Stretching the Body

Stretching the Body è una delle tre mostre in corso alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, inaugurata il 5 novembre 2021 e visitabile fino al 30 gennaio 2022. Divisa in due sale espositive e in connessione alla tecnica di allungamento della tela che anticipa l’atto pittorico, la mostra ospita dodici artiste donne che raffigurano il corpo umano secondo personali principi di trasmutazione, avanzando tra la tendenza idealizzante e quella espressiva.

Dal principio, nella storia dell’arte, il corpo umano è stato soggetto di raffigurazioni, mutando il significato dell’opera pittorica in base al periodo storico e al movimento artistico. Può essere definito come un medium che tramuta i messaggi e le intenzioni degli artisti sulla base di precisi avvenimenti della storia dell’arte. Da forma che interagisce con il divino arriva ad essere ridotto in un simbolo, è capace di ristabilire un contatto con la natura o con uno spirito primitivo, fino ad interpretare stati d’animo precisi. Con tutte recenti acquisizioni pittoriche della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, la mostra Stretching the body segue minuziosamente alcuni principi della storia dell’arte, soprattutto con i dipinti di grandi dimensioni allestiti nella prima sala espositiva. Nudeltisch (spaghetti painting) di Giulia Andreani (Mestre, 1985)è l’opera che anticipa lo spazio della prima sala: un dipinto dai colori grigio-blu dove quattro pin up ingoiano (o rigurgitano) spaghetti. Come la maggior parte delle opere dell’artista, si principia da un’immagine di archivio non digitalizzata e diventa un lavoro pittorico in grado di azionare un confronto tra l’umano e le immagini. Lasciando alle spalle Andreani ed entrando nella prima sala, sulla destra è allestita la grande tela di Jaclyn Conley (Canada), ispirata alla serie fotografica Funeral Train del 1968 di Paul Fusco. In quel lavoro, il fotografo ha ritratto il popolo americano nel delicato momento storico in seguito alla morte di Robert Kennedy, fotografando i volti dei cittadini americani dal finestrino di un treno in movimento. I corpi della Conley, infatti, appaiono come sfocati ed indefiniti, risultando capaci di rallentare il tempo di visione. La fisicità appare come ammassata, un dettaglio che rispecchia il modus operandi dell’artista che durante la creazione dei suoi quadri inserisce pezzi di tele precedenti, inglobando il collage nella pittura. La Conley fa anche un riferimento esplicito a Funerale a Ornands di Courbet, citando quel momento della storia dell’arte in cui i quadri di grandi formati rompono i canoni artistici raffigurando scene della vita quotidiana. Vicino all’opera della Conley troviamo This Connection is Not Private di Jill Mulleady (Uruguay, 1980), due pannelli pittorici che seguono il riferimento artistico dell’Ottocento fatto dalla Conley.

Jill Mulleady, This Connection is Not Private (2017-2019)

Ispirata ad Edvard Munch, l’artista Mulleady crea una relazione spaziale, stando tra la pittura e l’architettura. Alcuni dettagli sono presenti in entrambi i pannelli ed ogni fisicità sembra appartenere ad una messa in scena teatrale. Sulla parete di fronte a Mulleady, il lavoro coloratissimo di Wangari Mathenge (Kenya, 1973) realizzato nel 2019 per il ciclo The Ascendants. Qui ci troviamo in una scena più intima e privata, dove un corpo maschile e uno femminile di origine africana affondano nello sfondo pittorico assieme ai loro oggetti occidentali. Wathenge utilizza i banali momenti di vita domestica per raccontare le sue esperienze come donna artista keniota che vive negli USA e il suo lavoro pittorico in questa mostra aziona un contatto con la storia del femminismo e con la situazione delle donne nell’arte. Infine, un quadro della pittrice Rose Wylie (Kent, 1934) con la sua composizione figurativa libera, ricca di associazioni ed eccitazione visiva. Wylie, che ha ripreso la pittura in età adulta, ritrae quello che vede a terra nel suo studio confusionario (immaginiamolo un po’ stile Bacon), intervenendo più e più volte nelle sue tele.

