1. L’appartamentino era ben ideato, pur essendo piccolo, ammobiliato con gusto poteva diventare un luogo desiderato nelle ore di riposo, di intimità, di lettura, di momenti particolari che la vita riserva.
Disposto a piano terra, in un piccolo stabile, confinava con un altro studio d’artista, forse uguale. All’interno, due grandi stanzoni, i soliti servizi con riggiole di cotto di un colore gradevole e delle righe sottili che delimitavano il margine tra la piastrella e il battiscopa. Le porte massicce, laccate di un cenerino chiaro, accurate, con maniglie in lega di rame e zinco lucido; i muri biancastri, il pavimento di un lastricato stile pompeiano, ormai fuori design, lucidato da poco, sempre noioso a vedersi. Poi un cortiletto, mal tenuto, con delle piante grasse e in un angolo un gelsomino profumatissimo, con il sottile tronco e i rami bisognosi di una salutare potatura.
Sulla sinistra un muro alto più di due metri separava quel piccolo locale all’aperto da un altro adiacente all’appartamento confinante.
Una porta a lastre vetrose permetteva l’accesso dalla cucina e in estate poteva essere funzionale per qualche cenetta all’aperto, magari al lume provvisorio di una candela, o per distendersi su una sdraio, in una limpida sera, e guardare le disseminate stelle nell’oscurità del cielo. Il portone principale era in ferro lavorato, massiccio, con simmetrie a stelle ed anelli; l’atrio, dalla forma quadrangola, non era molto fine, anche in quella occasioneavevano economizzato in qualcosa. I rumori erano circoscritti, il grosso del traffico confluiva in una piazza da dove si diramavano vie che conducevano al centro della città.
Abitavo lì da poche settimane, non conoscevo nessuno, tranne delle persone anziane che salutavo per superficiale educazione. Mai avevo avuto l’opportunità di vedere i miei vicini, mi attraeva il loro aspetto, il loro tempo o forse, al di là di un assito fatto di mattoni, viveva un individuo solo o in compagnia di una troupe teatrale, che avrei voluto scorgere forse di spalle,nell’atto di aprire la porta accanto la mia.
Dovevo completare mobilio e suppellettili, passare attraverso le noiose scelte del design e della nuova mondanità post-moderna, non era facile; cercando nei negozi specializzati, trovavo qualche pezzo di mio gusto, ma c’era ancora parecchio da fare. A poco a poco mi sentivo padrone di quel luogo, dei nuovi libri, dei nuovi scaffali della biblioteca e dei futuri testimoni di sogni, di incubi, di veglie, di sonniferi, di palliativi culturali, di metafore e di tanti altri bisogni di evasione.
Desideravo comunicare con qualcuno, fare delle conoscenze, scambiare delle opinioni intanto che si attraversava il comune ingresso o ci si incontrava per strada. Occorreva ancora del tempo; il rapporto umano, a volte tarda ad approdare.
Era arrivato il clima mite, si sentiva il gradito calduccio nell’aria.
La mattina il chiacchierio di pochi uccelli mi svegliava, suoni naturali, toni organici che disturbo non danno alla pacatezza che il sonno lascia al risveglio, molto sporadici a sentirsi nel persistente strepitare della città. Talvolta li adocchiavo appoggiarsi sparsi sui rami, in quel cortile, e i pochi fiorellini lattescenti che la stagione invitava a sbocciare, facevano ancor più risaltare il vermiglio e lo zafferano di cui erano intrise le morbidi piume. Non avevo nozione della specie, non mi sono mai incuriosito di ornitologia, ma l’affetto che inducevano era sedante e testavo fastidio quando, spiccando un morbido volo, svanivano per ritornare chissà quando. Rappresentavano l’ingenuità dell’essere, lo splendore di una piccolissima parte del creato, facile preda dell’arroganza del più forte, dell’inferno del marito di mia sorella, predatore incallito e spuntato incarnatore della saccenza venatoria.
Passava il tempo, nel bene e nel male si ripetevano i consueti gesti, nel chiostro avevo messo altre piante e una sdraio di vimini, con un comodo tappeto imbottito che toglievo quando le condizioni atmosferiche non mi permettevano di utilizzare quel piccolo ambiente.
