Il «trashporter» alla fine dell’Opening People?

Una fotografia scattata qualche mese fa, e pubblicata su FB nel profilo di un reporter d’occasione, mostra una donna con aria (fintamente?) smarrita e piuttosto incerta, che percorre i corridoi della Fiera, irrinunciabile appuntamento mondano.

Se questo fosse un servizio di un programma televisivo sul sensazionalismo trash, probabilmente il presentatore, fuffatore professionista, lo introdurrebbe così: «Osservate questa foto scattata pochi mesi prima dell’allarme Covid19. Chi è quella donna di media età, con quella stramba mise nera e con quella pettinatura ancora più posticcia? Appare decisamente fuori posto rispetto alle altre persone, o sono tutte fuori posto le persone riprese dal fotofuffologo, perché è lo stesso il Progetto fotografico che persegue il reportage ad essere posticcio? Cosa sta osservando, con volto rapito nella fuga, la “sedicente” precaria immersa nell’emulazione di uno stato di difficoltà, vissuto nel nascondimento? E cos’è quello strano atteggiamento di guardarsi le spalle, prima che qualcuno scruti nello specchio della sua ombra? Si tratta di una persona in fuga, o è lo stesso progetto Opening People – che dal fish-eye finisce nel trah-eye – ad essere in fuga dal suo medesimo obiettivo? Qual è l’obiettivo e qual è la macchina fotografica, chi è veramente il fotografo e chi è veramente l’oggetto della fotografia? Da chi e da cosa sta scappando? Perché quest’immagine, così come le altre scattate dal fotofuffologo, ci fanno pensare all’emulazione e al trash? Forse quell’algoritmo iconico è solo uno dei tanti volti di donne invecchiate male, magari incerti e crollati sulla propria identità di genere; espressione ambigua di un’immagine aneddotica, che fa pensare a qualcuno proveniente da un altro luogo, o addirittura da un altro tempo. Vi racconteremo tutto di quello che è già stato definito il mistero della macchina fotografica, nel tempo della pre-immunitas, ovvero nel tempo della morte annunciata dell’Opening People … ».

Ironia a parte, la foto in questione non è un trucco, ma è stata scattata in Taurenide verso la fine dello scorso anno ed è stata esposta una decina di giorni fa sul profilo del fotografo facebookiano, (il link è tra le Risorse in rete) nella sezione Virtual Exhibits dedicata alle mostre fotografiche sul e per il web. Alcuni dei visitatori del profilo del fotomatore hanno notato lo strano personaggio ritratto, in effetti non difficile da notare dato il suo aspetto: un’acconciatura artificiosa, espressione fatua, un abito da sera arraggianto che narra la caducità dell’esibizione, una mise da finta alternativa che testimonia di un atteggiamento profondamente trash. La foto, alimentando la leggenda della groupie ambigua, ha fatto subito il giro della rete, in numerosi siti e blog che producono le teorie più complicate sul protagonista di una gita nel continente dei vernissage. Alcuni giorni dopo, è spuntata un’altra fotografia dello stesso evento, stavolta recuperata da un altro scatto del reporter d’occasione, altra galleria fotografica d’epoca online. Il particolare della foto mostra cinque donne della stessa età, seppure in modo non chiaro, come cinque esemplari della stessa solitudine e della stessa ostentazione generazionale, pronte a testimoniare una fantomatica tensione. Alla fine, tutta la questione è stata presa in carico da un sito che si occupa di indagare su fenomeni fotografici strani e curiosi, riuscendo spesso a smascherarli, attività analoga a quella che da noi compie ad esempio

