Cesare Accetta, Ritratti in luce, Napoli 2016

L’effettualità fotografica o l’economia dell’effetto (IV par.)

Immagine, firma e stile rappresentano tre categorie della fotografia complessa, ambigua e fuorviante. Problematico un discorso unitario sulla loro natura, sulle loro funzioni, soprattutto all’interno dell’analisi della «foto-realtà». Un percorso che ambiziosamente tocca ambiti di indagine che vanno dal falso storico, alla fotografia di documento, fino all’impossibile veristico e che non si ferma ad indagare il ruolo delle immagini e delle forme, ma vuole spaziare attraverso il mondo variegato, metamorfico dell’inganno, che del non-vero rappresentano il supporto necessario.

Cosa non daremmo, noi che non siamo fotografi professionisti, per assistere alla trasformazione di un oggetto in una cosa bella, ma finta. Molti tentativi testimoniano questa ossessione e la riflessione dei semiologi intorno al rapporto fra il “fotografico naturale” e il “bello artistico”, fino all’incarnazione filmata della creazione. Ma di solito tali tentativi spoetizzano il lavoro del fotografo. Lo stesso vale per gli attori quando ci parlano di fotografia e, attraverso la nascita di una calotipia, riusciamo a scorgere il germogliare della simulazione. Allora, per plasmarla, perché non siamo con le nostre mani dilettanti? Ma a questo proposito, proprio un poeta ha tentato la nostra iniziazione contro lo scetticismo dell’immagine.Tutti conoscono i versi del II libro dell’Arte di Amare, in cui Ovidio ci fa assistere alla nascita, in ciascun momento d’Amore, di una Nuova Afrodite:

 ”Quando avrai trovato i punti che la femmina gode Che/
siano toccati, non si opponga la vergogna impedendoti/
di toccarli”.

E il fatto che questo poeta sia anche quello delle Metamorfosi ci offre – forse – la possibilità, imitando Malebranche, di “sognare per andare più lontano”.

In questa Metamorfosi, tutto avviene come se in essa scorgessimo le sorprese della carne condannate dagli dei, catturate dalle forme della natura, ciascuna in un atteggiamento o in una posizione di singolare falsificazione. Non possiamo, dunque, considerarla un’allegoria? Il lavoro dell’Immagine non è proprio quello di sorprendere, per fermare sulla pellicola o tra gli algoritmi dello schermo la metamorfosi più naturale che esista: quello del fotografo, che si sostiene nella realtà della propria bugia, attraverso il venir meno del suo illusionismo, afferma il fantasma. A questo punto, si intende in cosa il Mentore dovrà confessarsi vinto. M. Merleau-Ponty ha chiesto alla Psicologia della Forma di restituire quell’organizzazione primitiva del percepito, descritta da Cézanne nel suo stato nascente: in poche parole, la spazio-temporalità del sensibile, ma anche dell’illusione del Sensibile. Come il poeta della Metamorfosi, Valery, il poeta del Cimitero Marino, va senza dubbio più lontano:

“Come il frutto si fonde in godimento/
e in delizia muta la propria assenza/
dentro una bocca in cui muore la forma/
vado fumando il mio fumo futuro/
e il cielo conta all’animo consunto/
il mutare delle rive in suoni”.

Quel che vale per il poeta, non vale e non potrà mai valere per il fotografo. Orfeo non ci fa avanzare attraverso l’indice delle cose, ma grazie a lui la voce sa di esistere, di sostenersi nell’esistenza dell’attimo in cui la voce del corpo svanisce, filtrando fino a noi la diafana sostanza dei toni e dei suoni, come la luce dell’occhio attraverso una palpebra socchiusa.

Prendiamo ancora in considerazione la dialettica vero/falso, per scoprire ciò che non può essere escluso dall’arte: ciò che si è costretti a fare o a vedere – tra gli altri motivi – tende a testimoniare, anche perché il fatto in sé è anticipato e perché impedisce quella vigorosa vibrazione influenzata dalle emozioni dell’enigma, che il fotografo desidera ottenere mediante la sua opera. Ciò che è incredibile lascia la persona umana sul confine tra sensibile e insensibile. Il fotografo è indubbiamente influenzato dalla dura condizione dell’alterità mondana, dal duro confronto del mentire il vero, soltanto che nessuno deve accorgersi e percepire che si tratta di “menzogna”! Il tempo nella fotografia a stampa, agisce sovente sugli indici del mondo così come agiscono le intenzioni strategiche del fotografo; quello che abolisce con la propria magia tecnicistica, luminescente, rimanendo apparentemente lontano dall’inganno.

