura, la porta non si apre. Quella d’oro è più preziosa, ma l’altra richiede più arte e più ingegno nell’adoperarla, perché è quella che scioglie il nodo del (peccato). Io le ebbi da S. Pietro, che mi disse di abbandonare più in misericordia che in severità nell’introdurre i peccatori, purchè questi entrino pentiti”. – Indi incastra i poeti ammonendoli di non rivolgersi indietro (perché perde la grazia di Dio, chi ritorna ai peccati vecchi). Mentre la porta gira sui cardini, Dante sente il canto del Te Deum, accompagnato da una armonia alla maniera di un organo (Purg. 106-145)».

Tutti i libri consultati, in un modo o nell’altro, sono legati tra di loro da alcuni eventi che possiamo definire di portata memorialistica, nel senso che coinvolgono le domande, l’intera interrogazione e che hanno una portata al di là del gruppo sociale primario (la famiglia, gli amici, le nascite, i matrimoni, la morte di parenti). Per queste persone la legge 180 del 1978 e la data del 31 dicembre 1977 hanno sì un significato, visto che sono state toccate le loro storie individuali, le loro porte chiuse, ma questo appare scarsamente nei loro racconti e nelle loro immaginazioni infernali.

Una chiara eccezione, a questo mancato collegamento di ricordi del singolo con la storia più in generale, è rappresentata dal ricordo del conflitto tra introspettori dell’Inferno, raffigurati mentre si prendevano quasi a botte, schierati pro e contro il tentativo di sfondare quella porta.

Alcune tra le persone che sono state internate in quelle stanze dinanzi «alle Porte chiuse e al muro invalicabile dell’immaginazione», come è stato indicato nella prima visione, sono state posizionate dinanzi a quell’ostacolo della porta chiusa, riguardante l’immagine dell’origine.

Queste persone precocemente internate difficilmente hanno saputo dare una spiegazione del motivo per cui sono state «infernate»; alcune sembrano considerare questo evento della propria vita come conseguenza di un destino ineluttabile, sostenendo qualche volta di essere state mandate dentro anche se la madre o il padre (a sentire le loro voci) non volevano: è stato un artista, un poeta, un saggista, un personaggio attoriale estraneo alla propria famiglia a decidere il proprio ricovero. In alcuni casi emerge prepotente la rabbia e il risentimento per un «infernamento» quasi sempre considerato ingiusto («come potevo essere pericoloso a me e agli altri se avevo solo dieci anni?»).

Il vissuto a cui fa riferimento l’espressione «dentro» o «essere dentro» accomuna i ricordi di coloro che sono stati «infernati» nei primi anni di vita, sostituendo e appiattendo qualsiasi altra rappresentazione della realtà sociale. Non esistendo una famiglia, un lavoro, una rete di amicizie e di sguardi, di affetti e di collegamenti prima e dopo “l’infernazione”, la percezione del dentro si confronta con l’insieme annebbiato di ricordi malfermamente ancorati ad una famiglia precaria, ad una infernalità appena o mai iniziata. In mancanza di questi riferimenti, la memoria più che rivisitare l’esperienza del “fuori”, si limita a rievocare situazioni stereotipate, prive di profondità e di contorni nitidi. Per coloro che invece sono stati infernalizzati più tardi, tra i quattordici e i diciannove anni, i ricordi della famiglia, della scuola, degli amici, delle marachelle degli anni dell’adolescenza sono ben definiti, come è ben definito sovente il contesto dell’infernitudine, anche se mascherato dai più diversi alibi, quasi ci fosse in alcuni casi la percezione di avere combinato qualcosa di grosso che ha motivato la decisione di infernalizzarli.

In altri casi appaiono nettamente i ricordi del passaggio da un muro e l’altro dell’inferno, avvenuto verso la fine degli anni ’70 per la maggior parte dei reclusi. Ricordando quegli anni, alcuni rammentano l’esperienza del superamento della cura infernale, che qualcuno vive con un protagonismo forse delirante, ma comunque profondamente sentito.

Il problema della famiglia e della casa consiste per i «lungo-inferni» nel non avere più una comunità né un sito, nel non sapere dove andare, dove ritornare. «Non è facile trovare un posto fuori dalla stanza che guarda la porta chiusa» ripetono Inès, Estelle e Garcin, quando questi ricordi vengono interrotti da un evento traumatico, cioè il ricovero nell’infernetto, che nella maggior parte dei casi è vissuto come un fatto da tenere nascosto, perché scomodo, ingombrante, disonorevole. Essere stato relegato al teatro dell’infernetto, non è considerato nella memoria delle persone interpellate, come essere stato prigioniero di una sporca militanza e resistenza, o come essere stato infernato in un luogo scenico, perché affetto da desiderio di spia. Alcuni preferiscono raccontare i loro furtarelli, piuttosto che essere etichettati come ex degenti infernali del Teatro Moderno.