Il neo-trashismo fotografico, con il suo blog Opening People, partendo da un sano scetticismo sulla stravagante idea che un viaggiatore temporale sia sceso nelle inaugurazioni delle mostre per farsi fotografare, inizia ad edulcorare la qualità dell’immagine attraverso la tecnica dell’autodifesa acritica, cercando di non mostrare tracce di manomissione digitale. La foto sembra pertanto originale o, se ci sono state manomissioni, queste sono state realizzate estremamente bene. D’altra parte il profilo del Fotofuffatore è ritenuto in Taurenide e provincia fonte autorevole, il che scaccia i dubbi residui sull’autorevolezza del trash e del suo rapporto con il progetto opening people. Opening People è un evento che vede coinvolto uno spontaneista del click, il fotoreporter d’occasione che si muove già da diversi anni in mezzo agli eventi della città, con il desiderio dell’archivista del trash. Sia quel che sia, l’attuale contrarietà di staccare il buon uso del trash dalla sua cieca accoglienza, testimonia un certo inconveniente: l’epoca dell’indifferenza dei segni comincia ad essere affaticante, tutto accade come se la vecchia formulazione del trashporter (riguardo al trash come stile di un’epoca tramontanta con il distanziamento del Covid 19 e incapace di creare uno stile) ritrovasse nuovamente, una certa giurisdizione. Il trashporter ha conosciuto il management degli eventi-fuffa, proprio durante le sue performance iconografiche e continuando a registrare il sottile piacere di ritrarre il pubblico del sistema dell’arte, di riprendere gli artisti, assimilando il danno collaterale di opacizzare e di coprire le opere. Con la sua raccolta fotografica degli ultimi 3 anni, egli ha proposto un evento, una festa, ben riuscita perché perfettamente in sintonia con la disposizione degli Opening People che colgono, con aggressiva prepotenza emulativa, i momenti di messa in luce del sottile confine tra populismo e popolarità. Circolando nelle Gallerie d’arte e nei Musei cittadini, già numerosi segni testimoniavano il crescere di un qualcosa, come il sogno di un nuovo grande stile: talvolta sotto forma di una rivalutazione del kitch; talvolta anche sotto quella, molto più discutibile, di una nostalgia di un ‘900 sorpassato, o di un professionismo ostentato, esclusivo, purista, addirittura puritano che cela, non solo la minaccia reazionaria, ma anche un fascismo strisciante, fatti di umorismo e d’ironia. È come se il trash servisse a sviluppare la decadenza e a sognare un restauro, nascondendo potenzialmente una truffa che, strumentalizzando l’estetica, si presenta in forma di fuffa accettabile. Le opening action sono debutti dedicati a quell’arte che, grazie ad uno strano svelamento fotografico, rimane chiusa in se stessa; il raccattare e l’incrociare insieme, in una collettiva indiscrezione populista, il costume dell’emulazione e il protagonismo dissimulato, rendono aggressiva, ridondante e odierna al proprio tempo una città.

Oggi, grazie alle innumerevoli fotografie del fotofuffologo, è scontato rammentare quanta attività artistico-competitiva, mimetica e camp ci ha offerto e continua ad offrirci Taurenide. Quanti artisti vagamente affermati ci sono e quanti ne sono passati, quante strategie pubblicitarie, quanta lievitazione trash e quanto sentimento da ex voto è dentro alla città, è presto visibile. Quando la moda diventa indifferenziata, la legge non può tornare che in forma brutale, repressiva, tirannica: ad esempio, sotto la figura del trashporter, nelle vernici di certe gallerie di tendenza, il suo scatto è idoneo solo ad operare la scelta nel tracollo dei look e delle maschere (forse domani delle mascherine). In un attimo, lui diviene unico detentore delle regole, pianificatore di volti, solo giudice di quel separare il buono dal cattivo gusto. Per le art victim è chiaro che questa legge funziona come gli stupefacenti che si distribuiscono sotto i portici delle piazze e il trashporter è considerato come onnipotente e temuto ministro.
