La poesia di Belluomini e il commentario di Ciaurro

Nella solitudine dell’atto di scrittura, il saggista e il poeta si incontrano e dinanzi all’ascesi dell’io elaborano, nel raccoglimento, l’acuta riflessione sulla vita, la finitudine e la morte.

Insegnano i geofisici, che il nostro globo è avvolto da una massa gassosa che chiamiamo aria. Insegnano i pedagogisti, che il nostro mondo è avvolto in uno strato impalpabile che l’animo respira che chiamiamo atmosfera etica. Come il nostro corpo con il suo vigore, nell’atmosfera terrestre, è in relazione alla purezza o alla morbosità di essa, così l’animo vive nell’atmosfera etica e da essa prende vigore e si infiacchisce senza accorgersene. Vi ha luogo un flusso e riflusso di pensieri, di sentimenti, di idee che fluttuano nell’aria, invisibili e che l’uomo respira, assimila e comunica senza averne nettamente coscienza. 

Questa atmosfera etica si potrebbe chiamare l’anima segreta dei romanzi del mondo: “Qui c’è un imperativo della testimonianza. – dice Ciaurro – C’è l’esperienza in cui la persona ha perso il diritto di dire io e si è trovata di fronte alla forza della domanda. La non dimenticanza dell’orrore: sopportare l’insopportabile, ma anche la paura di testimoniare la verità, timore attestato dalla circostanza, che Sonia Contini Saracco consegna a Francesco Belluomini in questo memoriale solo dopo la sua morte. Da parte sua il poeta risponde a una domanda, ma non sa perché è chiamato a rispondere. Così Belluomini, con questo libro “Il Campo dei fiori recisi”, va inserendosi in una tradizione tutta moderna della letteratura, dei poeti-pensatori” (p.146).

Senza che ce ne accorgiamo, siamo educatori o diseducatori del nostro prossimo. Quando noi parliamo, dipartono dalla nostra bocca vibrazioni che, attraverso l’etere, vanno a battere sul timpano degli ascoltatori. Quando noi agiamo, salpano da noi altre vibrazioni, quelle morali, che toccano l’animo di chi ci vede e ascolta. È un andare e venire di pensieri, di sentimenti, di concezioni, di idealità o di storture morali che se ne vanno e rivanno, penetrano in noi e si impossessano del nostro io; escono da noi, in modo identico e trasformato, e rimbalzano, penetrano negli altri e li avvincono, perché l’animo nostro, se è fattore di immagini e di vita, è anche ricettore e trasformatore del peculio morale dei dittatori e degli oppressori. ‘Nel campo dei fiori recisi’, il libro di Francesco Belluomini (edito da Aracne gennaio 2017) è dedicato al memoriale di Sonia Contini Saracco, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau. Solo dopo la sua scomparsa, all’età di ottantatré anni, il memoriale è stato consegnato, per la pubblicazione, al Presidente del Premio letterario Camaiore che ne ha ricavato un romanzo che – come dice Ciaurro – rispecchia una “Vocazione e custodia del senso di verità”. Una testimonianza inedita, forte, che apre uno squarcio sui massacri operati sui bambini internati nel Kinderblock di Birkenau, dove Sonia tredicenne si trovava insieme alla sorella Daniela, uniche superstiti della sua famiglia, deportata nella primavera del 1944 e appartenente alla comunità ebraica di Livorno. ‘Nel campo dei fiori recisi’ ci si riferisce ai bambini portati via dall’Olocausto, ai loro nomi, alla loro bellezza strappata alla vita. Nel memoriale ricostruito da Belluomini, veniamo a contatto con la storia di due sopravvissute all’incubo del Kindeblock, dove esse dovevano servire come cavie dei test dei medici nazisti, guidati da Mengele. La nostra memoria, il nostro sguardo, il nostro respiro più o meno trattenuto, la nostra forza di opporci alle prestanze imbecilli dell’occulto, non osano diminuire o fare operazione di dimenticanza della Shoah e mai e poi mai oblierà quei bambini. 

