L’aporia dell’atopia

Un nuovo brano proposto da Björk si intitola Atopos. Il testo allude a un intricato rapporto amoroso; l’uso della parola atopos risulta perciò alquanto appropriato, come rinvio allo stato d’animo di chi si innamora e/o di chi si interroga su un amore forse in crisi. Il termine ha una storia illustre.

Nel caso del brano di Björk, a quanto pare la fonte diretta del suo utilizzo è il testo di Roland Barthes Frammenti di un discorso amoroso. In quel libro l’approssimarsi al senso della nozione inizia così: “Il soggetto amoroso riconosce l’essere amato come atopos (qualifica attribuita a Socrate dai suoi interlocutori), cioè inclassificabile, dotato di un’originalità sempre imprevedibile […]. Essendo atopico, l’altro fa tremare il linguaggio: non si può parlare di lui, su lui; qualsiasi attributo è falso, doloroso, goffo, imbarazzante: l’altro è inqualificabile (e questo sarebbe il vero significato di atopos)”.

Non mi interessa qui ragionare sul brano di Björk. Noto invece il radicamento della nozione di atopia in un contesto che senza dubbio la poliedrica cantante islandese conosce, ovvero quello di una specifica interpretazione della “natura” e dei “doveri” (perfino…) dell’arte. (Ricorderò soltanto, qui, che Björk è stata a lungo compagna di Matthew Barney, e peraltro appare nel suo film Drawing Restraint 9 del 2005). 

L’interpretazione dell’arte a cui alludo caratterizzò gli ultimi decenni del Ventesimo Secolo. È ancora un’interpretazione esistente, o addirittura egemone?

Provando a delinearne le peculiarità, potremmo utilmente metterla a confronto con un’altra, in effetti opposta. Per millenni l’arte è stata ovviamente la produzione di qualcosa (immagini, narrazioni, sequenze sonore, ecc.) in cui era possibile riconoscersi, per sentirsi parte di una comunità di cui si condividevano convinzioni e valori. L’arte proponeva un “sentirsi a casa”. (Il versante oscuro di questa arte “immunizzata” consisteva nel diniego della legittimità di altre espressioni artistiche, “straniere” e di conseguenza ritenute errate o drasticamente non artistiche. Una novità essenziale dell’arte contemporanea fu la sospensione di quell’immunizzazione, ovvero il supporre la nuova arte come connessa a una comunità che in linea di principio si immaginava come costituita dall’intera umanità). 

Il riconoscimento mediante l’arte spesso si connetteva al suo carattere religioso; in situazioni laiche, emergeva il culto della Bellezza artistica: cos’è la Bellezza, se non appunto un sentirsi situati, un percepirsi a proprio “agio”, eventualmente mediante un iniziale spaesamento? (L’“agio”. Scrive Agamben: “agio nomina perfettamente quel ‘libero uso del proprio’ che, secondo un’espressione di Hölderlin, è ‘il compito più difficile’”).

Ma alla costellazione interpretativa a cui ho appena alluso, nel Novecento se ne sostituì un’altra: l’arte deve essere spiazzante, deve turbare, deve includere in sé la contraddizione. Per etichettare questa nuova interpretazione, spesso si usò il termine sublime. All’accordo sottinteso nella nozione di Bellezza (il sentirsi situati, parte di una comunità) si sostituì il richiamo all’angoscia, al senso di sconfitta, al sentirsi fuori posto se non esiliati, indicando tale radicale spaesamento appunto come sublime.

La storia culturale di tale cambiamento di paradigma è assai lunga; qui mi limito a ricordare quanto fosse presente o almeno avvertibile in molte poetiche avanguardiste e nelle strutturazioni propriamente filosofiche che le supportavano. D’altra parte, l’emergere di questa negatività era uno dei capi d’accusa (se non il principale) addotti da molti “nemici dell’arte contemporanea”, ad esempio Hans Sedlmayr.

L’egemonia del termine sublime non impedì però un certo qual uso (sia pure minoritario) della nozione assai diversa di atopia. Diversa, eppure in molti sensi convergente. L’esempio più esplicito fu probabilmente un’argomentazione di Franco Rella. Interpretando un sentire comune in quegli anni, Rella distinse due tipologie di opera: “opera Kitsch, che si pone come una ‘casa’ per il suo fruitore, casa entro la quale egli si sente protetto e confortato nelle sue ideologie, grandi o piccole che siano [allusione alla fine dei “meta racconti” teorizzata da Jean-François Lyotard; G.F.]. e opera ‘atopica’, che ci desitua nel dappertutto di un’esperienza del mondo, che ci spinge al di là dei nostri confini, al di là dei confini consueti”.

