Katastrofé
Huxley, Ottica, gioco

Katastrofé, immunità digitale e pandemie di controllo

La satira dei mutamenti radicali, operati dalle scoperte scientifiche nel campo biologico e sanitario sulla condizione umana, viene portato alle estreme conseguenze da Aldous Huxley nel romanzo Mondo Nuovo. Huxley in questo romanzo immagina che l’umanità futura disponga di una pillola speciale, il «soma», capace di correggere le deficienze dell’organismo umano, stimolando le energie necessarie per il lavoro, eliminando la stanchezza, aiutando a superare le impressioni sgradevoli e tonificando il sistema nervoso. Ma questa specie di toccasana di tutti gli scompensi fisiologici individuali, che rappresenta un concentrato supremo delle scoperte susseguenti, volte ad assicurare l’assoluto benessere fisico, è vista da Huxley come un pericoloso agente di livellamento di ogni idiosincrasia personale, pari agli effetti che dovrebbe suscitare la pandemia del Covid 19. 

Se nel Nuovo Mondo si tratta di un prodotto chimico, qui da noi si tratta di un prodotto invisibile, totalmente anonimo e portatore di una biocrazia in cui si aggiunge ogni traccia di isolamento. Sempre in Covid 19 – che potrebbe essere la continuazione di Mondo Nuovo – possiamo immaginare che nel centro di incubazione e di condizionamento del Virus sono coltivati gli embrioni, fertilizzati in una fumosità trasparente, da cui si estraggono vari tipi di batteri, che vanno dagli intelligentissimi CORONAVIRUS, attraverso le sequenze rapide, i Gamma, i Delta, fino ai semi-immunodeficienti Epsilon. Applicando alla biologia il principio di trasformazione di massa dell’ideologia, un altro processo detto di mediamorfizzazione riguarda l’immagine storica di Antonio Gramsci. Il miocondrio basale H, ricavato da un perfido fumettista, arriva a creare numerosi simulacri equivalenti, generati da un solo embrione, favorendo, grazie alla standardizzazione genetica delle Cineree (Le Ceneri di Gramsci di PPP), la perfetta omogenizzazione post-moderna. I metodi di pianificazione dell’assembly-line, tipi della produzione fumettologica e grafocratica, vengono applicati così anche alla nascita e allo sviluppo dell’intellettuale di Ales, che diventa un oggetto qualsiasi di una catena di montaggio museomatica, plasmabile a piacimento secondo le esigenze di una società schiavizzata, la cui parola d’ordine è “Lobotomizzazione fascista, Identità subliminale, Stabilità liberista”. 

La scienza del Capitale ha sconfitto la natura, sostituendo un ordine plastificato e coatto alla sua imprevedibile diversità. Pensatori come Gramsci, non vengono accettati più così come sono, ma vengono fabbricati su misura da grafocrati, secondo i bisogni della finanza di ispirazione post-industriale piemontese. E la sostituzione della generazione vivipara con l’incubatrice automatica significa non solo il distacco del lavoratore dalla natura e dalla speranza di democrazia radicale, ma anche da ogni legame con i Centri vissuti de La Città Futura. Intellettuali come Gramsci cessano di avere un destino, di esistere, come “Umanità” attraverso il loro linguaggio e la loro parola, per diventare una fotocopia di consumo, un oggetto di formale sperimentazione espositiva.