Voglia di apparire, scomunicarsi, scontrarsi, sfidarsi e disconoscersi. Allora, il volenteroso trashporter restituisce con le sue fotografie, mai stampabili se non in un album da Confidenze (feuilleton), immagini della contemporaneità della vittima metropolitana di turno. È il tecnico della società dello spettacolo, marker di tanti momenti in cui possiamo confessarci, ritrovarci e per un breve attimo raggrupparci sul puro piacere di guardare lo slogan (di Daniela Cignini) scritto a chiare lettere sul frontespizio del Libro delle Emulazioni: «La mimesi può produrre effetti devastanti». Una documentazione fotografica, eseguita con la strategia di chi provoca e sperimenta la cecità e l’occultamento e, evidenziando le relazioni tra cose e persone, si rende partecipe e affine a coloro che seguono le inaugurazioni legate al mondo dell’arte, come popolo della trasparenza. Nelle foto non c’è cattura del soggetto, ma una forma di autoritratto; anzi, c’è l’invito palese a guardare in macchina per essere guardato e specchiato dalla macchina: dalla verifica incerta all’autocompiacimento e dal populismo al checkup occulto. A farsi riprendere, a concedersi ci sono sempre dei soggetti anonimi e senza alcuna dimensione personale, che rischiano la condivisione della cecità. Sorprendentemente, il più delle volte, i protagonisti sorridono e, dunque, legittimano quel sorriso della Gioconda – trascritto sulle scatole dei biscotti – che attraverso le sale espositive, come un’enigma museal, si affacciano all’incanto degli allestimenti stroboscopici. Allo stesso modo, la strategia operativa che si incontra in questi click, dove barlumi d’ambiente e combinazioni di forme espressive si confondono sempre con la foto fatta per caso, riflette l’attenzione benevola, quasi premurosa, del trashporter per coloro che si rintracciano inquadrati nei suoi pixel. Nessuno vi è riportato, nessuno vi è apparentemente occultato, ma tutti sono tenuti a distanza dalla fotografia reale. Tutti amichevolmente collocati sullo stesso piano, sulla stessa sequenza piatta, sullo stesso storyboard di un documentario impossibile, sulla stessa strategia di assimilazione pubblicitaria.

Il trashporter di turno si avvicina alla fotografia in tenera età, come occupazione da lavoretto a tempo perso, presso uno studio fotografico per ricorrenze familiari. Si laurea in Strategia dell’Impresa e Artigianato fotografico e comincia la sua carriera di pubblicitario inizialmente presso enti pubblici e successivamente a Tauredine, presso un’Agenzia di Fuori Porta, dove lavora per 24 anni, prima come progettista, poi come “program manager” in numerosi progetti, legati soprattutto all’esplorazione delle strategie di affermazione dell’Opening People e alla realizzazione della Catena di Diffusione della Photo-FB. Poi, per sei anni, in qualità di Direttore dei Programmi di Strategia Pubblicitaria, lavora presso Trashspace, sempre del gruppo Photo-FB. Attualmente, il celebre trashporter è consulente per aziende di Diffusione della Pubblicità 5G e dell’estetica emulatoria nell’industria culturale delle piccole Province. Nonostante la scelta iniziale di fare l’impresario di pompe funebri, il valente trashporter ha sempre mantenuto viva la sua passione per la fotografia e da qualche anno, con una macchina fotografica (questa volta digitale) ha iniziato a certificare, a investigare, i volti dell’occulto nella sua città di adozione, Taurenide. L’immagine fotografica per il trashporter è “posa” populistica e gli autori, ovvero coloro che sono in grado di far nascere e far vivere gli eventi rappresentativi, le macchine dell’apparenza, si presentano come strumento per partecipare al movimento delle vernici, all’energia, all’espressione di un presenzialismo collettivo che forma lo spirito artistico di un’intera trashomachia.

Il bisogno di appartenere a un gruppo è tipico dei lavoratori precari, che desiderano identificarsi in un’apparenza Opening People. I consigli destati da una ormai lunga esperienza, che vengono raccolti nei portfolio denominati Opening People, sono più che sufficienti, crediamo, per mettere in grado i fruitori di divenire “nemici natura” di quei fotocrati che invalidano una percentuale molto alta di cattivissime riprese fotografiche. Sembrerà, quindi, inutile a molti che un altro capitoletto sia dedicato ai vari generi di fotofuffa, tanto più che il reporter di aneddotica, appena in possesso del suo apparecchio, è portato a fotografare ciò che egli stesso impone al suo obiettivo, senza preoccuparsi che un soggetto appartenga ad una storia, ad una umanità, ad una vita, più che a uno o ad un altro genere fotografico.