In certi momenti, quando il buio iniziava a coprire le cose, disteso su quel mobile lettino,a distanza avvertivo il frastuono della vita, il contenuto dei libri che avevo letto, le immagini dei testi di retorica che accompagnavano le mie interpretazioni; guardavo lo spicchio d’azzurro diventare scuro, alla ricerca di qualcosa di indefinito: le nuvole mi restituivano l’immagine di corpi non misurabili, senza superficie e contorno, che non insediano un luogo e non hanno né forma né limiti definiti. E poiché ciò che non si può stimare con accuratezza, non entra nella gratella prospettica (Brunelleschi infatti nella sua celebre tavoletta con foro che riproduceva il Battistero, cessò di rappresentare le nuvole e programmò per il cielo una parte esterna d’argento che rinviasse a quello reale), la profondità, lo sfondo, la gradazione, la profondità stessa si rivela dalle origini un sistema di calco imperfetto, un sistema scartante. Dunque: la nuvola come limite, come immagine e come pensiero, come un incognita della pittura, ma anche come un elemento figurale dell’apparizione che, proprio per la sua inafferrabilità, conduce i paesaggisti in una dimensione dove regna l’immateriale e il transitorio. Il limite o il grande limite, sotto il cielo di nuvole, è tradizionalmente il recinto di sostegno che chiude un mondo e impedisce che vi penetrino le influenze nefaste di origine inferiore; ha l’inconveniente di limitare il campo della vista che recinge, ma ha il vantaggio di stimolare l’immaginazione, lasciando d’altra parte via libera alle influenze celesti che si addensano tra le stesse nuvole.
Il famoso Muro del Pianto può forse essere interpretato anche come simbolo di distacco. Si arriverebbe così al significato fondamentale del muro: dissociazione tra le immaginazioni confinate; separazione-frontiera-proprietà fra conoscenze, comunicazioni e individui; separazione tra storie, separazione tra fisica e metafisica; separazione tra sé e gli altri. Il muroindica avviso interrotto, con un doppio effetto psicologico: sicurezza-soffocamento; difesa-prigione. Il muro si collega qui alla simbologia teatrale dell’elemento della porta chiusa, della matrice occultata.
Quel muro sulla sinistra mi impediva di guardare oltre, scoprire quel che c’era dietro, chi poteva aggirarsi in quello spazio e, stranamente fantasticando, vi collocai qualche personaggio de Le porte Chiuse, la pièce teatrale di Jean-Paul Sartre del 1943, una voce alla Garcin, uno dei tre protagonisti de Les Autres che dice: «L’inferno sono gli altri». La voglia della conoscenza mi portava ad immaginare un teatro che avevo costruito senza avere un minimo indizio. Pensavo che fosse un unico attore, ma poi se erano i tre delle Porte Chiuse? Sartre scrisse questo breve lavoro teatrale in quindici giorni, nell’autunno del 1943. La messa in scena fu affidata ad Albert Camus che, il quell’occasione, avrebbe dovuto interpretare come attore la parte di Garcin. Si è sempre creduto che i rapporti con gli altri fossero descritti da Sartre come rapporti avvelenati, corrotti, ma in realtà egli tendeva a dire tutt’altra cosa: “Io volevo dire che se i rapporti con gli altri sono viziati, allora l’altro non può essere che l’inferno … Gli altri sono, in fondo, ciò che vi è di più importante per noi, per la conoscenza di noi stessi”.
