Cadute e incomprensioni. Tra i grandi fenomeni di mistificazione del fuggitivismo italiota che contribuirono, con sincera passione, a provincializzare l’esercizio della fotografia, ricordiamo, ovviamente, i tre volti di Molly Bloom simulata: Glap, Penelope Lacordella in viaggio e Penelope Lacordella s.partita.
A Penelope Lacordella s.partita dobbiamo riconoscere la singolare e prepotente capacità di simulazionismo, correlata alla violenza gestuale trash; e ancora l’attitudine ad esprimere, nel cromatismo fotografico degli additivi creativistici, talora stridenti, e nella iniziale destrutturazione della figura tenutaria di Penelope Lacordella, nell’ombra e nel buio, talora stonato, e nell’iniziale destrutturazione della forza positiva della madre (sempre volgare e sguaiata), una caratteristica disaffettiva altamente drammatica per il perseguimento dell’angoscia tumultuosa e già evocativa, in qualche tratto, della tragica, apocalittica, presenza di quegli spettri che – persecutori e imprevedibili – finiranno per saturare sempre di più i temi allucinati della difficile fotografia delle corrispondenze.
Molly Glap, al contrario, beffarda e cinica, si proporrà in una dimensione ancora più didascalicamente permissiva, creando immagini grottesche di se stessa, sardonici impasti di bruttezza spacciata per bellezza, spaesate e scandalizzate maschere in antitesi alla bolsa arte autobiografica, misogina, nevrotica, segnata da un design melenso.
L’immaginario di Penelope Lacordella in viaggio ha de-sacralizzato il tempo, né intende minimamente rinunciare all’addomesticamento di Ulisse, con infantili visioni nostalgiche, il passato è fermo così come il futuro. Il mondo, la presenza della fotografa e della fotografia nel mondo, diviene spesso incubo, non però secondo il modo tipico di un certo libertarismo nevrotico, che vede le tribolazioni e la colpa strettamente connesse e concatenate con l’angoscia e il fallimento. L’universo delle paure, delle ossessioni dello spirito, non può qui essere compreso secondo le categorie moralistiche che denunciano il peccato di falsità, come ad esempio l’invidia, tipica del fotografo cieco, la cupidigia del mercante, la depressione della falsa monaca, e così via. Il dramma va qui cercato nel fenomeno esistenziale di Penelope Lacordella, che si mette fintamente in viaggio, di quella che sfida la poesia per farne oggetto di omicidio, così come essa si configura nella sua esposizione: un essere gettato violentemente nel mondo – il mondo della spartizione e dello spaesamento e del progetto trascendente del matrimonio di convenienza (basato su un contratto co.co.co. a progetto, ovvero un progetto di estorsione della parola) sul bene, del tradimento sulle corrispondenze – destinato alla vana libertà, alla responsabilità gratuita e inutile, si tratta di un vero e proprio simulacro dell’omicidio.
La crisi fascista, propria del primo ventennio del Nuovo Secolo, è qui anticipata: Penelope Lacordella s.partita denuncia il fallimento esistenziale nell’angoscia dei contenuti simbolici, nella ossessiva e quasi persecutoria scelta di una fotografia distratta, nella struttura formale di certe illustrazioni che si compiacciono – quasi – dell’aspirazione alla scheletricità ed alla metamorfosi disantropomorfizzante; nella schisi, nella dissociazione (qui anticipata e ripresa dagli epigoni del trash) delle categorie di spazio, tempo, luogo. Mentre l’esperienza del tempo si cristallizza e si irrigidisce contro J. Brodskij, il desiderio, espresso dalla convulsione delle scorregge dell’icona, dalla clonia dis-ritmica degli archivi manipolati, si dilata, fino a diventare estraneo alla ragione stessa della fiction.