Pure qualche consiglio non sarà inopportuno, per risparmiarvi incertezze e delusioni, pur senza voler minimamente limitare l’iniziativa individuale di bella presenza e di apparizione alle vernici delle mostre di arti visive, per le quali il provetto trashporter applica la strategia dell’Opening People, guidato dal suo feticismo estetico e dal suo trucco-parrucco parossistico e personale, per poter raggiungere più facilmente la raccolta di istantanee leziose, anziché il raccoglitore dell’originalità umana. E, per cominciare, vorremmo consigliarvi di rivolgere i vostri tentativi a quel genere di fotografia che può meglio ricompensare i vostri sforzi, un genere dissonante come direbbe Rosi Braidotti: quelle dissonanze che separano la ricerca della differenza dalle mode fuffocratiche post-moderne della fotografia di reportage. Ma c’è dissonanza anche all’interno della filosofia della fotografia, dove le voci e le posizioni sono diverse all’interno di quel progetto politico e teorico, che punta alla valorizzazione della diversità a partire dall’affermazione della differenza. Inoltre, le esigenze della società tecnologica hanno portato a un’emarginazione della Kultur e alla diffusione di un sapere valorizzabile tecnicamente: le istituzioni fotocratiche e l’immaginocrazia guardano meno alla formazione di un abito critico, con visioni che siano all’altezza e che servano a vivere criticamente il presente e più, nella generale parcellizzazione dell’espositivo, alla formazione di un reporter aneddotico funzionale nell’efficienza del sistema turboliberista. Così, assieme al mercato, viene meno l’opinione pubblica (l’Opening People), destinata a trasformarsi in opening objects, in closing people, un’ipomoltitudine aneddotica: e così, tendono a scomparire i due pilastri del reattivo e dell’affermativo. Non solo, nella tendenziale scomparsa di questi due spazi, il potere politico, quello economico e quello morale-ideologico finiscono per concentrarsi nelle mani di una ristretta èlite di potere, la quale può esercirare tramite un riflesso speculare, nei confronti della libertà dei governanti, una molteplice forma di condizionamento che va dalla creazione giuridica vera e propria, alla pressione psicologica verso l’operatore fotografico, o al ricatto del posto di lavoro.
Il reporter aneddotico (o trashporter) vive in una sorta di eterno presente, che ignora il passato e disprezza il futuro. A forza di grattare abbiamo già vinto un Covid 19, un buco dell’ozono, adesso insieme ai reporter schiavi dell’egemonia trash stiamo per vincere la sostanza dell’icona lobotomica, scambiata in closing people. E se anche scattassero in pochi, vincono tutti (così come nel gratta e vinci). Il punto è che il closing people è una condizione sine qua non per la cialtroneria fotografica opening people; come la macchinetta digitale lo è per l’immagine occulta e opaca, così il closing people lo è per la forma fascista dell’assoluto iconico. E se ci pensiamo bene le restituzioni fotografiche di questi riscatti (opening people) sono una grande resistituzione di buchi neri, alla quale la pubblicità può solo contrapporre l’eccesso di nero, o una riproduzione infinita di merce e di pubblicità, ovvero il bianco fulminato. O, ancora, il tripudio del colore cieco. Se i giornali d’arte continueranno ad essere accompagnati da un’inutile e ingombrante colonna di emulazione dei social-media, i social-media restituiranno solo spazzatura più che spaziatura. Dobbiamo infastidirci? Il Closing People, come ho appena indicato, si abbandona sempre di più ad una deviazione generalizzata dei segni che impone. In altri termini, all’epoca in cui non è più proibito abbinare un gabinetto ad un ritratto opening, una stola di visone a scarpe da ginnastica, nessun segno è più aprioristicamente condannato; l’eleganza non è più all’interno dell’opening stesso, ma nell’affinamento sottile e fascista dell’in closing, della sua sintassi – o, più precisamente, della sua paratassi. Questo è senza dubbio il trash della fotografia di reportage (per i vernissage): non lascia posto se non a un’interpretazione al primo grado, quando la trashphotography non ha interesse se non a suscitare senza fine il gioco sottile degli equivoci, delle ambiguità, dell’occultamento e il vacillare delle interpretazioni.