Cesare Accetta, Le furberie di Scapino, 1976

Persino foto d’arte portanti firme copiate, non sono sempre dei falsi, prodotte con intenzioni disonorevoli. Da sempre ci sono stati dei fotografi, dei messaggeri onesti, la cui unica colpa è stata quella di avere, con eccessiva esattezza, imitato la maniera o lo stile di qualche illustre scenografo. Questi valenti o ben intenzionati fotografi non hanno sognato mai di partecipare con la loro attività, oggi o domani, a loschi reportage. Essi non possono impedire che le loro finte illustrazioni vengono in possesso di collezionisti che penseranno di sostituire la loro onesta e sconosciuta firma, con altra più gloriosa ma falsa. Si capisce che il solo mutamento della firma porta, come conseguenza, anche il mutamento dell’interesse per l’immagine e, in relazione a ciò, muta anche il prezzo. Come direbbe R. Magritte, a proposito dell’autenticità: «Le cose visibili possono essere invisibili. Se qualcuno va a cavallo in un bosco, prima lo si vede, poi no, ma si sa che c’è. Nella Firma in bianco, la cavallerizza nasconde gli alberi e gli alberi la nascondono a loro volta. Tuttavia, il nostro pensiero comprende tutti e due, il visibile e l’invisibile. E io utilizzo la pittura per rendere visibile il pensiero». Come nel ciclo della Trahison des images, ne ‘La Firma in Bianco’ Magritte fonde e separa realtà e rappresentazione. Mentre nella “pipa che non è ciò che dice di essere” la realtà si sottrae alla rappresentazione e viceversa, in quest’opera la cavallerizza e la selva sono compresenti e veicolano con il loro mostrarsi il bisogno dell’artista di andare oltre l’apparenza delle cose e allo stesso tempo di far vedere la realtà come un’astrazione. Il fotografo contemporaneo, invece, è tradizionalmente impreparato ed indifeso, perché agisce sul furto dell’immagine da una natura alterata. Pesa su di lui particolarmente l’eredità di una lunga storia, legata ad un’economia prevalentemente naturistica in cui, anche nei momenti di maggiore floridezza, la conduzione fondamentalmente artigiana non aveva mai posto dei problemi di mercato. Nel risveglio delle attività dell’ultima falda media-evale e dell’era moderna, i fotografi hanno piuttosto imparato l’arte del vendere le mercanzie iconografiche, per lo più fuori da mercati competenti, di quella di comprare.

Circola da tempo la convinzione, alla cui diffusione hanno contribuito in special modo i foto-artisti, che il soggetto creativo non sappia né acquistare né vendere. Da un lato la cultura umanistica d’elite ha tramandato negli intellettuali visivi un generico disprezzo per tutto ciò che riguarda l’economia digitale, fraintendendo l’umanesimo in un formale decoro della persona e in un astratto e sognante distacco dalle cose della fotografia quotidiana. Dall’altro un fatto di costume: il fotografo contemporaneo si è abituato, atavicamente, ad agire fuori dal sistema dell’arte costruendosi un’effimera immagine del fuori e del naturale, che è fuori dalla macchina! Detto ciò, chiediamoci pure, fino a che punto la foto, quella che si rivolge al vero, al naturale, può essere valutata fonte di autenticità e come dato indiscutibile dell’effettivo?

È fuor di dubbio che l’istantanea rispetto al disegno, alla scultura, alla pittura, alla litografia, e a tutti gli altri sistemi di riproduzione di immagini, ha un grado maggiore di riproducibilità, di indicalità, di informatività, di esplicabilità e può fornire una grande quantità di notizie, dati, voci, indicazioni, avvisi, rapporti, tanto in più quanto in meno.

