In mostra una serie di dipinti realizzati negli ultimi due anni, contraddistinti da scenari intricati e rarefatti, che esprimono la gentilezza e la tenacia del fare pittorico attraverso l’indagine e la ricostruzione del gesto della carezza.
Francesca Interlenghi: Vorrei partire dal tema dell’oleandro, che è quello intorno al quale si è sviluppato il corpus di opere che compongono la mostra. Come è avvenuto questo incontro?
Andrea Martinucci: L’incontro con l’oleandro è stato del tutto accidentale. Né io ho cercato lui, né lui ha cercato me. Si potrebbe dire che in qualche modo ci siamo trovati. A Milano, dove sono tornato dopo due anni trascorsi quasi da nomade tra Firenze, Napoli e Roma, passavo molto tempo da solo. Cosa insolita per me che sono sempre stato abituato a una dimensione comunitaria del lavoro. Un giorno, casualmente, mentre fumavo, la mia attenzione è caduta su un arbusto altissimo, al cospetto del quale mi sono sentito piccolissimo. Ho iniziato a guardarlo e a mettermi in ascolto, a staccare le sue foglie, a giocarci, a tenerle in studio per vederne l’evoluzione. Ho chiesto al mio corpo, coerentemente con la mia ricerca che seppur pittorica ha un valore quasi perfomativo, di rispettare questo ascolto e di pensare ad un unico soggetto: le foglie dell’oleandro appunto. Frammenti, parti del passato che non sono io a cercare ma che riemergono, e che poi sviluppo attraverso composizioni ricche di strappi realizzati con il cartone e questa sorta di stencil, che rielaboro di nuovo graffiando il colore, sono alla base della mia pratica. Non un lavoro di archeologia ma piuttosto di stratificazione.
FI: Dici di aver voluto ricostruire, attraverso queste opere, attraverso infiniti movimenti, il gesto della carezza. Come si è tradotta questa intenzione?
AM: Parlo di carezza perché, nel mio lavoro, cerco sempre di fidarmi delle intuizioni. E così è nata questa mostra, in maniera intuitiva, di pancia si potrebbe dire. Ho messo a disposizione il mio sapere pittorico per andare oltre la categoria del “giusto”. Non era il “giusto” che andavo cercando in questo progetto. Piuttosto mi interessava sorprendermi io stesso attraverso quello che la continua ripetizione del gesto produceva. Un lavoro quotidiano, paziente e tenace, io con me stesso. E tutto il resto, il contesto della città, escluso. Non ero io che volevo sorprendere l’opera, ma ero io in ascolto dell’opera. Un processo inverso rispetto al mio progetto precedente “JPEG”, nel quale svelavo le immagini negandole. Qui invece mi piaceva l’idea che il gesto, ma anche i soggetti stessi, questa raffigurazione molto chiara e definita alla quale tendo sempre, mi stupissero. Piccole epifanie quotidiane, che andavano di pari passo con la scoperta e la progressiva conoscenza dell’oleandro.
FI: Rilevo una dimensione fisica indissolubilmente connessa alla tua pittura. Oltre al gesto della carezza, dici addirittura di voler abbracciare le opere. Come se nel tuo lavoro esistesse uno spazio corporeo in stretto, strettissimo accordo, con quello pittorico.
AM: Una cosa che fin da bambino mi ha sempre emozionato della pittura è il fatto di riconoscere nella pennellata il momento preciso in cui l’artista ha compiuto il gesto. E’ sempre un processo di trasformazione. Lo è anche la carezza, che non è qui tanto il titolo della mostra quanto piuttosto la definizione di questa ricerca che non considero chiusa, nella misura in cui non sono riuscito a definirla. E’ un continuo processo di trasformazione nel quale mi piace essere accompagnato e accompagnare le opere stesse. Tutto ciò che io posso fare è problematicizzare quello che mi circonda, quello che sento, i miei pensieri, quello che accade nel mondo. Non dare per scontato la relazione tra me e la superficie pittorica. L’idea del corpo, della mani, della gestualità, la distanza tra me e il quadro, sono tutte componenti che concorrono alla formazione dell’opera. Il pennello, il colore, la superficie e la mia mano: come stanno in relazione questi quattro elementi? Perché di là della bidimensionalità pittorica ci sono il luogo, l’atmosfera, l’aria, la città, che entrano all’interno di uno spazio definito.
FI: Parlando di spazio definito, so che la questione della cornice è stata frequentemente al centro delle tue riflessioni. Anche in questa mostra, il titolo “Le Bussanti”, con il quale apostrofi il primo ciclo di lavori, fa riferimento proprio alla questione della cornice. Me ne puoi parlare?
AM: Le cornici che, a contatto tra loro, o mentre le spostavo – perché tendo a nascondere i quadri dato che non riesco a procedere vedendo sempre le stesse cose – generavano dei suoni, facevano da sfondo alle mie giornate silenziose, di lavoro in studio. Mi piaceva il nome “Bussanti” perché queste foglie che dipingevo, e che mi ricordavano delle mani chiuse dentro la cornice, sembravano voler bussare. E’ sempre stato per me un po’ problematico dovermi confrontare con un perimetro chiuso, con i quattro margini della tela. Sicché in questa occasione ho quasi voluto sublimare la superficie lignea, considerandola più come qualcosa che contiene, qualcosa di materno.
FI: Attesa e stupore, che sono i due grandi temi intorno ai quali ruota il progetto espositivo, riaffiorano anche nell’allestimento.
AM: Per me che mi occupo di pittura, video e scrittura, l’attesa è qualcosa di fondamentale e la accolgo sempre. Tra l’altro negli ultimi due anni siamo entrati così prepotentemente in relazione con essa che non è stato possibile escluderla. L’idea dell’attesa, dello scarto, del margine, essere a sinistra delle cose anche nell’allestimento. Una sequenzialità che rimanda anche all’idea dei soggetti più fragili. Talvolta, le foglie che cadono possono essere le più preziose. L’intento era quello di far respirare anche lo spazio della galleria e prendersi cura e accompagnare lo spettatore in questo spazio aperto, con gentilezza. Non ho voluto disporre nulla al centro delle pareti per abituare l’occhio a una diversa prospettiva. Così come ho preso in considerazione il punto di vista dei bambini, posizionando alcune opere alla loro altezza. Perché a me, da bambino, nessuno ha mai parlato delle cose velenose.
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Andrea Martinucci | CAREZZE
Renata Fabbri arte contemporanea | Milano, Via A. Stoppani, 15/c
Fino al 28 maggio 2022
La mostra è accompagnata da una pubblicazione prodotta dalla galleria Renata Fabbri arte contemporanea con testi di Beatrice Favaretto, Damiano Giuli, Manuela Pacella e una lettera di Andrea Martinucci.