Risultava difficile, in quegli periodo, dissentire dalla contrapposizione. La salvezza dal mero accontentarsi delle richieste del sistema dell’arte appariva appunto la ricerca di un’indefinibilità, uno scostamento perpetuo, la produzione di atopie e, più ancora, la ricerca di un’attitudine atopica. Infatti non era in questione solo l’opera d’arte, bensì un modo di essere al mondo. Del resto la nozione di atopia si presta meglio di quella di sublime a descrivere qualcosa come una finalità, un programma esistenziale. La sintesi di quel “dover essere” può cogliersi nel Discorso di Stanford (2005), in cui Steve Jobs pronuncia la celebre sentenza: “Stay hungry, stay foolish”. Provo a parafrasarla: “Cambiate, cambiate senza sosta; siate inafferrabili”. Imprevedibili, non classificabili. Atopici.

L’ingiunzione di Jobs concentra in uno slogan l’universalizzarsi del modello comportamentale che gli artisti hanno elaborato e che allo stesso tempo hanno accettato che si elaborasse per loro. “Cambiate, cambiate senza sosta; fate sempre nuove esperienze”. Ma fatelo anche se non siete artisti. Anche se siete persone qualunque. Tuttavia, non è già atopica la complessità del mondo, se non la sua caoticità? E il porsi come ibridi sfuggenti e inclassificabili non è già, da decenni, l’obbligo di tutti i Singoli, costretti a confrontarsi col double bind culturale: “devi essere speciale – ma non puoi essere speciale”? 

Il richiamo all’atopia può dunque avere un duplice significato. Forse si innerva in entrambi, come un’aporia. Da un lato, c’è il richiamo all’autenticità della propria soggettivazione, all’essere individuali fino all’inclassificabilità; dall’altro, c’è la constatazione di quanto si sia “massificati nell’estrema diversificazione”, per così dire, di quanto si sia ben poco o quasi nulla nella baraonda sempre diversa (cioè uguale…) della vita-mashup.

Delineare un percorso per l’atopia nel primo significato (ovvero per costruire una propria autenticità, avulsa dalle mere “classificazioni”) è certamente un compito assai difficile, nella latente disperazione connessa al capovolgimento “spettrale” del “non sentirsi a proprio agio nella propria casa” (lo “strano”, weird e eerie,) di cui parlava Mark Fisher, nel trionfo del “nuovo spirito del capitalismo” scandagliato da Luc Boltanski.

È un compito improbo. Tuttavia, noterò che in un certo senso (pur senza nominare l’atopia) alcuni giovani pensatori sembrano porsi la questione etico-estetico a cui ho appena accennato. Forse qualcosa del genere vanno chiedendosi ad esempio (cito solo tre italiani) Raffaele Alberto Ventura indagando la fenomenologia della “classe disagiata”, Leonardo Caffo suggerendo vie “di fuga”, Federico Campagna contrapponendo tecnica e “magia”. 

Una piccola enorme domanda risuona insomma, come un sommesso frastuono, nel titolo del brano di Björk (ma in effetti rumoreggia in tutto ciò che di recente ho definito “apocalisse estetica”): come affrontare l’aporia dell’atopia?

Nota
Le due citazioni di Roland Barthes sono tratte da Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, p. 38 e p. 39.
La citazione sull’“agio” è tratta da Giorgio Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, p. 19. 
La citazione di Rella è tratta dal catalogo della mostra Luoghi dell’atopia, a cura di Marisa Vescovo,
maggio – giugno 1987, Palazzetto Eucherio Sanvitale – Parco Ducale, Parma, p. 42.
Cfr. Hans Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli XIX e XX come sintomo e simbolo di un’epoca, Rusconi, Milano 1975.
Sulla fine dei “meta racconti” cfr. Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981; Id., Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987. 
Per le nozioni di “apocalisse estetica” e “vita-mashup” cfr. il mio Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet, Macerata 2022.
Cfr. Mark Fisher, The weird and the eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma 2018; Id., Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma 2019; Luc Boltanski – Ève Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.