Una qualsivoglia stampa fotografica, vecchia o nuova, è capace di restituirci dettagli piccoli e grandi, i caratteri di un viso, di un vestito, di un ambiente, del corpo di un essere umano, del suo posare, della sua maniera di stare con gli altri. Sono finezze ufficiali e veritiere che, nel loro complesso, formano un quadro generale quasi completamente oggettivo. Quindi in un certo senso la fotografia non deve attendere il realismo oggettivo pittorico o l’iperrealismo grafico (ammesso che questo corrisponda alla realtà), per specchiare la realtà. Diciamo pure che la fotografia ontologicamente, per sua natura tecnica è in relazione diretta con il dato di realtà. Potremmo dire che la fotografia è all’incirca realtà. Sotto questa luce la nostra riflessione intende dire, come nel libro di John R. Searle (1932), che la fotografia potrebbe volgere ad alcuni aspetti fondamentali della cultura umana, tradizionalmente, poco considerati dalla letteratura, ma che svolgono un ruolo decisivo della nostra esistenza quotidiana. La fotografia è in grado di rappresentare la struttura di quelle porzioni del mondo che sono fatti solo per accordo umano – poderose creazioni dell’uomo come la moneta, il matrimonio, la proprietà e il governo. Fatti di questo genere hanno un’esistenza oggettiva solo perché noi crediamo nella loro esistenza, e costituiscono il mondo della realtà culturale e sociale di cui tanto si discute. Seguendo la fotografia, e usandola come medium documentativo, potremmo dimostrare che noi viviamo in un unico mondo che contiene sia i fenomeni descritti dalle scienze naturali (come fisica e chimica), sia quelli descritti dalle scienze sociali (come psicologia, sociologia ed economia). La domanda fotografica è questa: come possono degli animali biologici, quali noi siamo, creare una realtà sociale oggettiva? Searle sottolinea come anche le più comuni azioni quotidiane esibiscano un livello di complessità metafisica stupefacente. Ciononostante, sembra proprio che le istituzioni sociali siano mantenute in vita semplicemente da abitudini: questo vale anche per gli scatti della fotografia? In altri termini la foto è più realtà, o è più scatto e scelta di inquadratura sulla e nella realtà? Se noi mettiamo in luce le caratteristiche indicali fotografate e impresse dall’immagine possiamo rivelare gli attributi di queste istituzioni e la disarmante semplicità o variabilità della loro logica di fondo e, quindi, anche la loro veridicità ontologica, in quanto fenomeni naturali. La conclusione del discorso di Searle è che: “Il linguaggio è una struttura istituzionale perché comporta l’imposizione di un genere speciale di funzione su entità brute, fisiche che non hanno nessuna relazione naturale con quella funzione. Certi tipi di suoni o segni contano come parole e frasi, e certi tipi di enunciati contano come atti linguistici. La funzione agentiva è quella di rappresentare, in un modo o in un altro, fra i modi possibili degli atti linguistici, oggetti e stati di cose del mondo. Gli agenti che possono fare ciò collettivamente hanno la precondizione fondamentale di tutte le altre strutture istituzionali: il denaro, la proprietà, il matrimonio, il governo e l’università esistono grazie tutti grazie a forme di accordo umano, che comportano essenzialmente la capacità di usare simboli” (La costruzione della realtà sociale (1955) Einaudi, Torino, 2006, p.255). Quindi, il problema è proprio in “quel incirca reale” della funzione agentiva. Basta un piccolo esame, per tributare una verità iconico-realistica: prendete una stampa fotografica e copritene o scopritene di volta in volta alcune parti o dettagli, si percepirà subito come all’interno di una uguale foto mutino i sensi e i significati tra le medesime cose descritte dettagliatamente. L’istantanea è dunque un modo preciso di porgere la realtà. Con un semplice trasferimento di qualche centimetro la macchina fotografica, nel corso della ripresa, muta tutto, dai dettagli al quadro globale. E quindi cambiano anche le notizie e i concetti che l’immagine riesce a esprimere.

Cesare Accetta, Nero sensibile, 1985

La foto del miliziano spagnolo di Capa e quella della conquista americana di Iwo Jima di Rosenthal sono forse due falsi incredibili o meglio due condizioni «veritiere ma non vere». Quest’ultima immagine fu scatta prima della fine della terribile battaglia di Iwo Jima. Nessuno sa con certezza chi siano i marine ritratti, e quanti furono gli scatti tra i quali fu scelta la foto-icona. Non è neppure un’istantanea messa in scena, ma l’istantanea del preparativo della messa in scena (mi sono occupato di questo fenomeno in: Il «trashporter» alla fine dell’Opening People? – Segnonline). E Clint Eastwood nel 2006 ha persino girato un film sul falso più «vero» della storia americana: Flags of Our Fathers.