In sostanza, in più riprese, si assiste ad una apocalittica reazione, ad una trasformazione del piano della verità, che diviene, mediante il lugubre messaggio della menzogna e delle cose disdette della Madre, minaccioso; mentre emerge una sensazione paradossale di mutamento ostile, fanatico di incubi, che indicheranno definitivamente la via al disagio per il disagio, proprio dell’età contemporanea. Penelope Lacordella in viaggio spalanca le porte dell’occultamento delle corrispondenze, dell’estraneità e dell’arterità: das nichts vernichtet, il nulla nulleggiante. Una frequente atmosfera falsificazionista si pone come antesignana di tutto un filone fotografico che trova nella giustificazione dell’archivio, nel macerato, nel perbenismo, la carica prepotente e fascista, idonea a trasformare in allucinazioni anche i momenti apparentemente meno problematici e conflittuali dell’esistere e del divenire corrispondente. Penelope Lacordella fotografa talora personaggi e luoghi fantastici, ma in modo che si può toccare con mano la morte della poesia, sperimentare come drammatica presenza l’uccisione di Omero: perché il fantastico è qui vissuto come realtà occultativa e smascherata, come il trash del camp o come il trash del trash. Le fotografie recuperate e quelle da recuperare, spesso sature di personaggi e di cose, sono esposte e banali a partire da una intimità più repulsiva.
Nessun residuo di rimorsi, solo un coinvolgimento angosciato, per l’osservatore, con strutture ed immagini formali insidiose, caotiche, violente. La capacità di vincere i pesanti condizionamenti delle corrispondenze, l’uso a tutto campo della vigliaccheria e dell’oppressione, che sono necessarie costituenti dell’arte simulatoria moderna; ma, per ciò stesso, le capacità di sperimentare fino in fondo il nulla e il vuoto, l’invidia e l’ostilità, la gelosia e la violenza. La violenza, spesso, è in grado di indicare, con particolare pregnanza disaffettiva, il tipico e radicale disprezzo per la madre. Nella stantia e lugubre, personalissima, figurabilità che ne deriva, il modo edonistico e antigrazioso dà forza e vigore a esperienze fortemente cosistiche, che svincolate da qualsiasi iconicità reale divengono trash.
L’angoscia simulatoria di “Penelope Lacordella è in viaggio” è aperta sia alla crisi dello spirito che alla penuria intrinseca delle cose che popolano il mondo flessibile contemporaneo. La solitudine della protagonista, inconsolabile perché disegnata sull’angoscia del suo stesso scheletrismo, denuncia già la coscienza dei falsi bisogni, la consapevolezza del rischio e del fallimento, poiché la parola e l’immagine, divenute insieme mai coese o fintamente tali, semanticamente scisse, pongono il suo lavoro trash tra un tempo e una memoria che non rivela una paziente attesa, ma una risolutezza e una noia verso l’uccisione di Omero. Con molte contraddizioni, facendo e soprattutto disfacendo, Penelope Lacordella governa il tempo degli assassini, costruendo quello che vuole con arbitrarietà e inconsapevolezza. Si esercita a spartirsi, si allena per le plurime scissioni, come direbbe Vito Riviello. Solcare i ricordi significa obliare il ruolo della Madre, significa uccidere la moglie di Omero; sentire il tempo significa sottrarre e aggiungere all’immagine frammenti di poliomielite, virus di necrofilia, infezioni da Covid 19, traducendo per noi spazio di cecità, di egoismo e di soffocamento.

Spazio che funeralizza, non definito e dato, spazio che non conduce da nessuna parte perché l’artigiana dell’omicidio, la bottegaia della triturazione psicologica invita al difficile ed esaltante esercizio della “libertà condizionata”, la libertà del condizionale sgrammaticato, senza seduzione, è fertile tramite, impulso potente.
Perché la violenza e l’occultamento affascinano, e le opere di una fotografia che simula il gioco di un viaggio s.partito sono violenza? Niente come uno scatto fotografico fissa una bugia, una falsità, una singolarità del niente, donandogli una dimensione simulata, innegabilmente. Quando fissiamo Penelope Lacordella in viaggio, non siamo noi, ma c’è sempre qualcosa di noi in ogni suo feticismo bugiardo; non si parla di noi eppure si dice qualcosa che ci guarda: evidentemente la fotografa sta scrivendo lo Storyboard della nostra fine: necrofilia mon amour. Cade l’Utopia, l’illusione, e l’ordine schematico e ingenuo implicito nelle weltanschauungen delle corrispondenze occidentali va in frantumi. Penelope Lacordella s.partita è un nodo di angoscia, l’angoscia dà corpo alla depressione e il male del vivere sta nel suo essere menzognero, nel suo farsi e disfarsi archivio della sua decadenza, colpito o stregato, affascinato o disincantato dalle cose, dagli oggetti, sui quali ha esercitato l’antico tirocinio e il rinnovato desiderio di suicidio.