Quando si parla di educazione, il nostro pensiero ricorre subito ai piccini, soggetti attivi dell’educazione; dimentichiamo che l’uomo come essere vivente è sempre suscettibile di trasformazione e continuamente si evolve, a meno che nella storia che non predomini chi vuole fare della vita umana un test terminale, bloccando la vita e lo sviluppo. Ebbene, nel 1971, V. Jankélevitch, meditando sul senso del perdono, ha scritto che “lo sterminio degli ebrei è stato dottrinalmente giustificato, filosoficamente spiegato, metodicamente preparato, sistematicamente perpetrato dai dottrinari più pedanti che siano mai esistiti; esso risponde ad una intenzione sterminatrice deliberatamente e lungamente maturata; è l’applicazione di una teoria dogmatica che esiste ancora e che si chiama antisemitismo. ( …) Nell’universale amnistia morale concessa da molto tempo agli assassini, i deportati, i fucilati, i massacrati hanno soltanto noi che pensiamo a loro. Se cessassimo di farlo, finiremmo di sterminarli, ed essi sarebbero annientati definitivamente. I morti dipendono dalla nostra fedeltà …” (Giuntina, Firenze, 1987). Nelle pagine di Belluomini, tornano alla mente alcune di queste  ed altre parole di Vladimir Jankélévitch; il filosofo di Bourges scrive: “Il perdono è forte come il male, ma il male è forte come il perdono”. Tante volte esclamiamo: “Io penso di perdonare!”, volendo affermare la completa libertà di pensiero, dimenticando il peso di questa dicitura critica di Jankélévitch. Vi sono oratori improvvisati, viventi grammofoni, voci menzognere che aspettano di espletare il servizio della loro fiction. Ma se ogni scrittore pensoso del bene si vede avvolto da una spessa cortina etica piena di miasmi pestilenziali, quanti sono, invece,  gli scrittori di buona volontà, come Francesco nei confronti di Sonia, cui fu promessa la giustizia e l’applicazione delle intenzioni di Jankelevitch? Attraversare il fantasma dell’Olocausto significa scrivere il primato della “critica al perdono sui generis”. Belluomini stesso sembra confermarlo nella narrazione del suo romanzo. Si potrebbe fissare esattamente il momento in cui Sonia e Belluomini varcarono il fantasma. Come dice Ciaurro, in quel momento, Belluomini divenne Belluomini, e – solo dopo aver attraversato il fantasma del campo dei fiori recisi – si rischiara “la verità della letteratura”. Su tale sfondo potè descrivere il posto del riscatto, schermi dove compaiono frammenti della voce di una genia massacrata – il dolore materializzato nello sguardo dell’altro, il dolore che è la notte del mondo e l’abisso, l’ex nihilo a partire dal quale si può affermare un’ulteriore lingua.

Qual è il compito di Belluomini? Qual è la voce del poeta? La traduzione del testimone è il compito della letteratura, conservare la voce delle bambine come strumento di grido e di rivendicazione dell’infanzia e della storia viva. 

La prima volta che ho letto Francesco Belluomini ho “sentito” Pier Paolo Pasolini. Non che ci sia un filo rosso, che dal secondo porta al primo: si tratta di due scrittori profondamente diversi. Il secondo, per esempio, non si abbandonerebbe mai all’elemento fantastico e surreale, che accompagna invece i libri del primo; allo stesso tempo, anche quando è crudo, il realismo di Pasolini non ha mai l’asprezza e l’ironia di quello di Belluomini. E così via, si potrebbe scrivere per pagine su ciò che non li accomuna. Eppure leggo uno e sento l’altro. Sarà per via del fatto che, per me, la poesia è essenzialmente una questione di voce: ebbene, la voce in Pasolini è quasi sempre la voce di Pasoli. Non credo di aver mai trovato, nella mia vita, un poeta con la mano più ferma e la voce più certa. La grandezza di Pasolini sta tutta nel carattere con cui tiene la pagina, nella forza che si espande da ogni singolo termine. Le crudeltà che scandiscono il tempo della scrittura sono rese con una consistenza e una minuzia ai limiti del sostenibile, ma nel poema non si fa mai pornografia della tortura e del dolore: l’autore mostra le sevizie e la sofferenza, ma non ne gode, non le estetizza. La sua penna è agreste, dice quel che c’è da dire senza girarci troppo attorno: il sangue “cola” e non “sgorga”, per così dire; la merda è merda e non c’è la menzogna di Piero Manzoni o dell’avanguardia. Non c’è pornografia: la lingua viaggia di pari passo con il mondo che descrive. Le vicende sono almeno parzialmente anticipate dai versi dell’originario, che aprono ogni porta e finestra: ciò che gli individui non riescono a dire, lo dice l’Opera dell’origine, che è fatta da parole che fingendosi strumento possono dire ciò che vogliono. Sebbene il gioco della poesia occupi, oggi, un posto sempre più vistoso nell’esperienza quotidiana, esso non ha suscitato molta attenzione da parte dei poeti. Quasi che lo si consideri un elemento marginale o degradato dalla fenomenologia sociale. Quasi che occuparsi del gioco dell’ironia poetica sia esso stesso un gioco o qualche cosa di futile e di irrilevante per la teoria della scrittura. Così mentre giornali e riviste parlano di una febbre dell’intrattenimento, che sembra diffondersi nelle società contemporanee, la disattenzione dei poeti (o leggi anche la sfiducia o il disaccordo dei poeti) appare quanto mai eccentrica. Anche considerando il fenomeno dell’ironia mediale strisciante, il gioco non si limita al gioco dell’apologia istituzionale, ma esso è solo la realtà più esteriore e più evidente di un fenomeno che coinvolge la realtà sociale a più livelli.