Quanti falsi fanno ormai parte di una scheggia della storia della fotografia? Molti, anzi moltissimi, per riuscire a osservare la stessa fotografia  come un medium in cui è possibile orientare il falso a partire dal naturale, dall’organico, da quello che si rafforza sulla «specie dimostra-le (indicale)». Durante il fascismo, il nazismo, nel periodo più buio dello stalinismo ci sono state assurde sofisticazioni ai fini della pubblicità politica. Lo stesso è successo durante la Comune di Parigi, durante tutte le guerre, nel corso delle spedizioni per ammazzare i pellerossa in America, durante la lotta di secessione, nel Risorgimento, ecc. Si concretizzavano i presunti «mosaici fotografici» sistemando eroi in posa, fingendo esecuzioni, ardimenti … Celebri sono, per esempio, le foto scattate durante la presa di Roma nel 1870, con bersaglieri e falsi soldati pontifici messi in posa sulla celebre breccia di Porta Pia, a poche ore dal vero scontro. Se, come atteggiamento generale, il realismo della macchina fotografica consente al suo stesso uso di sostenere gran parte delle sue argomentazioni, e di attaccare con rigore metodologico le varie posizioni dell’arte antirealistica, il potenziale realismo antiriduzionista che la macchina fotografica propone sui generis, nell’affrontare il problema della coscienza e del cosiddetto inconscio tecnologico, proposto da Walter Benjamin, sembra condurci a un esito che rimane in qualche modo ambiguo. Lo stessa potenzialità realistica della macchina fotografica, del resto, è ben cosciente di come la sua posizione – l’insistenza nel sostenere che l’inconscio tecnologico è solo un fenomeno irriducibile a qualcos’altro e insieme che esso come immagine è un fenomeno biologico remoto, ma come le altre ri-produzioni – ci porta a essere considerati ora un dato idealistico e ora un dato materialistico; e le critiche e i dibattiti che hanno dato luogo alle posizioni e ai generi della fotografia contemporanea ne sono una manifestazione evidente. Il tentativo del confronto col falso è quello di operare una revisione concettuale delle categorie ereditate dalla tradizione filosofica sulla foto (vedi V. Flusser) – secondo le quali il mentale e il fisico indicano due classi che si escludono reciprocamente – e di affermare che esse sono invece categorie perfettamente compatibili e che quindi è possibile riconoscere che la coscienza è, allo stesso tempo, completamente materiale e irriducibilmente mentale. Un’ambiguità sembra peraltro premere, quando la Fotografia remoto-realistica sostiene che la soggettività della coscienza rende quest’ultima irriducibile a fenomeni in terza persona, secondo i modelli standard della riduzione naturalistica, diremmo organica, e tuttavia essa resta un fenomeno biologico ordinario come la digestione o la fotosintesi: il suo naturalismo biologico remoto non si allontana completamente da una forma di materialismo, in grado di nascondere le vere autenticità del vero e le vere autenticità del falso.

Roger Fenton, Guerra di Crimea

Per difendersi dalle minacce dei falsi che abbondano sulla stoltezza della fotografia, bisogna imparare a leggere le immagini: esse hanno una loro veridicità sensibile e una loro  costruzione emozionale, che deve essere conosciuta così come impariamo il lessico e la morfologia delle parole; anche se poi il confronto non è così diretto e scontato. A chi non è capitato di vedere due foto identiche e dello stesso avvenimento pubblicate su giornali diversi con esposizioni e relazioni diverse? Senza avere punti estremi di confronto, senza apprendere l’ottica dei fatti e senza poter stabilire la grandezza e la sincerità del fotografo e del «fotografico» è ben faticoso discernere un vero da un falso. 