Quando però si sfocia nel fanatismo iconografico la situazione diventa molto pericolosa! L’imitazione fotografica è un processo innato, che avviene sin dal primo click per raggiungere i modelli con i quali ci si è identificati. Se però la mimesi si trasforma in emulazione diventa “pericolosa” e negativa, portando a compiere, spesso in nome della religione fotografica del mezzo e sul mezzo, atti criminosi? Il processo imitativo nel fotografo dilettante è innato. L’imitazione serve al fotografo a imparare il linguaggio e a evolversi nel processo di crescita iconografica o iconocratica: l’imitazione è promossa dal processo d’identificazione con il culto del medium, cioè da quel processo psicologico per cui alcune figure dominanti dell’industria tecnologica, come le macchine fotografiche per le macchine fotografiche, sono innalzate a modello autoreferenziale. Di conseguenza, il fotofuffologo si rispecchia nelle figure emulate per poterle raggiungere e diventare il più possibile come quei modelli, con i quali s’identifica e anche idealizza la pratica e l’affermazione del suo lavoro. Già prima della nascita a livello sensoriale, e per il resto dell’evoluzione della pratica dilettante, gli infiniti incontri con le persone producono esperienze emotive che, entro i primi vent’anni della pratica da fuffologo, si sintetizzano in alcune voci interiori che suggeriscono al direttore artistico, che chiamiamo Ego, possibili commenti del mondo esterno. Creano cioè il vissuto con il quale il fotofuffologo sperimenta ciò che è fuori da Sé. L’Ego – fotografico aggiungo io – dovrebbe essere padrone in casa propria, diceva Freud, ma l’istanza psichica non può evitare di lasciarsi influenzare dai personaggi che producono direzioni psichiche, etiche e comportamentali che sono uniche in tutte le persone, il cui carattere e personalità sono assai individuali.
Tale compito percettivo, negli ultimi anni, è stato reso più complesso dalla presenza dei social network e di internet. Sul web, infatti, si intensifica l’impatto che gli altri hanno sulla nostra autostima e, al contempo, per molti fotofuffologi o trashporter, questi strumenti rappresentano l’unico specchio nel quale riflettersi. I fotofuffologi maggiormente a rischio di comportamenti autolesivi, infatti, sono spesso precari isolati, abbandonati a se stessi, senza un’adeguata vita professionale, introversi, con una bassa autostima, spesso anche vittime di precarismo e soliti a passare gran parte del proprio tempo sul web, dove la linea tra ciò che è virtuale e ciò che è la realtà si assottiglia enormemente. Ed è proprio sul web che tali fotofuffologi spostano il loro bisogno di accettazione e conferma, esibendo i loro progetti di attenzione verso un concetto di immagine del popolo, dove però il popolo non c’è, non si sa cosa può essere e se invece non è stato scambiato con una forma di populismo, proviciale e trash. Il rischio, quindi, è che – non avendo essi ancora maturato una sufficiente capacità di giudizio critico, con cui valutare i contenuti e le relazioni amicali virtuali, e non credendo effettivamente in un’umanesimo fotografico – si finisca per falsificare gli obiettivi e che la loro psiche venga influenzata a tal punto da condizionare anche le loro azioni e pensieri. A volte i fotofuffologi capitano “accidentalmente” su contenuti che favoriscono tali azioni, sentendosi poi incuriositi dalla pelle delle apparenze, perché alla ricerca di un modo per gestire ed esprimere le proprie emulazioni e la propria mimesi. Altre volte, invece, fotofuffe aventi già intenzioni autolesive cercano volontariamente blog, community e video dedicati, per confrontarsi con qualcuno che “li capisce”, che vive la loro stessa problematica e che li accetti, senza giudicarli come strani o disturbati. Ma per questa strada finiscono per identificarsi con la storia o il tono emulativo degli altri, in un’ottica di rinforzamento e rispecchiamento reciproco del trash quotidiano. È in tal punto che, a mio avviso, si può trovare un alto rischio di emulazione e imitazione, in quanto, in tal modo, i comportamenti opening people possono essere considerati come l’unica strategia utile per far fronte alla propria trashizzazione del mondo, al proprio processo di imitazione dell’Altro.