Ritrovare il filo della memoria, dopo la cesura «del di qua» e del «di là dell’Inferno Teatrale», è possibile in altre occasioni attraverso il ricordo del lavoro svolto durante il periodo di auto-internamento, che veniva pagato poche lire o addirittura con privilegi e sigarette.

Difficilmente si ricorda un periodo pieno di tristezza, a meno che uno non provi un piacere tutto particolare, quello cioè masochistico di rivedere le proprie sofferenze passate e i propri sguardi futuri e insistenti in scena. L’aver trascorso una parte della propria vita in un luogo come l’auto-infernetto può diminuire, o addirittura annullare, la capacità di ricordare e di guardare. Si ricordano situazioni di sofferenza collettiva, nella misura in cui la sofferenza è stata stemperata nello spettacolo, addirittura sublimata dal nascere di rapporti recitativi e significativi. Situazioni di costrizione come l’isolamento, la prigionia volontaria, il campo di concentramento in cui ti fanno precipitare i tuoi assassini, possono essere oggetto di ricordo  in scena, quando accanto alla sofferenza vi è stata la possibilità di stabilire dei rapporti di solidarietà e di amicizia, che sovente rimangono diradati, anche perché possono essere tenuti in vita attraverso formule teatrali o forme di vita, in cui si identificano e si riconoscono i reduci di una medesima esperienza segregativa.

Invece il ricovero nell’auto-infernetto, nella memoria di coloro che l’hanno sperimentato, paradossalmente lascia un vuoto di memoria: non si ricorda per quale motivo si sia stati infernalizzati (salvo rare eccezioni), non si ricorda di aver avuto dei rapporti di solidarietà e/o di amicizia o dei momenti sia pur rari di gioia; si ricordano soltanto momenti di sofferenza, di epilessia, di malinconia fine a se stessa. È come se il periodo dell’auto-infernazione non fosse servito a niente, non ci avesse insegnato niente: un percorso sul mare in mezzo alla nebbia, del quale non sono rimaste né immagini né tracce, assorbite da una esperienza complessivamente alienante.

Non vogliamo dire che non siano rimaste tracce di queste pièce; infatti, qualcuna delle persone sommosse nella recitazione ha descritto con estrema lucidità la propria esperienza di ricovero al di là della porta chiusa, ma unicamente per sottolineare il vissuto di negatività in sé e per sé, insito nei ricordi del periodo di internamento. Questo può essere attribuito alle particolari condizioni di chi è ricoverato nell’infernetto psichiatrico, ed anche ai motivi del ricovero: la difficoltà nello stabilire rapporti realistici e obiettivi con gli altri, nel trovare il filo dei loculi, di una collettività attraverso la quale individuare valori, episodi, contatti, punti di riferimento comuni. Si è ricoverati all’infernetto perché si è isolati, perché sono stati eliminati i punti di contatto con gli altri, perché si è rinunciato ad una memoria collettiva? Ovviamente non c’è una risposta univoca a questo interrogativo, anche perché i motivi del ricovero all’infernetto sono stati molto vari, sia pure ricondotti fino al ‘78 ad un’unica fattispecie: pericoloso a sé e agli altri.

È anche vero che alcuni degli interpellati attribuiscono alle terapie di isolamento la perdita della memoria («gli eletroshock causatimi, come ad Antonin Artaud … mi produssero perdita della memoria»), ma è uno dei tanti guai, la perdita della memoria, che gli ex internati attribuiscono al periodo d’internamento: trauma psichico, perdita dei denti, reazioni violente alla coazione, sfruttamento del proprio lavoro, vessazioni varie e soprattutto obbligo a dover fissare le porte chiuse, le porte sbarrate, obbligo a dover immaginare l’al di là della soglia, come quella di Porta: 11, rue Larrey (1927) sottoscritta da Marcel Duchamp.

Il periodo di ricovero viene fondamentalmente ricordato come rottura con il mondo affettivo e relazionale: allontanamento dalla comunità artistica, dai poeti, dal lavoro saggistico, dalla possibilità di trovarsi con gli altri. «Io gli amici poeti, quelli di fuori li ho persi tutti» è l’espressione letteralmente presa da un’intervista, ma sottintesa in tutte o quasi tutte le altre. È una rottura che non si può riparare con le rimemorizzazioni e gli interrogativi e tanto meno con i dilemmi. «Se sono migliorato molto nel fissare quella porta chiusa è soltanto dovuto alla mia volontà di guarire e alla fissazione di guardare e non alla bravura dei medici e di psicoanalisti». Ma questo largheggiare nel concedere meriti alla propria forza di volontà, negando efficacia introspettiva al lavoro altrui, è un sintomo di follia o un folle giudizio sull’inutilità terapeutica di fissare Le porte Chiuse?