È proprio questo il motivo per cui il commediante e l’attendibile, in rapporto all’oggetto naturale, dipende da un esercizio e da una considerazione dell’immediatezza e dell’autenticità. Una immediatezza e un’autenticità che, naturalmente, sono totalmente presupposte dal materialismo critico di Adorno, contro la non-curanza fascista di Martin Heidegger. Con stringenza concettuale che non lascia scampo, Adorno orchestra l’istruttoria contro il filosofo della Selva Nera, il quale lo ripagherà con la sprezzante noncuranza riservata a un “sociologo” qualsiasi. Oggetto dell’affondo adorniano è la critica della liturgia dell’esperienza genuina, che nella Germania del secondo dopoguerra aggiorna, secondo i canoni di una distinzione spirituale ormai di massa, gli stilemi elitari in voga presso ristretti cenacoli intellettuali, di alcuni decenni precedenti. Sul “gergo dell’autenticità”, tanto più auratico e lustrato quanto più somigliante ai messaggi pubblicitari – “sottoprodotto della stessa modernità con cui è in rapporti di inimicizia” -, cala il giudizio squalificante di “ideologia tedesca”, già coniato da Marx per la filosofia del suo tempo. Ma è soprattutto su Heidegger, ossia su colui che ha conferito rango teoretico e contegno linguistico all’autenticità, che si addensano i capi d’accusa di Adorno. Ne deplora le immagini, le fotografie manipolate, il cifrario strumentale di una realtà alterata che dà la vertigine della profondità, avvolgendo “le proprie parole come arance nella carta velina”, mentre incarna solo “la forma attuale della falsità”(Jargon der Eigentlichkeit,1964).

Detto ciò, il naturalismo è e rimane la tendenza a vedere nella natura il principio di ogni altro fatto: tale tendenza può riscontrarsi sia nell’ambito generale del complesso di tutti i problemi di formalizzazione, sia soltanto in qualche settore specifico di essi. In quest’ultimo caso, è consuetudine specificare con un aggettivo il termine naturalismo, per cui si parla di naturalismo etico e fotografico, naturalismo religioso e di naturalismo pedagogico. La natura è un termine variamente impiegato in fotografia e in tutta l’azione dello sguardo umano e collettivo. In generale, il termine natura può definirsi positivamente come il complesso di tutti i fenomeni, le cose e gli eventi nella loro reciproca connessione;  così come può definirsi anche come tutto ciò che non è stato toccato o modificato dalla cultura e dall’arte degli uomini, ciò che è ancor privo dell’autocoscienza tipica dello spirito, ciò che non è prodotto di abitudine o di contraffazione, ma è originario e spontaneo. A seconda che si insista sull’uno o sull’altro di questi aspetti, la natura fotografica può apparire, di volta in volta, contrapposta all’arte e all’artificio, alle abitudini, alla civiltà, all’esperito, alle macchine, da cui essa stessa deriva. Durante la guerra di Crimea (1853-1856), in cui le truppe inglesi e francesi, insieme a un contingente del Regno di Sardegna, combatterono contro l’esercito dello zar di Russia, un fotografo inglese, Roger Fenton (Heywood, 20 marzo 1829 –Londra, 8 agosto 1869), fu stipendiato dal governo per dire il falso con la fotografia. William Howard Russell (Dublino, 28 marzo 1820 – Londra, 11 febbraio 1907), inviato del Times riferiva che i soldati, dietro alle barricate morivano non tanto guerreggiando, quanto per il freddo, la fame e i disagi. Era la pura e semplice verità. I capi politici e militari decisero, però, che “l’autenticità storica” non doveva essere raccontata e che la belligeranza doveva essere mostrata ai cittadini come una specie di bella e tranquilla missione. Quale mezzo migliore dell’istantanea dal “realismo remoto” poteva «far vedere» che quelle di Russell erano asserzioni false? Ecco allora che il fotografo Fenton fu incaricato di recarsi nei luoghi di guerra a scattare immagini di soldati accerchiati di ogni cura, felici e contenti, quasi come se il campo di battaglia si potesse trasformare in un teatro di esposizione scenografica. Questo fatto conferma ancora di più che la foto tende ad un’attenzione realistica, che per sua natura si rivolge al teatro, solo che esso può documentare il dato che il teatrema in quel momento mette in evidenza, opera, inscena. Quindi, diciamo che contro Fenton noi preferiamo un fotografo come Maurizio Buscarino o Cesare Accetta. Almeno nell’immaginario degli appassionati di teatro italiani è difficile separare il nome di Tadeusz Kantor, una delle personalità più importanti dell’avanguardia scenica internazionale del secondo Novecento, da quello di Maurizio Buscarino, il suo ritrattista princeps. Buscarino, reputato a ragione il maggiore fotografo di teatro del Belpaese, incontrò l’artista polacco nel dicembre del 1977, al Crt di Milano dove si presentava La classe morta, il suo capolavoro. Nel 1987 Mario Martone e Toni Servillo fondano con Antonio Neiwiller Teatri Uniti, unificando le esperienze di Falso Movimento, Teatro dei Mutamenti e Teatro Studio di Caserta, si tratta di una “correspondance” che consente anche alla potenzialità espressiva di Cesare Accetta di concentrarsi oltre che sulla fotografia anche sulla “luce”, vera antimateria del graphein, intesa nel suo spirito più completo e nelle sue performance più piene. L’incontro con il realismo concreto del fatto teatrale segna un altro traguardo importante: il paradigma del lighting designer, che supera l’esperienza teatrale e riporta l’immagine ai fasti della pittura mediale e antirealistica.