Aldous Huxley, Soma … prodotto

Ecco come Angelo Shlomo Tirreno descrive il processo di generazione in provetta grafocratica e grafotronica: «Accorata, sarcastica, dolente, aggressiva, disperata, requisitoria, confessione, atto d’accusa, nostalgia: così si presenta l’opera del copista post-moderno di Gramsci, che esce dal declinante ordine fuffato di FB, ma che sembra la propaggine anacronistica de Il Male (quanto al contenuto) di atteggiamenti e problemi di fiction di epoche lontane. È lo scontro, la resa dei conti con un fantasma, inafferrabile e onnipresente, invocato e odiato, atteso e delusivo: il fantasma della “parola critica”, il filosofo della Città Futura, il martire che sembra incarnare l’alfa e l’omega delle più discrete speranze e delle utopie più radicali dell’umanità letteraria italiana. L’impressione di anacronismo è però subito dissolta. Il rapporto con la conoscenza diventa la cifra di qualcosa d’altro. Infatti, di là dal caso e dalla fuffaggine con cui è affrontata, questa grafocrazia è una fotocopia, che si legge con grande chiarezza, perché, gettando la maschera, rende visibile agli occhi del lettore processi idolatrici assai complicati. Grazie a questa dichiarazione di intenti, al lettore de Le Ceneri di Gramsci può venire in chiaro che cosa siano i disturbi protofascisti e di come se ne possa ammalare, molto peggio e più dignitosamente che imbrattando infinite tele e carte da fumetto. Edulcorazione dopo edulcorazione, il Fuffologo martorizza Gramsci sulla sua malattia narcicistica di copista. Con molta chiarezza rappresenta l’abnorme situazione onde i sinistrati e i radicalismi vari – a fini liberali e liberisti – scendono a patti con la società dell’immagine, con la disciplina interiore imposta nel nome del trash, e i protofiguratori e i protofuffocrati si avvalgono dell’Immagine della Critica per tenere prigioniere idolatrie intere. Infatti, nella rubrica Sotto la Mole, Antonio Gramsci scriveva del suo futuro avvelenatore: «Volgiamoci attorno a noi: quante nostre conoscenze entrano in questa cornice! Ci sbizzarriremo a trattegiarle volta a volta che la buona volontà e l’occasione ce ne offrirà il destro. Intanto ci teniamo a far sapere che Torino possiede il tipo dei tipi; qui infatti «mangia, beve e veste panni (citiamo il suo Dante) il tipo dei tipi, l’idiota degli idioti, non solo con decoro, ma anche con decorazioni, quante decorazioni!» (in l’Avanti, n. 349, 17 dic. 1915). Sia quel che sia, l’attuale difficoltà di separare il buon uso del «pensiero critico» dalla sua cieca accettazione neo-fascista testimonia un certo disturbo: l’epoca dell’indifferenza dei segni comincia ad essere stancante, tutto accade come se la vecchia formulazione di Antonio Gramsci (riguardo al kitsch e all’idolatria come stile di un’epoca incapace di sviluppare un pensiero) ritrovasse, nuovamente, una certa pertinenza. La visione di Gramsci è immediatamente morale (poiché tutto ciò scaturisce, appunto dal divorzio tra l’estetica e l’etica): l’idolatria rappresenta, a suo modo di vedere, il male nei valori dell’arte. Egli segnala in un testo sull’Avanti degli anni precedenti al ’20, la complicità di fondo tra il kitsch e i regimi idolatrici: c’è, così, un simulacro fintamente critico; gli stereotipi idealizzati della fuffa, che casca nel culto dell’immagine, e la mediocrità della fumettologia mascherata dai clichè della sacralità del simbolo politico stesso, sono ciò per cui Gramsci si è sempre battuto e nel giorno della sua morte, grazie ai fumettisti, se lo trova ritorto contro. Un’idolatria apparentemente inconsapevole e propriamente fascista (la magniloquenza di un culto, le enfasi socialiste che sottendono il nuovo nazismo, i responsabili di un pensiero politico ridotti a statue idolatriche). Senza dubbio non è un caso, sia detto di sfuggita, che i segni preferiti dei populisti fossero l’esecuzione maldestra di un rifacimento guttusiano, mascherato dall’epigonismo del Male e delle strisce dei Cannibali (i suddetti grafici se lo farebbero proiettare, o introiettare, regolarmente, sino alla nausea). E oggi, secondo noi? Diciamo che ormai c’è, al di là del trash idolatrico e borghese (quello del Ring: in cui si allineano i calciatori del Toro insieme ai valorosi uomini illustri del pensiero, compreso il povero Gramsci: magari, definito, con spregio pseudoeretico, Sant’Antonio da Ares), un iperkitsch populista, pseudostalinista, legato al trionfo dell’idolatria di massa. Esempi, alla rinfusa: i fumetti sui personaggi della storia e della filosofia che estrapolano sentimenti e pensieri all’acqua di rose, i mobili rustici con le etichette votive dei fallimenti populisti del Novecento; i grandi macchinari cinematografici, nella loro esagerazione decadente, tipo: Le livre d’image (vedi Jean-Luc Godard). Ciò che definisce l’idolatria è evidentemente quel che vi aderisce: scambiando i segni di un pensiero che vorrebbe rimanere “intelligenza critica” e, quindi, esprimersi solo attraverso la parola resistente; ma che, invece, è destinato a trasformarsi in immagine truccata e rifatta (con prese di mastoplastica sacrale). Sia quel che sia, nella prospettiva di Gramsci, la divisione è netta, le linee di demarcazione ben delineate: da un lato, il pensiero che si sviluppa con la pratica realistica della lingua; dall’altro, l’idolatria del cartellonista, il cattivo gusto, la menzogna, la paccottiglia di chi usa il suo stesso pensiero per mostrarlo ironicamente come un santo, come la goffa fuffaggine di se stesso. Nessuna riconciliazione è possibile: la lotta della lingua politica e del pensiero contro la sua stessa idolatria, nasconde quella del bene comunista contro il male della mitologia. Tra gli artisti di FB oggi è alla moda disprezzare l’atto di scrivere, sospirare quell’istante quando, finalmente, si sarà oltre la parola. Culto della persona, manifestazioni di massa on-line (senza la massa critica), cortei e cerimonie di immagini solenni, congerie sfavillanti di icone. Quando la gestione del potere artistico assume la veste e la forma di un rito religioso si sfiora l’idolatria, ovvero la maniera migliore di esaurire le parole di Pier Paolo Pasolini (che ripensano Gramsci). Pasolini, rilasciando a Furio Colombo quella che sarebbe poi diventata la sua ultima intervista, disse d’aver «nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone», perfettamente simili a esso, «uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo».

