Entro il 2020 diventerà prassi indossare in pubblico
mascherine chirurgiche e guanti di gomma
a causa di una epidemia.
Sylvia Browne, Profezie
Nei giorni scorsi sono stato letteralmente “mitragliato” da quotidiani e da messaggi Whatsapp che, molto entusiasticamente, mi informavano di una lista di musei in cui sarebbe possibile effettuare dei bellissimi e realistici tour virtuali.
Con l’ironia e il sospetto che mi appartengono, mi sono scioccamemte convinto che questa trovata della lista fosse un “rinforzino”* venuto in soccorso all’hashtag #iorestoacasa, dimostratosi poco funzionale nonostante il vigore mascolino donato dalla fermezza del cancelletto. Se ci siamo chiesti perché l’hashtag non ha funzionato, o almeno perché non ha funzionato all’inizio, be’, ho un teoria a riguardo. In realtà è un’illazione, una mia illazione, non una teoria.
Ecco, ritengo che la comunicazione non sia qualcosa di lineare, come gli esperti illustrano nei loro manuali. Comunicare, a mio avviso, significa dire e capire le informazioni più probabili che il mittente e il ricevente vogliono o possono accogliere; sì, le informazioni più probabili, non quelle più importanti, non quelle che dovrebbero davvero condividere.
Il mittente che confeziona appositamente o meno un messaggio, qualsiasi sia la forma, e indipendentemente che esso sia un uomo, un gatto, un cactus o un alieno, ha un ruolo altamente rischioso. E il ricevente si trova in questo rischio, con tutte le scarpe e col compito di dimostrare e applicare la validità del messaggio ricevuto. Quali sono le possibili alternative? Nient’altro che il silenzio. Una frittata di parole in silenzio. C’è una poesia di Andrea Zanzotto che erigerei a summa di tutte le teorie sulla comunicazione:
Siccome un bel tacer non fu mai scritto
un bello scritto non fu mai tacere.
In ogni caso si forma un conflitto
al quale non si può soprassedere.
Delll’ossimoro fatta la frittata
– tale fu la richiesta truffaldina –
si diè iniziò a una torbida abbuffata
del pro e del contro in allegra manfrina.
Sì parola, sì silenzio: infine assenzio.
Quel #iorestoacasa – cui ovviamente mi associo e rilancio – nei giorni scorsi ha assunto i caratteri dello slogan; una sorta di enunciato di facile memorizzazione, che nel mondo dei media contemporanei, purtroppo, si traduce in frasi composte di poche parole, male articolate, che per mezzo di una osmosi virtuale accentuano il trasferimento di un’informazione complessa.
Vabbè, ritorniamo alla lista dei musei. Ad oggi, lo confesso, non ho ancora effettuato nessun tour virtuale in nessun museo. Ai musei, se mi va di andarci, se mi va, ci vado con il mio corpo. Se non posso andarci col mio corpo, mi trattengo. Se non posso più trattenermi, apro un libro di giardinaggio e mi “sparo” un pacco di patatine. Ho invece visitato parecchi erbari online. Ma non è questo il punto.
Il punto è che osservare quei link bluastri sullo schermo dello smartphone, che mi avrebbero indirizzato ai relativi siti internet, mi ha messo un po’ di inquietudine. Ho pensato infatti: come può questa strana e illeggibile sequenza di lettere e numeri, ruttata da un “http://”, collegarmi alla sacralità (vabbè, esagero appositamente) di un luogo in cui dimorano le protettrici delle arti? Oh, che le muse possano aver pietà di noi!, ho urlato nel silenzio della mia stanza.
Forse è stato l’eccessivo l’urlo, o forse l’eccessivo silenzio… tuttavia una risposta è arrivata: quei link, altra mia illazione, sono la formula più eccelsa del mutamento radicale dell’arte e del suo sistema dentro il regime del virus (spero di sbagliarmi!).
Un mutamento veloce, improvviso. Un disarmante “puff!” (suono onomatopeico che nei fumetti simula un corpo che cade o il motore di un’automobile che, danneggiandosi, emette l’ultimo sbuffo), un disarmante “click”. E ovviamente anche un mutameto forzato, che è entrato nella scena storica per merito o demerito di una cosa che si chiama Covid-19, una cosa acellulare che ha ucciso migliaia di gente innocente e di cui sappiamo praticamente zero. Una cosa che sta trasformando l’arte, la sua eterna “presenza”, checché ne dicano i più entusiasti spammatori di link, checché ne dicano coloro che avevano offerto la loro vita al glam dell’economia.
Ebbene, concludendo con ciò che ho iniziato, ammetto che l’arte sotto la dittatura di un virus, e dunque copiata e incollata come un meme, comunicata alla meglio, è certamente un surrogato apprezzabile. Ma stiamo anche ragionando sulle possibili alternative che questi atti provocheranno al sistema? Oppure… oppure le possibili alternative scriveranno una storia brutta tanto quella che ogni giorno osserviamo? E chi comunicherà questa storia al futuro? Come? Chi spiegherà che in arte abbiamo preso un abbaglio?
*L’espressione è del conte Mascetti, che ringrazio per la gentile concessione.