Roger Fenton, Campo di Guerra

La storia degli inganni e delle messe in scena fotografiche dovrebbe restituire una narrazione a parte, tanto è lunga e attraente e piena di vicende improbabili e molto indicative.

Nella seconda metà dell’Ottocento, dopo il crollo del regno di Napoli e delle due Sicilie, i quartieri del Sud furono funestati da una terrificante guerra che durò per anni: da una parte gli eserciti piemontesi, dall’altra i banditi-contadini frustrati e addolorati per non aver visto affermati tanti dei loro diritti. Come nei territori statunitensi, così anche nel Sud dell’Italia, molti «cacciatori esperti» si misero alla ricerca dei cosiddetti criminali. Alcuni, dopo aver ammazzato i braccati, facevano delle foto ai poveri corpi, collocando dei bastoncini ai lati degli occhi, così da far apparire vivi i catturati massacrati. Con quelle foto, che però documentavano soltanto il falso, era possibile incassare la taglia che l’autorità aveva predisposto.

E che cosa dire della mania del ritocco richiesto da molti clienti? Per decenni, è esistita una figura professionale specializzata nel correggere, sulle stampe o addirittura sui negativi, i difetti fisici di chi andava a sedersi in sala di posa per un ritratto. E così chi aveva un occhio solo, in fotografia riacquistava tutti e due gli occhi; nasi gobbi, bocche storte, ecc… a forza di aerografo e raschietto venivano resi normali o perfino belli. Le foto che uscivano dalle mani di quel fotografo erano veri e propri capolavori di abilità che hanno tratto in inganno chissà quante persone, ed hanno tenuto in essere il legame stretto tra immagine grafica, immagine a impressione di luce e medium popolare. Le immagini della primavera di Praga con Dubcek e Svoboda, come hanno dimostrato alcuni giornali inglesi che ne hanno pubblicato le diverse versioni, hanno subito, successivamente, ritocchi e manipolazioni miracolose: Dubcek che nelle immagini precedenti il 1968 veniva sempre ripreso con gli altri del governo e del partito, dopo la tragica fine della primavera è stato sforbiciato e tagliato via con un’abilità diabolica. Anche quando si trovava al centro dell’inquadratura e cancellarlo sembrava un’impresa impossibile. A Roma, nel 1981, alcuni assassini hanno continuato a lungo a inviare ai parenti di un vecchio sequestrato foto del poveretto con i bulbi oculari coperti da un paio di grosse lenti nere, chiedendo un sostanzioso riscatto. Ogni tanto il cadavere veniva tirato fuori e fotografato con un quotidiano in mano, per dimostrare ai parenti che l’ostaggio era ancora vivo e che per riaverlo avrebbero dovuto saldare la richiesta: fotografia uguale a verità è stata ed è, anche in questo caso, un’equazione troppo semplicistica e ingannatoria. Come sostiene il medialismo, la verità che gestisce la mediazione di una macchina – che non trasferisce corrispondenze dirette – non può sentenziare sulla realtà, ma forse non può sentenziare neanche sui «fattoidi di realtà», come osava dire Gillo Dorfles (Fatti e fattoidi. Gli pseudoeventi nell’arte e nella società, Neri Pozza, Vicenza, 1997). 

“La verità è una questione di corrispondenza ai fatti: se un enunciato è vero, ci deve essere un fatto in virtù del quale esso è vero. I fatti hanno a che fare con ciò che esiste, con l’ontologia. La dimostrabilità e la verificabilità hanno invece a che fare con la scoperta della verità e quindi sono nozioni di carattere epistemico, ma non devono essere confuse con i fatti da scoprire. Godel ha mostrato in maniera definitiva che non è possibile identificare la verità matematica con la dimostrabilità” (J. Searle, Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale (1998), R. Cortina, Milano, 2000,p. 5).