Direbbe il pittore-fumettista di turno: ho una grande collezione di eresie, che tengo sparse per i siti e i profili FB di tutto il mondo e sogno di diventare il nuovo Renato Guttuso, ovvero il nuovo idolatra delle mitologie critiche. Senza la mosca la ragnatela è perfetta, ma di una perfezione inutile. Allo stesso modo, l’idea grafica di un marchio ideologico si poggia su un sistema segnico che mira a rappresentare ma non più a significare –  per esempio l’idolatria di Gramsci – per poi dire di ricordarne la morte senza averlo mai letto. Come dire poesia e libertà nella logica costruita dell’idolatria e dall’immagine. Ma il marchio dell’icona politica è qualcosa in più di un codice segnico? E la politica-spettacolo, la celebrazione idolatrica di un pensatore, che si è speso nella parola, e non in una sua stessa immagine, riesce così a conservare il peso storico che poteva avere, intorno e dentro al suo logos? Non c’è grafico, pittore o fotografo che, in questi giorni di rimembranza politica sull’idea di Gramsci, non ricorra al potere seduttivo del culto della persona, della pubblicazione dell’icona e della simbologia del fotograficamente morto, per consolidare e allargare il proprio dominio grafico, acquisire l’identità artistica del martire, mobilizzare la collettività di FB intorno ad un’icona di cui non si è mai letto un libro e non si sa niente. Nel passato come nel presente, nelle dittature come nelle democrazie, nelle società maggiormente secolarizzate come in quelle più religiose, chi ha assistito spesso a questo scempio idiolatrico? È l’immagine che da sola domina Le Livre de l’image (della storia), di ogni storia? Perché? Perchè i rituali e le liturgie planetarie dell’icona di Gramsci nel ricordo della sua morte ripropongono giorno e notte, con straordinaria evidenza, le due componenti essenziali del feticismo? Ma forse queste derapate segnalano anche dell’altro: noi siamo manifestatamente entrati, oggi, in una terza fase acuta del nostro rapporto con l’idolatria trash (Gabriele Perretta, Il trash, in Flash Art, n°195, déc. 1995/janv 1996), che si potrebbe definire liquidità inconcludente. Il termine, come ho già detto, intendeva dare, inizialmente, un benservito alle ideologie neo-liberiste; ha finito, a poco a poco, per indicare una sorta di atteggiamento al tempo stesso ecclettico e cinico: quello che non vede nella memoria critica altro che un serbatoio di segni, nel quale è possibile esercitare liberamente l’egoistico lapis che «trashizza tutto»; che in reazione al “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà” non esita a mischiare generi e valori etici, morali politiche con fantasmi di immagine imbottite di fake news; afferma un tutto è permesso ludico (non la funzione ma la finzione) e, di conseguenza, la scomparsa di ogni valore letterario (nel senso che Gramsci poteva attribuire alla parola e alla lingua). In altre espressioni, si tratta di una sorta di irregolarità del principio di funzionamento rivoluzionario, di cui qualcuno come il Fumettocrate s’è fatto apologeta: “Non abbiamo più il tempo – scrive – di cercarci un’identita nelle parole di Gramsci, in una memoria critica, in un passato sofferente, né, del resto, in un progetto o in un avvenire. Ci occorre una memoria fulminea, un collegamento immediato, una sorta di identità idolatrica e pubblicitaria che possa verificarsi nello stesso istante della pubblicazione su FB”. Ed anche: “In termini di modi o di apparenze, quel che si cerca non è più tanto la profondità di un «pensiero critico», o la libertà di uno «strumento di resistenza» che ha un senso politico, è il look”; “Il look non è già più di moda, è già una forma sorpassata dell’apologetica di un pensiero … Ciò si fa gioco degli strumenti di analisi”. 

I pensieri fatti segni, in un simile atteggiamento, diventano indifferenti: né referenziali (non rimandano più alla verità), né connotativi (non suggeriscono nulla), ma fotograficamente svuotati in ogni senso: semplici elementi formali di una panoplia priva di regole, costantemente messa sottosopra, redistribuita. 

La caricatura grafica del “Santo di Ales”, quindi, può tornare in piena innocenza: non più come materiale critico (suscettibile d’essere integrato, trattato o deviato), non più come sovvertimento, ma come uno stile uguale agli altri, come lo sfogo di un «crostaro della domenica» che trasforma i Fantasmi (Fotografici) in Madonne della Malinconia. In altre parole, il secondo grado dello strumento critico gramsciano muore del proprio apparire, sparisce in modo tumorale, quando è rimasto nell’immagine. Potremmo anche definire il nuovo fascismo simulacrale come il paradossale ritorno dell’adesione al centro stesso di quanto sembrava maggiormente allontanarsi».