Ripeto: pensavo che fosse una voce sola, ma poi, se erano tre voci e tre persone, se erano tutti e quattro i personaggi dell’opera di Sartre? Concentrato sui miei pensieri interiori: «Dovevo rinunciare ad inventarle; ma erano sicuramente polifonie individuali o individui polifonici, ne ero certo, lo sentivo. Ricordavo la distinzione stabilita da Antonin Artaud fra il «teatro orientale» a tendenza «metafisica» e il «teatro occidentale» a tendenza «psicologica»: fra un teatro rimasto cosciente della sua origine divina, quale gli riconosce l’India, cioè della sua «funzione di simbolo», ed un «teatro profano». L’arte teatrale, mi avevano ricordato gli shastra, in quanto Veda, il Natya Veda creato da Brahma, che serve all’edificazione di tutti, poiché i primi quattro non possono essere compresi dalle persone di modeste origini. È il riassunto dei simboli attraverso i quali essi devono scorgere il cammino della virtù. È la rappresentazione dell’eterna lotta fra il deva e gli asura. Questo concetto peraltro, che si riscontra nella maggior parte dei teatri dell’Asia, si ritrova anche, almeno in parte, nel teatro classico greco. Esso si sviluppa con più fastosità e più effusione nei misteri medioevali fino a Calderòn. Occorre del resto far notare la discendenza di tali rappresentazioni con i misteri dell’Antichità Grecia, come le rappresentazioni di leggende iniziatiche nelle società segrete. I misteri medioevali rappresentano i tre mondi: il cielo, la terra e l’inferno: gli angeli, gli uomini e i demoni, simboleggiando gli stati dell’essere e la loro simultaneità essenziale. In senso più generale, il teatro rappresenta il mondo, lo manifesta agli occhi dello spettatore. E poiché lo rappresenta, ne fa percepire il carattere illusorio tramite il confronto con una porta chiusa. L’attore all’interno dei suoi ruoli è anche l’Essere che custodisce la verità, dentro cui è seppellito l’occultamento, nel tentativo di essere reali, egli appare dietro al silenzio della porta d’ingresso dello spettatore; il custode dello scetticismo, del sospetto, del dramma infernale che rimane sconosciuto. Nel Il Teatro del Mondo, dice Calderòn: è proprio di quest’al di là della porta che si tratta. D’altra parte le persone si trovano nel teatro del mondo, e per essere lì, sono dietro una porta sbarrata. Una porta di cui fa parte, e nello stesso tempo appressa al mondo del teatro quando assiste ad una rappresentazione. Lo spettatore si proietta in effetti nell’attore assente, si identifica con i personaggi de Le porte chiuse e condivide i sentimenti espressi; o quanto meno è trascinato nell’interruzione del dialogo con ciò che si nasconde e nel movimento dell’altra parte del muro. Ma l’espressione stessa delle passioni e lo svolgimento delle situazioni lo liberano da ciò che è racchiuso in se stesso: si produce il ben noto fenomeno della catarsi. La performance contribuisce così a sciogliere i complessi. Questo effetto si accresce nella misura in cui lo sguardo dello spettatore si reca sul limite e viene coinvolto in una situazione drammatica immaginaria. Avevo perfettamente colto e utilizzato tale fenomeno, facendo dell’autopsicodramma un metodo terapeutico sulla vista delle Porte Chiuse; cercavo anche di estenderlo alla psicosi collettiva del condominio. Tutto il valore del mio sguardo, come il fenomeno stesso della catarsi della Porta Chiusa, poggiava su uno sforzo di trasposizione simbolica della situazione realmente vissuta da me stesso dinanzi a quel muro e a quella porta, a quell’isola e a quell’ingresso sbarrato. Inespresso e inconscio, in una situazione immaginaria, in cui i freni non hanno più ragione di esistere, in cui la spontaneità ha via libera («aprite quella porta!»), in cui di conseguenza l’inconscio a poco a poco si svela e il complesso si scioglie. Quella porta sbarrata stava, un po’ alla volta, svolgendo il suo ruolo d’induttore, si è verificata una specie di ipotesi (catarsi) e una parte delle profondità dell’inconscio hanno potuto accedere alla luce delle espressioni. Infondo, continuavo a pensare, che la Catarsi presso i Greci, sia l’azione di portare lo sguardo ad una comprensione, ovvero sia il ristoro dell’anima per la soddisfazione reale o immaginaria di un bisogno morale, sia le cerimonie di purificazione alle quali venivano sottoposti i candidati all’iniziazione. Il simbolismo del teatro occultato e da scoprire agisce a tutti questi livelli! Il termine “porta” indica l’apertura praticata in un muro, per