Ad un’attenta considerazione, anzi, il gioco della poesia appare come la forma stessa della sua verità. Questa osservazione apre una serie di problemi che richiedono di essere affrontati. Che differenza c’è tra il grande gioco della vita e il giocare dei poeti all’angolo del verbo, alle soglie del complemento oggetto, cioè tra il gioco della verbalizzazione e della concettualizzazione? Perché i poeti d’avanguardia hanno prestato solo in una direzione l’attenzione al gioco realistico della storia? Che cosa vuol significare la grande diffusione dei giochi linguistici nel linguaggio della poesia? Questo saggio di Ciaurro tenta di fornire qualche risposta a questi interrogativi. C’è nell’immagine della custodia e della vocazione di senso e di verità, nel suo principio, nel suo stesso essere, nell’eco del suo respiro, una vertigine e una “critica radicale all’uso irreale della verità”. Nelle migliaia di punti che ne intessono la trama, come non vedere anche il brulichio di idee che attira chi cerca di riconoscersi all’interno di questo verbo, e tende a prendere delle scorciatoie per potersi congiungere almeno con qualcuno di questi esclamativi, di questi affermativi, di questi dubitativi, di questi interrogativi? A causa di ciò che invita a concepire, come a causa di ciò che rende possibile raffigurare la contorsione del lessico, la vocazione è una delle manifestazioni più vive di ciò che il pensiero di Ciaurro ci offre in una immagine stabile, vibrante, della sintassi stessa di Belluomini.

Belluomini si è inventato un suo modo, intelligente e profondo, per continuare a fare poesia ai tempi della post-letteratura, mentre tutto sembra già stato detto. Egli – poeta, scrittore e critico delle verità da custodire, usurato dalla ripetizione e dai tanti manierismi – sfida il rammemorare storico contro gli “orrori e le ferite non solo psicologiche sopportate”. Eppure, nonostante le pagine di questo libro di Ciaurro siano esili, l’intreccio non è quello meccanico dell’antologia, costruito a tavolino, bensì del saggio sulla vita quotidiana, sul pensiero estetico e della sua epica minore. Con più forza percepiamo l’esistenza nuda, la rivelazione della letteratura come verità “la mia vita, quella di tutti i giorni, la nostra vera vita”, quella degli uomini non illustri in cui diventa avventura, il “filo degli anni dove corre la sfida solitaria”. Che sia di un grimpeur, di uno sciatore, o di un medico che ha scelto di curare gli altri per far rimarginare la ferita che gli brucia dentro, poco importa. In questo libro, sentiamo vibrare l’esistente poetico, con la ferocia e la felicità che tutti riconosciamo come umano, troppo umano, sempre.

Ci sono libri magnetizzati, per il vacillamento che intrattengono con il loro contenuto, a partire dalla cadenza di scrittura, per il modo in cui tengono, tra parole e immagini, una vibrazione che potrebbe prefigurare quella del piccolo slittamento di forme ruvide in forme piane. Brulicano di senso, si spostano, come al di là di loro stessi, diventano libri-testimone. Il soggetto di Ciaurro che mi interessa ha questo particolare, che ha appena acquistato una certa consistenza nell’universo della lettera, dove è apparso adattando, più o meno esplicitamente, alla situazione della poesia le esperienze di una tradizione, di una voce, essa stessa assai proteiforme, propria della creazione letteraria. Ma questo tutto, questo qualsiasi cosa che si riversa, a pezzetti, a frammenti, questo metodo che ognuno cerca di inventarsi per contenere i propri discorsi e i propri lessici, questa dialettica della memoria non è tuttavia frutto dell’arbitrarietà o del caso: “Per parte sua Belluomini, come Pasolini, a cui è profondamente legato – scrive poemetti – per testimoniare più fortemente questo legame. Ricordo che Le Ceneri di Gramsci sono composte da poemetti, così come Nonostante Tutto (2019). Ricordo, più precisamente, che Poemetti è il sottotitolo de Le ceneri di Gramsci. Così come in Nonostante tutto poemetti è un sottotitolo. Intanto, Belluomini indica nelle note iniziali che la composizione di questo libro si rifà al tracciato già messo in movimento all’interno dell’opera sua con Senza distanze (2004), … (Ciaurro, p.101)”. Marco G. Ciaurro, filosofo, scrittore e organizzatore culturale, nella sua attività di studioso ha curato, tra l’altro,  la parte storica di un volume dedicato a Guglielmo Marconi, un testo  critico su Maurice Blanchot e il libro di Gargani “L’Arte di Esistere contro i fatti: Bernhard  e Bachmann”. Questo testo dedicato a Belluomini, invece, nasce da una lunga meditazione e da un esteso lavoro preparatorio che si è concluso con una prima riflessione sulla nozione di “letteratura viva”.  