Discutendo e indagando il disegno, lo sviluppo, la struttura «dell’ordoliberismo» non sono pochi gli storici che non riescono a compiere le necessarie, preliminari chiarificazioni della prospettiva in cui si pongono (si trovano). In Italia se ne sono dati diversi casi, presenti a tutti. È un po’ come se lo studioso a un certo punto si muovesse con imbarazzo e confusione girando uno strumento ottico pur elementare come il binocolo, che gli restituisce immagini ora ingrandite ora rimpicciolite, fino a fargli perdere la memoria e il conto delle prove effettuate, lasciandolo al punto di prima e con in più un ragguardevole dolor di capo. In realtà lo storico da solo non può farcela; quanto meno dovrebbe essere sorretto da un forte spirito di ricerca e di esplorazione sul campo, e dal robuto e organico ricorso a una o più scienze sociali, altrimenti viene troppo facilmente rigettato nei limiti precostituiti della sua cultura museal, come direbbe Adorno. In questo senso ha ragione T.W. Adorno, quando scrive (in Prismi, Valery, Proust e il museo[1953], 1972) che: “L’espressione da museo (museal) ha in tedesco un suono sgradevole. Essa indica oggetti con i quali l’osservatore non ha più un rapporto vivo e diretto, e che già per conto loro vanno morendo. Tali oggetti vengono conservati più per un riguardo storico, che non per un bisogno attuale. Museo e mausoleo non sono collegati soltanto dall’associazione fonetica. I musei sono come tomba di famiglia delle opere d’arte. Essi testimoniano la neutralizzazione della cultura. Tesori artistici vi sono accumulati: il loro valore di mercato scaccia la felicità della contemplazione. Eppure non si può fare a meno dei musei” (idem. p. 175). Infatti, la questione della museocrazia della cultura critica, compresa quella dell’arte contemporanea è malposta, fumettografata e per certi versi persino “inattuale”, se rimane affidata a questa o quella istanza ideologica.

Sul terreno della pura ideologia, la contestazione del museal può rovesciarsi nel suo contrario. E questo sembra essere il fenomeno prevalente in Italia, ma con qualche rilevante eccezione. Intendo parlare della riscoperta di Antonio Gramsci e del suo modo di intendere l’arte, la conoscenza e la pedagogia. In particolare nelle sue Lettere dal Carcere, pubblicate postume nel 1947, emerge netta l’opposizione a una interpretazione innatista dello sviluppo umano, in base alla quale il bambino contiene in potenza l’insieme delle acquisizioni cognitive future e, quindi, l’educazione non ha che da seguire lo svolgimento spontaneo e naturale dello sviluppo di tale patrimonio innato. Nel ribadire la natura storica della formazione dell’individuo, Gramsci elabora il concetto di favola come pilota, intesa come intervento intenzionale riferito non soltanto al rapporto insegnante-alunno, ma alla liberazione sociale nel suo complesso. A un modello di traduzione della Favola centrato sulla confezione popolare fine a se stesso, Gramsci contrappone un modello centrato sullo sforzo, sull’impegno, sulla traducibilità anti-museal. L’apporto che lo strumento della Fiaba può dare alla pedagogia anti-museal non è apporto di soli metodi; essa ha contribuito a chiarire il carattere della didattica sociale come scienza popolare e sfera politica, liberando l’una e l’altra da molti miti artistici. L’arte della narrazione, l’arte della parola, diretta ai bambini non è propaganda: Gramsci è estramamente critico nei confronti di quanti pretendono di arrivare ad una nuova arte con l’ideologia fumettologica e reificata della storia banale, attraverso un atteggiamento moralistico, parenetico, didascalico, o peggio ancora repressivo: ciò è possibile solo scavalcando il museal e aprendo nuovi orizzonti intellettuali e morali (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1972; id., Q XVII).

