L’arte è mala vida

Se “Andrà tutto bene”, quale futuro dobbiamo aspettarci nel mondo dell’arte? Dario Orphee La Mendola apre il dibattito

Tú me estás dando mala vida
Yo pronto me voy a escapar
Gitana mía por lo menos date cuenta
Gitana mía, por favor, no me dejas ni respirar
Tú me estás dando mala vida

Mano Negra

In giro non ho più visto quei celebri manifestini riportanti la frase “Andrà tutto bene”, aggraziati da un arcobaleno a pastelli. Li ho incontrati fino a tarda primavera, ovunque, appesi sulle ringhiere dei balconi, affissi sulle porte a vetri, attaccati tra i cessi degli autogrill ecc. In un certo modo davano l’illusione che il Covid non fosse l’apocalisse quale s’è dimostrato essere, ma uno di quei tanti orrori umanitari, parecchio oscuri, da edulcorare e dimenticare nel giro di pochi mesi; come sempre abbiamo fatto, insomma, dai greci a oggi.

Mi ci ero affezionato a quei manifestini, malgrado li trovassi oltraggiosi, ingiuriosi, beceri. Mi ci ero affezionato perché quell’immagine, spesso illustrata su un lenzuolo o su un foglio A4, credo rappresenti tutta la falsità del periodo storico “think positive” in cui viviamo. La frase aveva un verbo declinato al futuro, i colori a dargli dignità, la tenerezza del tratto infantile, e tanto bla bla bla. Forse la migliore opera d’arte contemporanea di questi ultimi trent’anni. E lo dico esagerando appositamente, ridicolmente, retoricamente. Ah ecco, per l’appunto: l’arte. Qualcuno sa che fine abbia fatto? 

Ho atteso tanto, prima di riprendere a scrivere queste righe. Le ultime risalgono a quel bellissimo e iconico Segno “n. 277”, uscito eccezionalmente in formato PDF, in piena pandemia. Ricordo che le migliori firme della rivista, in quel numero, avevano avanzato delle riflessioni sul rapporto tra arte e Covid, e tra quest’ultimo e le sue conseguenze nelle nostre vite, mettendo l’arte in mezzo, e non nelle vesti di una Barbie da collezionare o da ammirare, ma circa le sue qualità ontologiche (mizzica, che parolone!). Il senso di quella pubblicazione apparirà più chiaro tra un paio d’anni, e cioè quando l’allucinazione di massa data dal virus – me lo auguro – ci darà tregua. 

Quest’estate, un po’ come il Covid, me ne sono andato in vacanza (vabbè, per dire, eh!). Ho scritto poco, ho visto poca arte e mi sono fatto i fatti miei; e tutto nel raggio di un paio di chilometri. Una pausa lunga, solinga, noiosissima e caldissima, che probabilmente non troverà perdono né in chi contribuisce e dirige la rivista, né tra quei miei cari affezionati tre, quattro lettori sparsi in tutta Italia (in mia difesa desidererei confessare a costoro che, non chiamandomi Scanzi o Tosa, a volte mi dedico a un po’ di rigenerante silenzio). 

La ragione per la quale ritorno a scrivere ha la sua radice nell’ultimo ed ennesimo dippicciemme, quello che ha diviso in aree cromatiche differenti un’Italia che mai è stata realmente unita*. Questo decreto, per contrastare la maledetta pandemia, tra le tante disposizioni obbliga in particolare ai luoghi espositivi, chiamasi gallerie o musei, di chiudere ed evitare così il contagio. Su quanto indicato dal decreto non mi esprimo. Ma sì, mi esprimo: credo sia una scelta giusta e sbagliata allo stesso tempo. È su quanto indicato da me come giusto e sbagliato in modo anti-aristotelico, invece, che preferirei non argomentare. 

L’unica argomentazione che mi concedo è la seguente. Da un paio di settimane ho una domanda fissa in mente, che non mi abbandona, e che riguarda il principale compito dell’arte, un compito che a partire da questo terribile 2020 è stato soffocato, negato, escluso. Mi riferisco all’atto pedagogico-narrativo che la rappresentazione artistica ha assunto in sé fin da quando, sulle pareti delle grotte, un angelico uomo (che maleducatamente identifichiamo “primitivo”) ha deciso di dar forma ai suoi deliri attraverso scene di caccia, donne ignude e falli eretti. 

La mia domanda è semplice. Procedo lentamente, con delle banali implicazioni logiche. Se, praticando l’arte, siamo arrivati al Terzo Millennio per miracolo, riducendoci in questo pessimo stato, con una confusione intellettiva e morale senza precedenti, in cui l’economia e i suoi paradigmi hanno preso il posto della Lebenswelt e del vero sapere; se, nonostante l’arte, il grado più alto dell’evoluzione umana è stato unicamente reggere e leccare il fondello al potere; se, da eterna e originaria unione di natura, storia, vita e pensiero**, l’arte è stata trasformata in passatempo per borghesi e in banane appiccicate al muro grazie allo scotch; se con l’attività dell’arte, piuttosto che crescere, abbiamo effettuato un regresso, allora cosa ne sarà del genere umano, della nostra più intima biologia, adesso che quell’atto pedagogico-narrativo di cui in precedenza parlavo è separato da noi e dall’esperienza pubblica e diretta? 

Detto altrimenti: adesso che la narrazione della realtà, e quindi la sua fruizione “popolare” mediata artisticamente, è totalmente affidata ai tour virtuali, ai tutorial e gli sfoghi strampalati dei vari art-influencer, agli shitposting di Bansky scambiati dal grande pubblico per grandi opere, al pop che si fa filosofia, e poi alle dirette di artisti e critici su Facebook, all’ipnosi delle serie tv on demand, al non riuscire più a distinguere tra spettacolo e sapere… ecco, adesso che le cose stanno così, quale futuro dobbiamo aspettarci? 

Non ho la risposta. O almeno non ce l’ho in questo momento. Perché sono confuso. E mi addolora pensare (non solo metaforicamente) che i luoghi deputati a contenere l’arte, ieri considerati contenitori culturali, oggi si sono trasformati in postacci insalubri. Chissà che idea di esistenza abbiamo maturato, dunque; chissà se la cultura che abbiamo prodotto è essa stessa la causa del castigo che stiamo vivendo. Arte mia, por favor, no me dejas ni respirar, mi corazón está sufriendo, tú me estás dando mala vida. 


*W. Barberis, Il bisogno di patria, Einaudi. 
**Come avrebbe detto l’amico mio Schelling.

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.