Belluomini (1941–2017) inizia la sua attività di poeta nel 1975 e nel 1977 entra nella cinquina dei libri finalisti del Premio Viareggio, con la sua opera prima “L’altro io” (ed. Campobasso). Nel maggio 2018, esce postumo il libro “Ultima vela – tutto me stesso in forma poetica” che raccoglie e condensa il suo lascito di esperienze in forma di parole. La mente di Francesco Belluomini era prensile e brillante, capace di spaziare senza imbarazzo dalla filosofia alla politica,dalla storia alla letteratura volgare e alla poesia colta, accompagnata dal senso della vocazione e della custodia. In ognuno di questi campi, non portava solo il contributo del suo lucido intelletto, ma anche una misura di civiltà. Ricostruire la sua figura intellettuale e morale non è un’impresa facile, per i molti piani in cui occorre scomporre e ricomporre l’analisi. Un’idea della complessità dell’impresa ce la dà questo volume appassionatamente scritto da Ciaurro, nel quale si ripercorrono con perizia gli stimoli estetici e comunicativi della operosa maturità di Belluomini. Come per molti altri esponenti della poesia italiana del tempo, per capire il percorso intellettuale di Belluomini, risulta essenziale il riferimento al “segno linguistico del poema”, “il ritmo e il movimento nel pensiero della poesia”, “l’ultima vela e lo sguardo altro del poeta”, gli “occhi di gubìa o la verità dell’origine”, il rapporto tra poesia e storia, il principio di verità. Per quanto Belluomini fosse, in senso sperimentale, un raccoglitore dell’espressione reale, sempre risentì del fascino del magistero intellettuale della cronaca e della poesia mediale. E nei confronti della solitudine dell’io, al di là delle divergenze più propriamente teoretiche del riverbero del senso, nel contesto poetico-concettuale, mantenne sempre un rispetto e una deferenza che erano il segno di una stima profonda dell’ascesi ateologica. Peraltro, l’analisi di Marco G. Ciaurro tiene conto anche di molte altre circostanze storiche e influenze culturali. In questo senso, pur essendo un lavoro sostanzialmente monografico, e per quanto si concentri soprattutto sulla cultura poetico-filosofica, il saggio presenta una ricostruzione della biografia dei primi decenni del nostro ventennio. L’ipotesi che costruisce il volume di Ciaurro è che si stia assistendo oggi a un ritorno della poesia nuda. Chiare le suggestioni del pensiero di Rorty, Gargani e Celan. E fertile l’angolazione, non solo nel sbrogliare le ragioni figurative, simboliche e retoriche della sincerità della parola poetica di Belluomini, ma anche nel permettere una narrazione di esperienze e modi del porre il senso stesso della parola-comunicata.

Il libro di Ciaurro si pone, prima ancora che come racconto critico, come rassegna, repertorio, catalogo, saggio, similitudine. Affrontando i problemi che si hanno entro un’angolazione centrata su Vocazione e custodia del senso di verità. Saggio sulla poesia di Francesco Belluomini (Il Convivio editore 2021), l’autore ci offre numerose declinazioni della prima radice, della bussola simbolica del fare poetico. Per me, scrive Celan, “la poesia non è il frutto di un’intuizione geniale, ma il prodotto di una ricerca e di un pensiero”. Un’idea che non cela i suoi riferimenti alla filosofia contemporanea, ma li dichiara: da Nietzsche a Heidegger, Derrida, Ricoeur.

La posizione di Ciaurro/Belluomini si costruisce attorno a un’idea di poetica-attiva, che non è mai un raccontare la propria esperienza, ma un interrogarla per trarne implicazioni storiche, conoscitive e civili. E pensare la poesia (come la filosofia) nei termini di un intreccio di storie e di implicazioni di fatti lessicali, di spostamenti formali, di ferite esistenziali e un ricordare e riaffermare l’enigma del passato. L’avventura del «Saggio» ha una dimensione pragmatica e riflessiva: è l’incontro di una cultura tecnica con altre, teso a “promuovere una migliore qualità della vita e del senso della parola”, ma non per questo moralista, ingenuo. Piuttosto consapevole che la poesia non può direttamente dettare la forma del vivere e che sono necessarie strategie mediate: “Questa adesione al linguaggio come identità dell’io confida con la fede mistica, ma è qualcosa di meno o qualcosa di più della fede, perché egli mette alla prova la tenuta morale della lingua …” (pp.99-100).