Antonio Gramsci, Quaderno fai Quaderni, IAGT …

La «cura di sé»: è innegabile che per Gramsci la letteratura sia stata una prassi per oltrepassare i tanti, enormi, momenti di difficoltà della sua vita. Dunque, la letteratura come ‘‘strumento’’ per non smarrirsi. In una lettera del 27 agosto 1928, a riprova di quanto i libri gli siano necessari, scrive: «Ciò che mi ha reso duro il carcere, finora (a parte tutte le altre privazioni che sono portate dalla mia situazione) è stato l’ozio intellettuale». Molte altre volte – e con Piero Sraffa e la cognata Tatiana, più che con altri – Gramsci farà riferimento a questo suo fortissimo legame con la dimensione autonoma e strutturale del libro vivo: un legame quasi salvifico che non ha niente a che fare con la nomenclatura illustriazionistica e con la sua stessa musealizzazione. Non è esagerato dire che in Gramsci sono chiarissimi i riferimenti – a nomi e autori – cui si è ispirato, durante il corso della vita, nel costruire la propria personalità e la propria dimensione coscienziale: pensiamo a Novalis e alla sua idea di autoconsapevolezza, dentro questa figura di pensiero c’è quasi un’intuizione iconoclasta che allontana Gramsci dal populismo «guttusiano» e da altre idolatrie grafico-pittoriche (A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Einaudi, Torino, 1965, p. 224). L’apertura a, l’immersione ne, la parola d’altri: condizione e modalità del dialogo, ma dialogo è ogni favola della libertà destinata alla coscienza. Quasi un oblio dell’artista-guttusiano nella memoria dell’altro, quella memoria dell’altro che è la scrittura stessa dell’altro, che già è fuori dalla propria e dall’altrui superficie dell’immagine. Un oblio come dedizione: a un atto di scrittura aniconica che non lascia indenne chi la pratica e chi la percepisce nella traduzione coscienziale. 

In fondo, in fondo, nell’odierna società ordoliberista, l’individuo è fortemente influenzato dalla somministrazione di stimoli e informazioni. Nel mio recente libro in.finite vie di toni la spirale telepanottica fa il quadro della situazione mondiale, definendo cosmocapitalismo un protezionismo compatto, organico, liberticida, capace di riorganizzare il tempo, lo spazio e sfruttando agenti nocivi e aggressivi (come il Covid 19), fino ad infiltrarsi nel più piccolo interstizio della nostra società, investendo così ogni attività quotidiana per introdurre fitte pratiche biocratiche e virocratiche. L’uomo, così come l’artista, liquefatto, ridotto ad una macchinetta turboliberista consumante e consumata, non è altro che uno dei tanti componenti di una rete percettiva proiettata verso l’occulto, non più l’inconscio ottico ma il conscio predigerito. L’esigenza da cui muove la costruzione di una esposizione museale, fin dal titolo, è quella di un’inversione rispetto ai connotati attribuiti tradizionalmente all’immagine, per cui essa sembra doversi semplicemente esibire, spogliandosi di ogni riferimento materiale. Il presupposto è che l’immagine del Museo, e la sua stessa collezione o esposizione temporanea, acquisisca significato solo rispetto allo sguardo, essendo dotata di una leggerezza che scorre parallelamente alla mobilità della vista: «Solo quel movimento la vivifica, liberandola dal destino di essere».

Un bambino si avvicina con un misto di timidezza e stupore al pensatore di Rodin, ingrandito sullo schermo del salone di casa. Uno scultore contempla l’opera appena finita, soddisfatto di aver dato corpo alla propria ispirazione dopo aver letto l’ultimo articolo sul Covid 19 e aver portato la sua creazione su FB. Un giocoliere esegue alla perfezione un nuovo numero che gli è costato mesi di prove, unicamente per i suoi contatti su Istagram. Che cos’hanno in comune queste persone, soprattutto in un momento come questo, in cui lo slogan più diffuso è “io resto a casa”? Tutte e tre potrebbero esprimere la sensazione che provano esclamando: «meno male che c’è il web, altrimenti, come facevamo a dar seguito alla richiesta di fruizione della bellezza?». La “cosa” di cui liberarsi è il corpo reale, la materia stessa da cui è costituita l’immagine, il supporto su cui grava il peso e l’opacità della sua messa in opera. Eppure, quest’ultimo aspetto non viene definitivamente cancellato, piuttosto rimane sotto forma di un “resto” rispetto a cui la percezione non appare un continuum, piuttosto sperimenta un’interruzione. Fra lo sguardo e l’immagine, fra l’immagine e il corpo dell’immagine, fra l’immagine e la cosa, c’è un filtro percettivo rarefatto dal sistema e dal suo stesso stato di senilità. Questo scarto non è una condizione contingente, ma riguarda specificamente il meccanismo stesso della visione. L’occhio si esercita sulla memoria del vecchio, a partire dal suo stesso battito, come da un punto di oscuramento. Come il battito del cuore, anche nel caso dell’occhio si tratta di una sincope, che rende possibile la vista di qualcosa che non c’è e che non possiederemo mai. L’interruzione non esclude il contatto, ma si presenta come la sua unica sagoma, un profilo da archiviare. Le immagini dei volti non hanno essenzialmente una funzione comunicativa, ma restituiscono ciò che sono, un corpo, un resto, irriducibile al significato. Se il corpo “resta”, si depone al fondo dell’immagine, in modo diverso, il depositarsi implica una forma di conservazione, rimanda alla custodia, alla riserva, al trattenere, al mettere in salvo, fino alla “capitalizzazione”: così come le migliaia di anziani morti da Covid 19. La fotografia del Museo è un’operazione attivo-passiva, si fa “impressionare” dalla realtà e al tempo stesso non la restituisce: «Forse la posizione della fotografia è proprio questa, di occupare il posto di qualcosa che in realtà non è mai stato». Essa non ha fatto che registrare un accecamento, una sottrazione, in cui l’assenza viene sostituita da ciò che è rimasto impresso. La fotografia è subito un supplemento, “ciò che sta per”. Non al posto della cosa, ma al posto della sua assenza. La fotografia, che vorrebbe rappresentare la cosa, diventa immagine, ciò che sta al posto della cosa e ciò che si prepara a sparire, come gli anziani, in anonimi database. La fotografia non può che dire addio ad una realtà che non si è mai data e che non ha mai posseduto: «In ogni fotografia è all’opera la rovina, l’incidente del Covid19 che non si vede, che resta minaccioso e invisibile, è lì come una memoria museale astratta». Se vi è un rimando, al tempo stesso necessario ed impossibile, al corpo dell’immagine, questo “resto” non può che apparire da sempre come già “cenere”. Il corpo stesso non è una realtà a sé presente, ma è già deposto, preso in un’inaggirabile anacronia museal. L’immagine viene separata dal corpo dell’uomo che la portava, così come l’immagine è separata dalla realtà che rappresenta; così come il significato dell’immagine, che rimane inaccessibile, viene separato dal suo corpo, accumulato disordinatamente fra gli altri. Le foto non restituiscono la realtà del Covid19, che non è rappresentabile, non restituiscono l’identità dei protagonisti, di cui non si sa nulla, non restituisce l’identità del popolo “incidentato”, a cui è stata sottratta la realtà. Si tratta della paradossale esperienza di una comune separazione, che non risarcisce nessuno della propria identità.

