TvBoy “Santa Chiara con Acqua Benedetta” Tecnica mista su muro. Installazione pubblica in Via Torino 21/23, Milano. Misure reali, 2018.

La sete

“Ho così tanta sete che è come se dentro la mia bocca ci fosse una città d’estate”, ha detto mio figlio dopo il giro in bicicletta nel cortile di casa con cui abbiamo terminato la giornata. Anch’io ho sete: di arte. E, nell’attesa che i musei rientrino a regime, sono diventato un lettore compulsivo.

L’ultimo libro – L’era della suscettibilità (Marsilio, marzo 2021, euro 17) dell’avvelenata Guia Soncini– lo ho bevuto in un sorso. Scritto con una levità che invidio, stigmatizza il nostro passatempo preferito: offenderci perché non siamo capiti. Un passatempo che sembrava non potesse attecchire presso il popolo degli uomini (e donne) che, a cominciare dall’Inno nazionale, che dovrebbe ispirare coraggio, determinazione, spirito di corpo, si dichiarano, senza alcuna vergogna, “calpesti e derisi”. Sappiamo di non essere “popolo”. Siamo rimasti siciliani, lombardi, toscani. E questo, per qualche tempo, ci ha salvato. La diversità di vedute si è rivelata il miglior vaccino contro il virus dell’uniformità.

Quello che ti impedisce di concepire le differenze come contrapposizioni e al tifo da stadio preferisce il dialogo, il confronto. Apprendere lingue diverse (o diversi dialetti) stimola l’attitudine a farsi intendere, e a capire. Me lo spiegava il mio prof di inglese, credo per consolarmi dei miei scarsi risultati: “Gli anglofoni sono svantaggiati. Ovunque vadano, usano sempre e solo la loro lingua. Si impigriscono. Non sforzandosi di apprendere le lingue degli altri, non riescono a intenderne i pensieri”. Magari abbandonando l’inglese come lingua universale diminuirebbero le guerre. Almeno quelle ad alta intensità. Con l’avvento dei mezzi di comunicazione globale, i conflitti “diffusi” sono, al contrario, destinati ad aumentare. Anche nella nostra provincia culturale, argomenta la Soncini, c’è sempre qualcuno pronto a dichiararsi parte lesa che procura al pubblicitario di turno lo spunto perfetto per attirare l’attenzione. Occupandoci di arte, sappiamo benissimo quanto il meccanismo dell’indignazione a comando sia oliato. Lo abbiamo sperimentato. Chi di noi non è stato “cancellato”?

La mia prima volta, quella che non si scorda mai, non ha riguardato però l’arte, ma una presa di posizione su un fatto di cronaca. Nel lontano 2009, delle maestre d’asilo pare avessero alzato le mani sui bambini, sollevando un’ondata di clamore. Non so come, su Facebook mi giunse un invito al gruppo “Ergastolo per le maestre del Cip Ciop di Ferrara”. Visitai la pagina, i cui iscritti crescevano come la pasta lievitata, e subito gli occhi si posarono su un appunto: “Lapidiamole”. Non riuscii a trattenermi. Commentai, pressappoco, “Viviamo o no in una società civile? Torniamo ai roghi delle streghe? Che ne direste di affidarci alla giustizia?”. Fu l’inferno. Nacquero subito gruppi ad personam, per donarmi un neurone o accompagnarmi dolcemente alla morte. Venni persino contattato, per conforto, da attiviste cristiane. Questo però è niente rispetto a quanto mi accadde al museo Riso di Palermo in occasione di una mostra di due artisti siciliani, in cui i protagonisti del “sistema dell’arte” erano messi allegramente alla berlina. Uno di loro, credendo di riconoscere in un dipinto una critica alla sua “vita privata”, ci diffidò dall’esporlo. Non avendo alcuna intenzione di offenderlo, lo accontentammo subito. Fummo però costretti a cercarci un avvocato. E non fu per niente facile: la migliore, quella che poi scegliemmo, non voleva difenderci, convinta com’era che ci fossimo messi d’accordo col “nemico” per attirare i riflettori.

A chi non intenda sottoporsi a questo strazio – “alla realtà indistinguibile dalla parodia”, cito ancora la Soncini, “al feticismo della fragilità, al diritto di offenderci e al dovere di indignarci” – non rimane che una strada: stare sempre coi “buoni”. Una barca di clandestini è naufragata? Dipingiamoli. Mostriamo quanto è brutto che i poveracci debbano lasciare la loro casa, che non vengono accolti, e quanto è tremendo che le barche affondino. Magari facciamo sfilare una bagnarola gremita di uomini lungo il Canal Grande, o disseminiamo di clandestini le nostre spiagge quotidiane. Di immagini simili non si scandalizzerà nessuno. Che dico: i ricchi proprietari dei lavori, contemplandole, si sentiranno onesti, egualitari. E se il tema dei migranti, pressati come siamo da altri drammi, è passato un po’ di moda, facciamo un bel ritratto alla Ferragni, la Madonnina gigante venuta giù dal tetto di una delle torri di Milano nell’ultimo dipinto di un altro pittore siciliano. Chiara Ferragni – lo aveva compreso, a suo tempo, TV Boy – è come l’acqua minerale. Non sazierà la sete di mio figlio, troppo piccolo e vero, ma va bene a tutti gli altri. Le sue parole sono un balsamo. Le sue immagini sono limpide e pure. Basta evocarla e la borsa risale. Persino il marito, al solo starle accanto, diventa uno statista, acquista autorità. Perché allora non provare? Perché non invocarla come baluardo contro i mille pericoli di questa società? Santa Chiara Ferragni liberaci, una volta per tutte, dal male oscuro del pensiero divergente. Liberaci dall’intelligenza del contesto e dalla complessità.