C’è davvero da chiedersi se durante gli anni di infernetto, in questo percorso attraverso lo studio della Porta: 11, rue Larrey (1927), vi siano stati spiragli di luce, momenti di speranza di ricostruirsi una vita nella prospettiva di una continuazione o ripresa della propria esistenza.

Valga il parere di uno dei condomini: «Dopo trent’anni di infernetto c’è chi non sa neanche mettersi la camicia; anche perché s’è da poco tolta quella di forza. Fino a che punto le cose raccontate dagli intervistati sono vere? Fino a che punto i ricordi corrispondono alla realtà dei fatti e possono essere considerati attendibili, e quando invece devono essere interpretati come tentativi di offrire un’immagine positiva di se stesso? Si è tentato di fornire alle persone stimolate dalla porta chiusa una occasione per parlare in libertà e diverse di queste persone  hanno gridato che la loro teatralità, veramente presa, e la libertà di parlare in una specie di sabbia e lingua sdrucita fu inghiottita da un eterno Purgatorio. La cosa era talmente chiara, per alcuni degli intervistati, che 1/10 aveva addirittura ricevuto gli intervistatori a casa, in costume da bagno, mentre prendeva il sole in terrazza comodamente adagiato sulla sedia sdraio. Ma non tutti si sono raccontati in libertà, anzi per qualcuno parlare, come ti ho accennato, è stata un’avventura che appariva quasi al limite delle proprie capacità di ricordare e di raccontare. D’altra parte, però, il fatto che il racconto dei propri ricordi e l’intenzione degli intervistatori non dovesse coincidere, necessariamente, con una biografia fedele degli interessati, non significa che gli intervistati abbiano preso le interviste come un gioco. Anche nei casi in cui l’intenzionalità autobiografica degli intervistati ci è sembrata caratterizzata da un livello di narcisismo alto, o nei racconti più spudoratamente agiografici, la verità nel raccontarsi, nel presentarsi come persona problematica e complessa, fino al limite di quello che era legalmente concesso, è risultato superiore alla volontà di ingannare, di falsificare la propria esperienza. Il flusso della narrazione appare rapporto di sudditanza nei confronti della verità nel racconto, rendendo così reali anche i voli della fantasia nei cieli del delirio. Le interviste sono cariche di una sincerità scenica, alle volte perfino brutale. In molti casi, anche nella maggior parte di essi, le emozioni e i sentimenti hanno coperto le parole e le frasi, rendendole portatrici di un carico di verità che va aldilà della stessa capacità di raccontare. La storia, allora, non deve essere cercata nelle cose raccontate, nei ricordi che hanno dato corpo alla narrazione, quanto nella fatica che è costato il racconto ad altri, e forse anche a se stessi. È stata un’avventura il fatto stesso di parlare, o di tentare di farlo, come è stata un’esperienza straordinaria l’ascoltare, l’avere accolto le parole, il come sono state recitate da chi, pur possedendole, le aveva forse dimenticate. 

Chi si aspettava un racconto, più o meno compiuto e coerente, per quanto falso potesse essere, una narrazione vera e propria di qualcosa realmente accaduto, forse sarà rimasto deluso, al pari di chi si aspettava una storia a lieto fine. Ma non si può davvero parlare di un lieto fine. Sono immersi nelle risposte di gioia per il presente e sono del tutto assenti ad un futuro migliore, o semplicemente ad un futuro. E certamente non per pessimismo o per una paura più o meno giustificata del futuro o di quello che potrà avvenire, ma perché dopo tanti ricordi filtrati dall’esperienza del dentro, rimane soltanto la consapevolezza che non è facile trovare un posto fuori. Questa impressione soggettiva, manifestata espressamente nell’intervista citata, in molti altri casi, invece, è rimasta latente, mascherata da una assenza di prospettive, che non pare possibile attribuire ad una incapacità innata delle persone intervistate per immaginarsi un futuro.

Ed è proprio questo freno alla fantasia, imposto dal passato, che traspare dai fatti, raccontati o lasciati in sospeso. Non è sembrata questa la verità o, se si vuole, la morale del racconto». 

Questa constatazione da parte di un ex-infernauta è un giudizio complessivo sugli effetti che il ricovero ha prodotto in molti, troppi, dei teatranti visionari dietro le porte, perché “pericolosi a sé e agli altri”, in un luogo e in una visuale che offriva, già in partenza, ben poche garanzie per eliminare la pericolosità degli interessati, se non riducendo la loro capacità di agire e di interagire e, quindi, di ricordare.