La generazione z, figlia dei baby boomers e della rivoluzione digitale, nella quotidianità, ha accettato una serie di dispositivi elettronici in grado di comunicare ed esprimersi. L’interazione digitale fittizia, ovvero l’ostentata capacità di connettere il proprio corpo con quello tecnologico in maniera simbiotica, è oggi una richiesta sempre più impellente e i pianificatori del settore non possono non ascoltarne le voci. Apparentemente gli oggetti sono in grado di parlarci, parlano a noi anche per ottimizzare le prestazioni che la società ci impone, sempre improntata verso l’iperproduzione e il miglioramento del “sé biotecnico”. Gli automates ci perseguitano, si trasformano in videomates e in viromates, investono la nostra percezione domotica e telememoriale, stimolano le nostre sinapsi a raggiungere delle prestazioni finanziarie troppo alte per essere sopportate dalla biologia umana. La vergogna prometeica non è altro che la risposta al un riparo di una malattia anonima e interminabile, un codice alpha, nella quale invisibili corona e incalcolabili sequenze di batteri prendono il sopravvento a discapito della libertà del corpo percettivo e i processi di surrogazione sono l’inevitabile conseguenza di tale subordinazione. Quando l’arte incontra la sfera cibernetica, i processi di sostituzione tendono a non restare indifferenti di fronte all’autorità del contenitore sul contenuto e del Panopticon sul Museo e sul soggetto percipiente: basta un incidente di sistema, come il Coronavirus e l’arte mostra tutta la sua traballante farsa. Il giudizio estetico sul bello e sul brutto dell’arte pervade la nostra percezione elettronica, fino al punto da far dire a Paul Virilio, nel lontano 2002: “Il ribaltamento di prospettiva di una vita planetaria che entrava nella sua fase terminale sarebbe origine di un conservatorismo prima quasi del tutto sconosciuto: una museomania che non avrebbe più niente in comune con l’antica accademia dei musei e sarebbe solo il segno della spaventosa miseria della tecnocultura occidentale. Di tutto si puo fare un museo – culto del trash o pop art misconosciuta, entusiasmo feticista di popolazioni sempre più vecchie per tutto ciò che era stato buttato via, dimenticato, fuori moda, che aveva stancato e disgustato” (L’incidente del futuro [2002] Cortina editore, Milano, 2002, p. 35). Siamo ancora in grado di innamorarci di questo o di quell’opera d’arte, arrediamo la casa con un certo numero di schermi, compriamo alcuni e.book e non altri: in tutti questi frangenti le considerazioni estetiche e percettive (dirette) sono decisive per le nostre scelte. Anche quando commentiamo la pittura di un Museo, una scultura site specific, un disegno di un Gabinetto di Stampe, oppure parliamo di un film o di libri, ci muoviamo tra i due poli della presa diretta e dell’immediatezza. Ma lo diciamo anche a proposito di un pranzo o di un gol durante una partita. È lecito chiedersi se usare i termini presa diretta, immediatezza in contesti così differenti (tra di loro) non equivalga a sovrapporli al significato di fiction, di intrattenimento, di percezione stratificata dagli schermi, di terz’occhio schermatico da telemuseo. Percorrendo le sale del museo ci ricordiamo ancora, contemplando una pittura di Courbert, una scultura di Giacometti, o un dipinto di Leonardo, che il bello sarebbe una cosa completamente diversa. La solitudine della fruizione digitale, la difficoltà di esistere nel labirinto dei media e del linguaggio post-mediale, le forme della speranza verso un analogico che ormai fa parte solo della memoria del ‘900: sono i temi preferiti del cittadino liquido, globale: la storia di due visioni nel romanzo della catastrofe post-moderna si trasforma rapidamente in un allegoria della ricerca dell’altro; la storia del prigioniero senza via d’uscita e del suo carceriere nel complesso del Museomane (o del Museale) e il catastrofico critico che invece nella tesi sulla storia, di Walter Benjamin, introduce un carattere distruttivo come paradigma di un cambiamento. Non v’è dubbio che la lettura di un’opera d’arte situata, al di là del nostro ambiente familiare, costituisca, per la maggior parte dei lettori essenzialmente un piacere antico, un godimento sulla soglia dell’inferno, un diletto, o un hobby, come spesso si legge nei curriculum vitae che vogliono apparire molto merchandising.