Veduta della prima sala con le opere di Rose Wylie (a sinistra) e Wangari Mathenge (a destra)

Uscendo dalla prima sala, nel corridoio espositivo della Fondazione, troviamo due artiste ad introducono nella seconda: Celeste Dupuy-Spencer (Stati Uniti, 1979) e Anj Smith (Inghilterra, 1978). La prima con l’opera Coyote, What Have They Done/Little Brother, Where Do You Run che sembra ritrarre una natività, ma in realtà ci riporta un fatto tragico realmente accaduto: lo sterminio per avvelenamento di una mandria di coyote che aveva invaso i campi dei contadini americani. I corpi di Celeste Dupuy-Spencer, legati ad una cromatica precisa, si congiungono non solo tra di loro, ma anche gli altri elementi figurativi. Anj Smith mantiene una tangente tetra, dedicandosi alla pelle in trasformazione nella quale evidenzia dettagli raccapriccianti. I baffi ed i peli sulle braccia delle ragazze ritratte non sono nascosti, così come le dita bluastre che confondono lo spettatore: ciò che stiamo osservando appartiene ad un tempo lontano, o alla contemporaneità?

Se la prima sala, dedicata alle grandi dimensioni, è una sorta di archivio storico-artistico, la seconda si addentra in modo più specifico nella rappresentazione della fisicità con corpi più fluidi e più queer, quasi astratti e liquidi. Sulla destra, i tre quadri di Ambera Wellmann (Canada, 1982) in stili diversi ritraggono corpi che hanno subito malformazioni. E’ uno scenario intimo con corpi al plurale e ibridi dal punto di vista di genere che non si riducono ad esprimere un atto sessuale, ma piuttosto un senso di fratellanza e di amore. Una tangente più sessuale è sicuramente presente nelle opere dell’artista Jana Euler (Germania, 1982), in Fondazionecon Great White Fear. La “grande paura bianca” è uno squalo che ha assunto le sembianze dell’organo genitale maschile e, di fianco, l’opera Cabinet, lontana dalla sfera sessuale e appartenente letteralmente allo “stretching the body”. Il corpo infatti qui è allungato e scomposto, capace di arrivare ai confini della tela. Cabinet, annullando i limiti pittorici violentemente è riconducibile all’opera di fianco, Pissing Gorgon di Louise Bonnet (Svizzera, 1970), assolutamente fuori dal canone dove troviamo elementi surreali del corpo, oltre ad una sproporzione estrema. I corpi della Bonnet sono deformi, richiamano la mitologia ed hanno sempre l’elemento dei capelli biondi, come quelli dell’artista. Proseguendo, Avery Singer (NY, 1987) che dopo una personale alla Fondazione Sandretto nel 2014, la ritroviamo in Stretching the Body con due lavori. Il corpo che osserva lo spettatore con la Singer più che deformato è stato digitalizzato, sono immagini scomposte che l’artista crea sovrapponendo la finzione alla realtà. Partendo da immagini che trova online, le ritaglia e le geometrizza al computer, riducendo e scomponendo il corpo con un risultato visivo che richiama la tecnica grisaille, ancora una volta un rimando alla  storia dell’arte. Di fianco ai quadri della Singer, mantenendo una geometria di forme, troviamo le opere di Marnet Larsen (Michigan, 1940), artista americana e docente di pittura. La struttura fisica in Larsen diventa molto scientifica ed accademica, il corpo è reso quasi pesante e viene recuperato tutto il tema dell’astrattismo acquisendo un’identità: delle immagini super astratte sono raffigurate per avere corpo, anche se rimangono profondamente ingabbiate nella loro forma spigolosa. Infine troviamo i corpi di Christina Quarles (Stati Uniti, 1985), avvolti l’uno con l’altro. L’artista, afrodiscendente da parte di padre, nata completamente bianca, si è scontrata con il suo corpo più volte, a livello personale e sociale. Quarles è una donna queer alla quale non interessa definire il corpo, non è legata alle categorie, all’identità, o al tipo di orientamento e, nei suoi quadri, tutto ciò viene annullato drasticamente. Ciò che rimane sono corpi fluidi ed illimitati come tutti quelli in mostra, con la quale la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo offre una visione sdoganata da pregiudizi e sentimenti razziali di ogni genere.

Opere di Anji Smith