Gianna Parisse, Brevemente risplendiamo sulla terra, installation view, Heimat gallery, Roma, 2025, photo credit Pamela Berry

«La poesia è nel resto che resiste». Riflessioni “post-traumatiche” sulla mostra Brevemente risplendiamo sulla terra di Gianna Parisse

Si è chiusa il 21 giugno, alla Galleria Heimat di Roma, Brevemente risplendiamo sulla terra di Gianna Parisse, un viaggio poetico tra i resti del trauma. Fotografie-scanner di oggetti e frammenti evocano un racconto silenzioso sull’assenza, la memoria e la possibilità di continuare a vivere.

In un recente saggio sull’opera artistica di Claudio Parmiggiani, Il trauma del fuoco, l’autore Massimo Recalcati osserva, in apertura al testo, che:
ogni opera d’arte degna di questo nome implica sempre un’assenza a se stessa, discontinuità, intermittenza, contatto con un segreto impossibile da svelare pienamente […] la trascendenza dell’opera implica una presenza sempre erosa, mai compiuta, a contatto stretto con l’ineffabile.

Colloquiando con la verità intima di queste parole, non possiamo che farle corrispondere allo splendido lavoro di Gianna Parisse, in allestimento presso la Galleria Heimat di Roma e a cura di Nicoletta Provenzano. L’opera di Parisse, che trova nel gesto fotografico la sua matrice, si rapporta con pathos all’assenza, consacrandosi, per usare ancora le parole del noto psicoanalista, al «mistero tragico del reale». L’artista romana, infatti, lambisce con poesia rara, rarefatta e silenziosa, un vissuto privato e tragico; lo riveste di una forma inedita, lo riflette mediante la frantumazione oggettistica ed emotiva che ha prodotto, incuneandosi in quell’indecifrabilità che l’evento traumatico porta con sé. Di più, se dovessimo rapportarci con la dimensione dell’assenza – l’assenza, in fondo, non è mai vuoto –, potremmo delinearne una natura duplice: se da un lato l’assenza si configura al negativo, e si perimetra attorno ai resti dell’evento tragico, a ciò che permane nonostante l’urto e lo smottamento; dall’altro l’assenza è il non-senso che aleggia nello squarcio dell’ordine simbolico che il trauma determina. Seguendo queste due declinazioni dell’essenza, facciamo brevemente risplendere alcuni elementi della poetica di Parisse.

L’assenza non è un vuoto. Breviario di una frammentazione.

L’opera di Parisse è una costellazione di resti. Resti tangibili, materici, la cui immagine è catturata dall’artista mediante una macchina fotografica a scanner. Si tratta per lo più di frammenti, particolari, oggetti di una abitazione che non esiste più. Il terribile terremoto di Amatrice del 2016 l’ha spazzata via, riducendola in un cumulo di macerie. In quella stessa casa l’artista aveva passato la sua infanzia. È possibile immaginare che fosse intrisa dell’odore resinoso e affumicato della legna arsa nel camino, o fosse piena del mercatino sonoro degli ammennicoli che ingombrano i piani delle credenze e del mobilio rustico, dell’affetto ristoratore e conviviale dei propri cari. Come un mandala alla fine della propria creazione, cancellato dal soffio dell’impermanenza, anche qui si produce una polverizzazione di ciò che è stato. Ma a differenza del monito buddhista, che vede nel vuoto una sorta di kenosis primordiale, lo svuotamento «fulgente e opaco» che qui osserviamo e che disarticola la memoria individuale, non si radicalizza in uno svanire completo ma comporta la contemplazione del resto. Le pietre fotografate da Parisse, una volta componenti architettonici della casa, non sono colte nella solitudine dell’evento rovinoso, ma assumono la coscienza radicale del trauma. La tecnica utilizzata, infatti, permette di cogliere le pietre, come gli oggetti casalinghi rimasti, in un perpetuo scuotimento, in un movimento oscillatorio intimo che si presentifica nella vibrazione della loro sagomatura. Se volessimo vedere tutto ciò tenendo conto di certi aspetti psicoanalitici, potremmo dire che l’artista elicita una profonda verità: per fare trauma, ci vuole un secondo tempo. Freud parlerebbe del Nachträglichkeit per indicare un momento che sia al contempo traumatico e trasformatore. Forse i francesi lo intendono meglio utilizzando il termine après-coup, letteralmente un “colpo che significa dopo”, dove “significare” vuol dire interpretare, simbolizzare, dare senso. Per la psicoanalisi, ciò che è traumatico non può che essere assunto in un momento successivo, solo dopo l’evento. Questa sussunzione può declinarsi in maniera psicopatologica, nel senso che nell’essere umano s’innesta una ripetizione incessante del trauma; oppure trasformarsi in un atto creativo, germinativo. Il moto silenzioso emanato dai resti catturati da Parisse si disvela appunto tacendo. Nessun fracasso può esplicitare l’indicibile del trauma. In un gioco di luce e ombra che fa mistero, i resti custodiscono ciò che è irrappresentabile. Ma facendo questo Parisse, per riprendere ancora Recalcati sull’opera di Parmiggiani, mette al centro la condizione fragilissima della realtà umana, il suo essere alla deriva, esposta senza possibilità di riparo all’impatto traumatico della vita e della morte.

Vivere, nonostante tutto.

Per il titolo della sua mostra Gianna Parisse ha scelto un altro titolo, quello del romanziere e poeta vietnamita Ocean Vuong. Brevemente risplendiamo sulla terra è un romanzo di formazione intenso e intimo, che affonda la lama delle parole sul trauma della guerra e dell’espropriazione culturale. Little Dog, il protagonista della storia, catapultato dal Vietnam nella provincia americana, attraverso il proprio legame con la madre ritesse le fila della propria storia intergenerazionale, provando a costruire una cornice simbolica al dramma dell’esistenza. Costruire una cornice: è proprio ciò che ho pensato quando ho visto l’allestimento della mostra di Parisse: di fronte all’entrata della galleria, su un muro bianco, le foto delle pietre si distribuiscono come a formare un poligono perfetto, come a perimetrare un nuovo modo, scandito e leggero, di abitare il mondo. L’artista ci insegna che strutturare una cornice che possa ridonare senso alla vita non significa bonificare completamente l’imprevisto, l’evento, la ferita. Ciò risulterebbe inevitabilmente fallimentare. Quello che importa è che quest’atto del costruire, questo porre in atto una poetica del resto, possa custodire il nucleo insensato dell’esistenza. E permettere quindi un continuare a vivere, nonostante tutto.

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