Quanto si è venuto dicendo, non esenta da rischi nella scelta delle letture legate ad alcune trappole rappresentative e situazionali che spesso turbano, in un senso o nell’altro, la sicurezza della visione, della relazione e dell’esposizione; ma talora creano anche, occorre riconoscerlo, l’occasione di piacevoli costrizioni, allarmi, obligatorietà. Cerchiamo di individuarne alcune. A fornirci nuove prove, a favore o contro l’ampia accezione di fruizione mediale, più adeguata all’uso linguistico quotidiano, sono proprie le normative scaturite dal Covid19. Secondo i risultati di ricerche condotte impiegando le teorie di confronto di Brain Imaging, il cervello sembra infatti diviso dai pareri che si muovono intorno alle teorie di Paul Virilio e a quelle invece che abbiamo ereditato da Benjamin. Virilio – attraverso esempi e situazioni emblematiche della storia e della cronaca, che spaziano dalla genetica all’arte e alla giustizia – sferra la sua requisitoria contro un fondamentalismo tecnoscientifico, che ha trasformato la realtà in telerealtà e la democrazia in una telecrazia, per cittadini infantilizzati e obbligati ad accettare le costrizioni percettive della scatola magica, dello schermo riparatore insieme a invisibili molecole di Pandemia totalitaria. Il progresso, senz’altra finalità che il proprio autoperfezionamento, vede nella connaturata incompiutezza e imperfezione della specie umana la sfida estrema per eliminare definitivamente ciò che è semplicemente umano, analogico, ormai forzatamente desiderabile o obbligatoriamente superfluo. Dunque, mentre Virilio prima di lasciarci, nel 2018, ci ha parlato di un futuro senza avvenire, aperto solo all’incidente possibile e alla sua mondovisione (come succede col Covid19), Walter Benjamin ne Il Carattere distruttivo e in un saggio su Karl Kraus ci ha detto che leggere biunivocamente la tecnica è come rimettere al centro dell’attenzione il problema delle rovine. Benjamin fa proprio il tema delle rovine, unendo nell’unica sfera dei “ricordi futuri”, la critica (della riproducibilità tecnica) come un carattere decostruttivo, ma anche ricostruttivo ed illuminante. Il critico sans phrase, attraverso il recupero della storia, dello sguardo nel presente, rimane a casa per ribaltare l’incidente della fruizione cognitiva delle emozioni e dell’esperienza estetica. Nella mutazione post-riproducibilità tecnica del pensiero progettuale, sembra essenziale salvare il nuovo legame tra museo e società, aprire uno spazio intermedio tra estetica e politica, mantenere nell’epoca dell’incidente una zona di frontiera tra effettualità (del possibile) e conoscenza, promuovere un rapporto di presa indiretta tra sapere e potere, in maniera da riconvertire la formazione pedagogigo-algoritmica in una nuova fase diretta e refoulè. All’interno di questo spazio momentaneo, nello spazio di una fotografia per tutti, possono essere ripensati in modo inconsueto la violenza della pandemia, l’ennesimo infortunio del capitale, il Museale urbano, l’ideologico, il letterario, il fascismo strisciante, la mafia e la telematica.

Torniamo alla scelta delle letture museali nello spazio della domotica: qui si tratta invece di valutare una scelta in base ad un generalissimo criterio pre-selezionato; ovvero, qui si tratta di valutare il gradimento di un’impostazione in base ad elementi palpabili nello spazio e nel tempo; o, ancora, se si vuole, residualmente, di valutare se l’occhio dispone di una presa diretta o di una mediazione strumentale: l’aporia strumentale, vecchia quanto il pensiero scientifico, sta nel trovare il raccordo tra l’uno e il molteplice e vale a dire tra l’infinito universo e gli oggetti finiti. Detto in altri termini: l’identificazione del punto di tangenza fra le scienze fisico-matematiche e le scienze biologiche e dell’uomo. Affondi in questo senso sono stati e sono portati, di fatto, tutt’altro che raramente. Fra i modelli globali parzialmente più recenti rientra per esempio quello entropico, e cioè la generalizzazione – sulle orme di Claude Shannon (ma dallo stesso Shannon ripudiata) – del secondo principio della termodinamica, assunto come superlegge economica e chiave sociologica e politologica universale. L’artista rappresenta solo il punto di inizio, la programmazione iniziale di un processo che non può essere controllato, nonostante i numerosi passaggi obbligati che l’automa è costretto ad affrontare.