L’esperienza della simulazione di un viatico denuncia che Penelope Lacordella ha il suo cuore altrove; ma non è dato conoscere questo luogo, in quanto ogni luogo, in ultima analisi, è vettore di spaesamento e di alienazione. Nostalgia e speranza non appartengono al tempo degli assassini, o più ai sentimenti normali, ma ad un Io che sperimenta la crisi dell’identità attraverso la cristallizzazione del divenire di un tempo morto, di “un rimanere senza territorialità”. Si materializzano il pensiero e l’affettività spaesata. Si assiste, in alcune costruzioni fotografiche, ad una decadente e talvolta banale modalità di stile, ed al nascere di forme neo-fasciste.
L’angoscia (fotograficida, banale, senza contenuto, kitsch, formale), ci rende ragione della presenza del serial killer moderno. Come in un Lager (le foto di Penelope Lacordella in viaggio) dove vengono occultate corrispondenze con patabanalità, regresso e repressione, l’artista non può più entusiasmarsi, sperimentando – in modo lucido e decisivo – che l’omertà su Omero, il nulla e la morte della famiglia sono i veri principi neri dell’universo e della riconquista di Itaca s.perduta.
Il rimorso di non averla considerata per quello che era e voleva essere, e la conseguente possibilità di provare senso di colpa, rappresenta uno stato d’animo potenzialmente adattivo che può associarsi ad una condizione di salute. Rimorso e senso di colpa sono emozioni che provengono dalla consapevolezza di aver adottato una condotta inappropriata e, di conseguenza, spingono il poeta a modificare il comportamento e l’attuazione della sua scrittura. Per quanto sgradevole possa essere, il rimorso è quell’emozione che ci spinge a riconsiderare le nostre azioni o le nostre scelte e a riallineare la nostra condotta a valori e principi che riteniamo giusti.
Il rimorso, in questo senso, ci spingerebbe a riflettere su noi stessi e a considerare ciò che facciamo da punti di vista diversi o che avevamo trascurato. Il rimorso è quindi un’emozione molto importante legata alla socializzazione degli affetti, all’autoconsapevolezza della sua libertà e della sua affermazione e alla strutturazione della ricerca stilistica del poeta.
Chi ha orecchio argentino, riconosce il godimento di un respiro. Un buon interprete, coglie la grazia di una frase. Un’interlocutrice del bene, coglie l’armonia di un testo. Ma non tutte sono Carla Lonzi. Un fratello, un amico potenziale, o un sedimentatore di sensibilità, sa ascoltare la verità in chi dice “voglio ancora poesia”. Felicità e poesia sono parole luminose o banali, dai molti sensi. E i molti sensi hanno un cervello e quindi portano avanti la consapevolezza che “la coscienza è due”. Evocano l’incanto di una parola (e il piacere di frequentarla), ma anche il sorriso di un’esistenza. Si dice che una poesia è felice, ad esempio, quando con il minimo spreco formale genera il massimo di piacere e di respiro. Una posizione nella vita si può dire felice, ad esempio, quando con il minimo spreco esterno genera il massimo di attrazione e di fiato. Una parola nella vita si può dire felice, quando consente il massimo di tensione e di vita mentale con il minimo di sofferenza connessa alla propria storia personale.