Sul web e sui social, inoltre, sono sorti numerosi contenuti “opening people” su come farsi mimetici ed emulativi, frequentemente nascosti – nello svelamento – tramite hashtag fuorvianti. Come evidenzia il fotografo desideroso di Opening People, non si può comunque ritenere che il web sia il reale responsabile di tali condotte.
Le cause, infatti, sarebbero plurideterminate e comprenderebbero, oltre alla “spinta sociale online”, anche le caratteristiche di emulatori diffusi, oltre che la presenza di eventi stressanti o di disturbi mimetici. L’ultimo colpo gliel’ha dato il Covid-19, ne ha dichiarato la sostituibilità. La fotografia Opening People è l’ultimo baluardo dell’ipocrisia «open-popperiana», della società neo-liberista in un mondo di mobilità che improvvisamente passa all’inerzia; la certificazione assoluta che in quel posto non ci siamo mai andati e forse c’è stato solo il fotografo, il ribaltatore di realtà, il «menzognero par exellence», quello che ci ha fatto credere che forse quel posto sarebbe potuto essere veramente, quel posto, era una forma di comunicazione fuffata quasi come la promessa di matrimonio o quella del governo di aiutare i più poveri e poi invece condannarli all’abisso dell’inverosimile liquidità esistenziale. Nella fotografia Opening People viene dichiarato immediatamente chi scatta e chi si è fatto scattare. Il soggetto non è lo scatto, ma l’immagine. È un giano bifronte dell’ambiguità più estrema di cui il lato più importante è l’immagine stessa; l’icona salvifica che transita su FB, l’identikit di un soggetto fuffato, invisibile a se stesso e agli altri, di un luogo che è senza luogo, di un “papier” che è “sans papier”, della geografia di un opportunismo che meschinamente rappresenta solo la traccia del proprio opportunismo. Ma non solo. Come Edward Steichen amava rappresentare Greta Garbo alle diverse ore del giorno, anche il trashporter di turno rappresenta i personaggi delle inaugurazioni: i frequentatori delle vernici, i procastinatori di quelli che “hanno nostalgia anche di un minuto fa”, degli opportunisti della prossima strategia espositiva, degli improvvisatori, delle madamine e delle groupie. Le foto del trashporter delle inaugurazioni, ad esempio, non vogliono apparire come “soli documenti”, ma si presentano avvenenti, giustificative come un tramonto inacidito, algide come sculture di marzapane, introverse come un film firmato dal decadentismo di Elio Luxardo, drammatiche come le illustrazioni dei corridoi del Collocamento, dolci come il bancone di una nota gelateria taurina. In un certo senso tutti vediamo le stesse menzogne dell’Opening People, ma ognuno di noi sceglie una equivocità, un’ambiguità diversa, o un diverso stato d’animo in rapporto alla persona di FB, a cui vogliamo spedirla. Non si spiegherebbe altrimenti, perché l’atto della sparzione dell’Opening People su FB o magari nel fotolibro (forzato), con le caratteristiche del portfolio del trash, sia così dolorosamente lento e il cartaceo che le contiene sia passato metodicamente al setaccio dei rapporti occulti e mafiosi. È un po’ come andare ad una degustazione di dolci inesistenti, dove ognuno con la sua brava attenzione per l’immagine fotografica sceglie minuziosamente l’algoritmo della somiglianza, l’icona del cannoncino alla crema, l’indicazione visiva della zuppa inglese, una torta di riso, una alle mandorle, per poi creare l’imbarazzo di due persone che vorrebbero lo stesso “niente”.