Mediengruppe Bitnik, collettivo artistico nato in Svizzera, nel 2014, ha realizzato il bot The Random Darknet Shopper, un elaboratore di calcolo automatico progettato per compiere acquisti random nel deepweb. Con un butget di 100 bitcoin a settimana, il bot compie acquisti nel mare di Internet e spedisce il prodotto acquistato direttamente in galleria. Una volta che gli oggetti varcano la soglia dello spazio espositivo, vengono spacchettati ed esposti ogni settimana per un mese una volta l’anno. Numerosi gli oggetti pervenuti in galleria: una moneta antica, dei jeans, pasticche d’ecstasy, Viagra indiano fuori legge. Dopo che la polizia distrusse e sequestrò alcuni degli oggetti esposti viene da chiedersi: il bot sta compiendo un crimine? Chi assume la colpa se un robot compie azioni che infrangono la legge? Le odierne teorie sulla singolarità e autonomia cibernetica confermano il bisogno dell’uomo di impadronirsi della libertà totale, di espiare le proprie colpe e scaricare responsasbilità di tipo etico. Le macchine di registrazione e quelle di riesumazione testimoniano la volontà dell’artista di concepire gli spazi del Museo (del Museale) come luoghi etici autonomi e costruire microsistemi di interazioni relazionali e sociali complesse in grado di porsi come specchi lampanti di società distopiche o utopistiche. Movimenti interi di designers e progettisti stanno spostando la loro attenzione verso l’essenza oltre la materia, verso l’ignoto. Così come sono state create interfacce per comunicare con Dio, con preghiere taoiste divenute elettroniche e app che ll’epoca del Covid19 permettono di confessarsi comodamente nella propria abitazione, allo stesso modo c’è uno scenario di «deindividualizzazione», che ha ribaltato i suggerimenti di Michel Foucault, segnati nell’introduzione americana all’Anti-Edipo, in «dividualizzazione isolata». Il problema nasce quando è la macchina che smette di comunicare con l’uomo. Una volta che l’oggetto, dapprima inanimato, si incarna, esso perde qualsiasi contatto esterno e sosta negli spazi artistici come residuo vitalizzato di un processo che aveva a che fare con il corpo, ma che ora non c’è più. Quando la carne perisce e cade in putrefazione, a essa ne viene sostituita una perfezionata, prestante, attiva 24/7, apparentemente libera da qualsiasi padrone, anche dal tempo, e in grado di inventarsi una nuova identità biocratica. Quando i surrogati sostituiscono l’uomo avviene il dramma: la loro imprevedibilità e il poter compiere decisioni autonome ci ricorda quello che siamo e forse quello che non saremo più. Alla morte dell’artista, saranno le opere a compiere gesti in memoria del suo creatore e finchè ci sarà acqua, terra o corrente elettrica nell’anima di tali opere, la luce della vita continuerà a risuonare come un futuro ricordo. Il Progetto ID2020 si propone, di poter identificare virtualmente ogni persona del mondo, attraverso l’impianto di un microchip sottocutaneo. Il congegno installato nel corpo conterrebbe tutte le informazioni personali di un individuo e permetterebbe in tempo reale la localizzazione di chiunque. Ma questo apparecchio può essere usato anche come un utensile per la distribuzione di vaccini digitali. Fondamentalmente, il microchip non sarebbe quindi solo un apparecchio per registrare e monitorare tutta la popolazione mondiale, ma anche una tecnologia in grado di avviare una sorta di «immunizzazione digitale». Il vaccino, quindi, potrebbe essere iniettato attraverso il microchip. La tecnologia quindi sta producendo un post-human effettivo, ma sempre più simile a quell’incidente egemone agognato dalle èlite e trashizzato dai fumettografi. Per fumetto transumano (vedi Batman), si intende una sorta di simulazione degenerata dell’umano, un incrocio tra le memorie storiche dell’uomo e l’algoritmo relazionale. L’uomo in questa nuova post-umanità perderebbe di fatto la sua capacità cognitiva, il suo libero arbitrio e non sarebbe più il controllo della tecnologia, ma sarebbe questa a controllare lui. Sembra essere proprio questo il tipo di essere post-museale anelato dalle élite, ovvero non un singolo in grado di pensare e ragionare autonomamente, ma una musealità, nel pieno controllo dell’algoritmo, che opera quanto gli viene disposto.