consentire passaggi o l’imposta mobile, con la quale si serra un vano. La porta è un principio semplicissimo nella sua ideazione, eppure, dai contenuti ambivalenti: tollera entrate e insieme consente di uscire da uno spazio chiuso; la porta assicura «vita privata» e «certezza» e, allo stesso tempo, è ciò che difende redenzione e transito. Grazie a questo carattere convincente la porta si è procurata nel corso del tempo un’abilità metaforica interminabile e, infatti, compare negli ambienti più disparati. Basti pensare alle porte del “viaggio” dantesco che mutano le proprie dimensioni in base al luogo a cui permettono l’accesso; o alla Porta dell’Inferno di Auguste Rodin che racconta sulla propria superficie la storia dantesca e il cui volto brulicante è stato descritto da Rainer Maria Rilke ne Il diario fiorentino; o alle porte di René Magritte e Marcel Duchamp: La risposta imprevista del pittore belga è una porta che benché cateratta permette passaggi nel magnifico ed oscuro spazio notturno dell’ignoto; mentre la Porta di Rue Larrey 11 di Duchamp è una porta che attraverso la condivisione dello stipite tra due cornici riferisce la sua doppia essenza: è sia aperta che chiusa. Anche in ambito architettonico la porta si è conquistata un ruolo di assoluto rilievo: è un elemento secondario, strumentale – se considerato in rapporto alla difficoltà di un’architettura – eppure rappresenta il primo contatto con chi entra nei fabbricati: tramite l’uscio si accede ad altri “mondi”. Le porte delle cattedrali romaniche e gotiche declinano questa rifrazione: esse sono letteralmente prese d’assalto dagli oggetti delle eterogenee forme sbalzate nelle strombature, sul frontone, sugli archi e le volte … ».
Rincasavo quasi sempre alla stessa ora; a volte ero tentato, volevo bussare a quella porta, a quella soglia cateratta, il pulsante del campanello era poco distante dal mio, bastava spostare lievemente la mano; un pretesto qualsiasi, mi dovevano aprire, guardarci, parlare dei pochi convenevoli, scoprire il nome e il volto dei protagonisti dell’inferno sartriano: Inès, Estelle e Garcin!
Rimandavo sempre, mi mancava il coraggio, mi sembrava di invadere qualcosa che non mi apparteneva, usurpare con l’inganno l’accertamento di una teatralità, privata della necessaria spontaneità.
L’estate era alle porte, gli indumenti invernali erano stati accantonati, le nuvole raramente coprivano i luminosi raggi del sole ma entravano nelle riletture di Hubert Damish, sui marciapiedi si inseguiva l’ombra dei palazzi o dei pochi alberi dalla foglie doloranti. Il patio era diventato il mio primo rifugio, i fiori del gelsomino propagavano un odore intenso, amabile; il verde delle altre piante mi discostava dall’aridità delle strade, dall’aria pesante delle macchine in moto.
All’imbrunire di un bollente giorno che stava concludendosi, intanto che l’acqua dava sostegno ai piccoli frutici, sentii delle voci e una musica d’accompagnamento; finalmente un richiamo che dietro quel muro c’era qualcuno o qualcosa che viveva, che animava le prove di uno spettacolo, la performance di una pantomima, la catarsi di una resa, il sottile fruscio di un happening, gli ultimi bagliori di una pièce teatrale, c’era qualcuno che recitava di nascosto, che simulava per cazzi propri, che aveva delle esigenze di distacco.
Ascoltare voci – sartriane – dimostrava sensibilità, cultura spaventosa. Era l’inferno delle Porte Chiuse: lo sguardo altrui mi mette in pericolo, mi pietrifica nel mondo, mi impone un essere e una situazione che ignoro, mi costringe a cogliere me stesso come oggetto, senza che io possa sapere cosa sia questo oggetto che io stesso sono. Ed i miei tentativi per difendermi dall’altro, riducendolo a sua volta, a cosa, hanno come solo effetto di creare fra noi rapporti fondati sull’artificio e sull’inganno, una tensione perpetua, un atmosfera di conflitto: «il conflitto è il senso originale dell’essere-per-l’altro: “L’inferno sono gli altri”, diceva Sartre. Frase quanto mai ambigua e, a detta dello stesso autore, sempre mal interpretata nel senso che è stata recepita dai critici in un’accezione diversa ed estranea al messaggio che Sartre intendeva comunicare. Se in determinate situazioni, quando i rapporti sono già viziati in partenza, gli altri possono essere un inferno per le persone, è tuttavia incontestabile che, soprattutto a partire da L’Etre et le Nèant (1943), l’altro costituisca un fattore determinante e fondamentale per l’esistenza di ognuno di noi».