La falsificazione dell’evento della persona, no. La simulazione della verità fotografica dell’Opening People arriva ad personam e nessuno può smettere di vedere o distrarsi dal vedere quella spedita e rafforzata dall’altro. È un messaggio personale, personalizzato e generalizzato, è una fuffa individuale e collettiva, una finta apertura (come il liberismo) individuale e colletivo. E come tutti i messaggi è segmentabile nel simulacro della persona, rispondendo sia al target della foto pubblicitaria, che a quello più goliardico-fascista dei GUF. Dalla finta foto in group show su parte bianca, che evidenzia il groupismo della congrega delle cercatrici della nuova chat su cui accodarsi e con cui legittimare nuove strategie liberiste al nudo volgare, con tanto di frasi impertinenti. Un corollario di nuovi gusti fascisti e culture tardo-littoriali che formano un caleidoscopio di sovranismo più simulato che dichiarato, più sincero che costruito. È vero: tutti abbiamo ricevuto dei saluti da quei click presentatisi impertinenti, durante il rally dell’opening people, qualche volta ci hanno fatto dissuadere ingoiando conati di vomito, ma nessuno è rimasto commosso come quelle groupie che alle soglie della mezz’età hanno ancora bisogno di simulare un mestiere, di costruirsi un futuro e magari imparare a scattare qualche foto per cercare di sbarcare il lunario, facendo le gregarie della catastrofe economica neo-liberista, o dell’esercito indutriale di riserva social-pecoreccio.
La fotografia dell’Opening People, il residuo delle vernici, l’icona di ciò che rimane del sistema dell’arte alla indomani della catastrofe Covid-19, rappresenta una strategia dedicata a delle persone immobili, che non possono più viaggiare, o un target ipnotizzato da uno strumento di comunicazione trasformatosi in elettrodomestico, che riceve un’attenzione speciale fatta di un luogo e di un commento. Una «macchinetta-espresso» che prima si basava su iconografie analogiche banali e adesso su banalità algoritmiche sfuggenti e digitali, rovistando nel capolavoro sempre, necessariamente, più formale del primo, per l’emulazione del trash-originario. “Qui tutto bene, fa molto cenere, dovresti vedere su FB, salutoni”: si scrive su Messenger. No, giovani e tardoni non si spediscono più foto di vernissage perché hanno già varcato il cancello dell’immaterialità FB, fatta di istantaneità, di velocità di luce, di megabite, di jpeg, di sms, di wetrasfert, di opening people, immagini invisibili, persone invisibili, esposizioni di vuoti, figurazione del distanziamento sociale. L’immagine del fotolibro, invece, arriva in ritardo, quando tutti sono già estinti, scaduti come il latte e ciancicati più della mastoplastica o di una qualsiasi altra correzione chirurgica. L’immagine Opening People arriva senza la priorità della pasta analogica, senza il mistero della raccomandata, senza la prosopopea delle offerte speciali, come una pura fuffa che accetta lo stato delle cose, come esercito di riserva della gendarmeria, lasciando un completo laissez faire, laissez passer … Arriva che non la devi nemmeno aprire, basta girarla appena da un profilo all’altro, da una menzogna iconica ad altra menzogna pubblicitaria. Consapevole che non sarà nascosta come la foto da cartolina, o riaperta mille volte come la foto di un amato colpito dall’occultamento. È nata per essere solubile, brivido di una storia che fu, di un occhio fotografico che ha colto l’attimo del niente, conseguenza dell’ortodossia, vicissitudine della libertà misurata dal conto in banca e dal protezionismo delle aziende che la producono a più alto costo e con maggiori qualità, o a più basso costo e con migliori probabilità di morire. L’Opening People è il frammento di un’idea di “residuo visivo” che fu. Una particella di icona assassina che consta di un attimo e vale molto meno, relegato tra gli ultimi algoritmi di FB, sulle sponde di pochi like e deludenti emoticon; specialmente in un tempo come il nostro, dove conosciamo il prezzo di tutto e il valore di niente. Insidiosa fotografia da museal, rimani dove sei che a partire – fra un attimo – ci pensa il web. La nuova tecnologia non ti ha sostituito, ma ha sostituito la macchina con la macchina, il digitale ti ha mandato in pensione, col ricorso del cybertrash: «Scattaci pure e poi: “addio mia bella, addio”».
Non c’è bellezza senza abolizione della maschera, né perfezione che non cada in barbarie senza il rilievo dell’arte: e vi assicuro che l’opportunismo opening people, non ha niente dell’arte. Un niente che appartiene sia al trashporter, che alla finta madonnina spaesata che gli fa da soggetto. Perché nella strategia del closing people, le cose non passano per quello che sono o dovrebbero essere, ma per quello che appaiono sui social e nell’immagine falsa e bugiarda di una cattiva medialità.