Ma se un’opera d’arte e una poesia si possono chiamare allo stesso modo felici, sembrano diversi i criteri sotterranei per dirlo. Ed io lo posso dire, anzi lo voglio dire, facendo marginalmente il verso a Carla Lonzi: “Sputiamo su Hegel”. Non esiste nessun sapere sistematico che fornisca una grammatica della felicità. Eppure, Orfeo e Euridice (ma anche l’appassionato e l’ascoltatore interiore, se non l’artista, il poeta) mettono in funzione una specie di orecchio mentale, che percepisce irresistibilmente la forma felice. Più imbarazzate, invece, si pone la questione del disincanto. Può dire, il rifiuto del dialogo e dell’ascolto, la felicità? Quando e come lo scrutatore di un punto nell’esistenza di una persona può dire che è felice? Il sapere cucito dal silenzio o dal nascondersi lo dicono? Credo che a questo punto il respiro della scrittura debba rivolgersi, necessariamente, alla poesia. Forse la risposta a una questione di felicità sta in musica, o in poesia. Lo stesso Baudelaire – che, in uno scritto del 1846, aveva sostenuto trovarsi nel colore elementi armonici, melodici, contrappuntistici – teneva a sottolineare l’esistenza di un’intima connessione analogica tra colori, suoni, odori, precisando che, nel luogo di questi magici congiungimenti, si confondono in una “unità tenebrosa e profonda, vasta come la notte e il chiarore”. Ecco appunto dove si creano le sinestesie, vecchie e nuove; in una zona limite, inafferrabile, imprecisata e misteriosa, molto interna e nascosta. Una celata realtà illuminata cui corrisponde una realtà esterna, tra i linguaggi. Forse tra i linguaggi possibili, non tra quelli impossibili!

Da tempo il pensiero sistematico cerca gli strumenti per dar voce all’indicibile, con incursioni in respiri classicamente estranei al suo sguardo ed al suo sentire. Chi vuole dialogare, il poeta e lo scrittore, si rivolge ai segreti della scrittura e dell’oralità. Lo sguardo del dialogo trova nel raccontare il modo per dire ciò che non sta dentro al discorso ragionato, dentro alle illuminazioni. La vita delle cose e delle parole sta dentro la loro stessa trasformazione, che la parola calcolata rischia di disanimare. Per esprimere questa metamorfosi è molto più ricco e mosso il sapere respirato del racconto, o del mito. La narrazione è la grande metafora del mondo, dunque ne coglie il cuore e le differenze. Compito del poeta non consiste nel riferire gli eventi, ma bensì ciò che può avvenire e ciò che è possibile secondo verosimiglianza e necessità.
Questo discorso sull’arte e le poetiche non è limitato e riferibile soltanto alla sfera del maschile e, dunque, facevano bene molte di quelle parole di Sputiamo su Hegel a dimostrare come le ideologie socialiste e i movimenti rivoluzionari abbiano strumentalizzato il femminismo, deviando le donne dalla vera questione, l’autonomia e libertà del soggetto femminile. Le donne, come donne hanno coscienza del legame politico tra l’ideologia e le loro sofferenze, i loro bisogni e le loro aspirazioni, però credo che Carla Lonzi avesse altrettanta coscienza di un soggetto malefico come Marine Le Pen. Alla poesia interessa, insomma, cogliere il manifestarsi di una qualsiasi Diotima, basta che essa non sia solo una forma astratta, che non sia neanche e solo una forma concreta, ma una differenza che diviene e che divenendo eviti di procurarsi una pistola, per sopprimere qualcuno o qualcosa: la parola
Tocca agli artisti riconoscere anche un po’ propria questa narrazione verosimile e necessaria del possibile parlare. Ma anche al respiro. Compito del poeta, si potrebbe dire, non è di tradurre in parole gli eventi del mondo interno, ma di renderne possibili altri, con la pertinenza e la necessità che può avere lo snodarsi degli eventi in una narrazione felice. Se poi, con il respiro, la poesia consiste nel dare alle cose insensate senso e passione, si profila una insospettata parentela tra dialoganti, ascoltatori e poeti. Tutti, ancora con Orfeo e Euridice, tentano di inventare una metafora felice, una piccola favola che, a partire dalle passioni che animano il nostro corpo e il nostro cuore, dia un senso al mondo, alle parole, ai suoni, ai respiri. Una metafora contro il poeticidio è la chiave della scrittura, del respiro e dell’affetto poetico. Sulla scorta del ritrovamento di correspondance si evoca un passo di Jean Coucteau: “En musique, la ligne c’est la mélodie, le retour au dessin entraînera nécessairement un retour à la mélodie”(Le coq et l’Arlequin. Le rappel à l’ordre).