Keith Sonnier
Keith Sonnier, 2015, Wall Portal B, neon, wire and transfomer, 39 x 71 x 13.

Keith Sonnier, addio al minimalista del neon

Scompare, a 78 anni, Keith Sonnier. Nell’estate 2018 la Galleria Fumagalli di Milano aveva dedicato una retrospettiva all’artista della Louisiana. Riproponiamo la recensione di Stefano Taccone pubblicata nel numero 269 della rivista Segno

Se il 1966 è l’anno in  Kynaston McShine cura Primary Structure presso il Jewish Museum di New York, consacrando così sulla scena dell’arte ufficiale il minimalismo ed i suoi protagonisti, una sorta di risposta agli assunti di tale movimento arriva entro il medesimo anno – e nella medesima città – con Eccentric Abstraction, curata  da Lucy Lippard presso la Fischbach Gallery. Alla rigida serialità minimalista, l’astrazione eccentrica risponde con una non figuratività che però rilancia la morbidezza e l’imperfezione dell’organico; alla celebrazione spersonalizzata del minimalismo, l’astrazione eccentrica oppone il registro anti-celebrativo dell’incongruo, dell’incoerente, dell’incompiuto, dell’asimmetrico, del non razionale; tanto il minimalismo è asessuato quanto l’astrazione eccentrica è emersione di pulsione libidica. Certe sequenze tipiche di quest’ultima, quelle della compianta Eva Hesse, ad esempio, sono del resto pressoché una caricatura, una irrisione delle impeccabili – quasi militaresche ai suoi occhi – sequenze minimaliste di un Donald Judd. 

Oltre alla Hesse, protagonista – e in un certo qual modo precorritrice della tendenza – di Eccentric Abstraction è Louise Bourgeois – la presenza in prima fila di donne è un altro tratto significativo e caratteristico di questa tendenza, nonché distintivo rispetto al minimalismo -, ma anche l’oggi celeberrimo Bruce Nauman, nonché Keith Sonnier (Mamou, Louisiana, 1941), il quale probabilmente in Italia e non solo è quello ad avere per ora minore fortuna degli altri esponenti citati, benché anch’egli ormai capace di vantare un percorso di tutto rispetto, oltre che parimenti pioniere di questo movimento di critica del minimalismo che, assolutamente parallelo a quest’ultimo, lo confuta nello stesso momento in cui intende schiudere diversi, più ampi e meno univoci orizzonti, non espellendo peraltro dal quadro della ricerca la tensione all’ironia ed additando conseguentemente al suo antagonista una certa quale seriosità di fondo come punto debole.

Se il minimalismo è l’apoteosi del progetto, recuperando in ciò il costruttivismo russo, l’astrazione eccentrica – anche detta anti-form o più genericamente post-minimalista -, si rifà al caso, recuperando una linea che dal dada e da Marcel Duchamp arriva fino a Fluxus. Già in tal senso sono inquadrabili opere eseguite da Sonnier alla fine degli anni sessanta come i Cloth series e i Files series. Non è ancora giunto il decennio successivo, tuttavia, che l’artista statunitense introduce i tubi al neon nella sua ricerca, una scelta che lo conduce inevitabilmente ad un dialogo-confronto, anche indiretto, con un esponente minimalista in particolare, Dan Flavin. Se i due sono accomunati da una concezione del colore-luce che non è più colore trattato in maniera tale da assomigliare alla luce – come ancora avviene in colui che potrebbe considerarsi il precursore loro più prossimo in tal senso, Mark Rotko -, bensì luce che genera colore, la divergenza avviene sul piano del significato che questo colore-luce assume. 

In Flavin c’è ancora un aggancio più saldo non solo e non tanto alla tradizione dell’informale americano alla Barnett Newman o allo stesso Rotko, ma anche all’astrazione suprematista russa di Maleviç – ancora una volta le avanguardie russe degli anni dieci irrompono negli apparentemente distantissimi, su di un piano politico, sociale ed economico, Stati Uniti della seconda metà degli anni sessanta – e quindi, tramite Maleviç, alla stessa tradizione dell’icona russa e bizantina. Certo già in Flavin sussiste una forte critica di questa tradizione, giacché si rievoca il sacro – e quindi l’aura – attraverso la luce, nello stesso momento in cui si evidenzia la sua riproducibilità tecnica – e quindi si determina la perdita dell’aura – attraverso l’indispensabilità dei tubi al neon, per non parlare delle prese di corrente e dei rispettivi fili. Il sacro del XX secolo si scopre così nel suo carattere posticcio: se il sacro tradizionalmente è impronta dell’assoluto e quindi irrelato, qui il sacro è tutto tranne che irrelato, in quanto strettamente dipendente dalla razionalità scientifica rappresentata dalla presa di corrente e potenzialmente persino dal capriccio dell’uomo che può attaccare e staccare la spina a suo piacimento. Il sacro si rivela infine una ossimorica intermittenza.

L’uso condotto da Sonnier del neon va invece ben oltre fin dall’inizio, come si evince dalla mostra in esame, Light Works, 1968 to 2017, la quale, secondo quanto suggerisce il titolo stesso, attraversa sia pure in estrema sintesi un cinquantennio di produzione in tal senso. I suoi neon sono sempre infatti linee che si fanno profili di forme organiche ed irregolari, in perfetta sintonia con l’astrazione eccentrica. Non vi è dunque spazio per il sacro, o almeno non per il sacro che discende dal paradigma dell’icona bizantina, con la sua fissità ed il suo silenzio. Le sculture di Sonnier sono trasfigurazioni con mezzi tecnologici non dunque del mistero dell’assoluto, bensì del mistero del contingente. Gli elementi di una tecnologia peraltro ormai non particolarmente avanzata per quell’epoca divengono, in altre parole, strumenti che plasmano le forme del vitale pur facendole slittare su di un piano differente, un piano in cui la tecnica non si sostituisce alla natura come facilitatore di certi processi necessari all’uomo per dominarla e così sopravvivere, ma la rimpiazza sul piano della mera funzione estetica, tentando anche un suo superamento-miglioramento – i colori dei neon non esistono in natura, tali colori non si riflettono in natura sui muri, ampliando il raggio coloristico della superficie delle sculture. Col tempo i tubi al neon non si accontentano del piano ma aggrediscono la terza dimensione, si aggrovigliano su se stessi determinando una composizione innaturalmente prossima al biologico. Se Pollock ha bisogno di un rituale basato sullo scavo nell’inconscio ove tra impulso e scrittura non c’è soluzione di continuità, recuperando il primigenio nell’ambito dell’arte di lì a poco considerata “più avanzata del momento”, Sonnier necessita – è vero – di un intervallo tra ideazione e materializzazione, eppure la prima non possiede nulla di razionalista, ma come nell’artista del Wyoming – riferimento privilegiato peraltro anche di altri artisti antiform, da Richard Serra a Robert Morris – l’irriducibilità della natura, sia pure rivestita dei materiali della tecnologia, si manifesta.