CLIMATE-CHANGE/BRITAIN-PROTESTS

“Just Stop Oil” alla «critica istituzionale»
[I PARTE]

La rumorosa e inquinata società dell’«influencer capitalism» è sorda e totalmente claudicante: la società a venire, grazie ai performer di Just Stop Oil potrebbe invece chiamarsi veramente una società della “critica istituzionale”. Oggi è necessaria una rivoluzione ecologica che dia inizio ad un tipo di iconoclastia completamente diversa. Si tratta di scoprire di nuovo il tempo del “Van Gogh in pericolo”. L’attuale crisi del tempo dell’arte non riguarda i contenuti del messaggio critico ma i formalismi del “capitale culturale” trasformato in capitale finanziario. La politica neo-liberista della critica istituzionale elimina il tempo dell’Altro, considerato un tempo improduttivo. Il tempo del Just Stop Oil si sottrae alla logica di incremento della prestazione e dell’efficienza, che genera una spinta alla spesa artistica istituzionale.

1. Non dobbiamo fuggire le nostre contraddizioni: “C’era una volta un artista così contrariato a vedere sempre la sua “sfigataggine”, e così amareggiato dei suoi conflitti, che decise di lasciarli dietro di sé, magari di «frustrarli» e di «frustrarsi», di reprimerli e di reprimersi. Si disse allora: voglio proprio fuggir via dall’Immagine. E così si alzò da quella sterile museografia e scappò nell’astrazione concettuale, illudendosi di aver creato il “Manifesto della Critica Istituzionale”. Ogni volta, però, che muoveva un oggetto artistico dal suo studio per fare una nuova esposizione, le sue contraddizioni lo seguivano passo passo. Si disse devo “teorizzare l’alternativa” più in fretta che posso. E così scappò via più veloce che poteva e corse al punto da cadere nel suo spettacolo. Se solo fosse entrato nell’ombra di una di quelle contraddizioni, se solo avesse approfondito la struttura architettonica di quegli IDOLA FORI, si sarebbe liberato della strategia fatale della menzogna e, se si fosse messo a sedere in quel luogo che tutti chiamavano Museo, non avrebbe più fatto altri passi; ma non ci aveva pensato”.

A molti artisti oggi non viene in mente che potrebbero semplicemente sedersi all’ombra di uno dei Simulacri esposti nei loro Musei! Preferiscono scappar via da se stessi come gli artisti del racconto della riproducibilità tecnica tramandatoci da Walter Benjamin! Chi fugge la propria contraddizione artistica corre verso la morte dell’arte e non arriverà mai al superamento de La Repubblica di Platone! È proprio questa la situazione di molti artisti che ai nostri giorni, per così dire, corrono incontro alla «morte dell’arte» solamente perché hanno paura di incontrare le vere contraddizioni del sistema. Hanno timore di osservarsi nei loro aspetti meno espressivi e lineari. Vogliono scappare dalle antinomie che producono, ma, così facendo, approdano ad un’inquietudine che poi abbastanza spesso, si manifesta con problemi di autoreferenzialismo, narcisismo demoniaco e primatismo. Non è un caso che nell’attuale società mediale tra le più frequenti sparizioni del prodotto artistico vi siano oggi i disturbi creati dal delirio narcisistico, dal contrabbando di “ideologie del male” attraverso apparenti affermazioni del bene, da ideologie privatistiche tramite critiche istituzionali e arti autoreferenziali mascherate da “arte relazionale”. Se l’arte del “bene comune” non riesce mai a trovare la sua “dimensione critica”, se viene impalpabilmente sottoposta a richieste eccessive, prima o poi non resta che replicare la recita del suo servizio. Sono moltissimi gli artisti che soffrono di autoreferenzialismo. Alcuni di loro hanno un portafogli integro e sano per le esigenze del mercato che confondono con le possibilità e il decisionismo di potere (vedi ultimo Padiglione Italia della Biennale di Venezia), eppure temono che smetta di essere pieno e hanno paura che la loro arte cessi di primeggiare”! Ma come esclamò Carmelo Bene – Monarca in pectore dei narcisismi volontari – in una delle sue più celebri invettive televisive: “Cessi questo baccano, Cessi”! Disturbi di autoreferenzialismo hanno spesso a che fare con l’angoscia della classe sociale di appartenenza. Si scappa via da qualcosa, per rifugiarsi in una apparente non contraddizione: magari dalla propria disagiatezza per conquistare il trono (è la vecchia storia di Sylvester Stallone che si trasferisce in Andrea Fraser, quella che dall’alto della rete dei Musei mondiali esclama: “Critically Reflexive Site Specificity”). Si ha l’impressione che Andrea Fraser, una delle esponenti della sedicente critica istituzionale, abbia totalmente cambiato parere sulle sorti di quella compagine salutata da una incazzatura di Hans Haacke: «Ma la premessa di base della critica istituzionale, per come la capisco, è che non si può cambiare qualcosa laggiù. Puoi solo cambiare ciò che è presente nel qui e ora del tuo impegno con esso. È importante essere specifici su ciò che intendiamo per cambiamento. Le cose cambiano continuamente, ma la maggior parte dei cambiamenti è solo un mezzo per riprodurre le strutture sociali esistenti. Quindi, critica di cosa, esattamente? E a quale scopo? Abbiamo per lo più rifiutato l’estetismo modernista, l’arte per l’arte, ma lo abbiamo sostituito con quello che a volte chiamo trasgressivismo d’avanguardia, trasgressione fine a se stessa, critica fine a se stessa, cambiamento fine a se stesso. Questo è ciò che sentiamo dal mondo imprenditoriale: cambiamento, cambiamento, cambiamento. Questo significa progresso? Significa rendere il mondo migliore per tutti o semplicemente mantenere o migliorare le nostre posizioni? Di cosa stiamo parlando? Il mondo dell’arte è diventato un luogo in cui la società raccoglie e contiene l’impulso a cambiare, trasgredire, criticare, sfidare e sovvertire. Possiamo lamentarci di questo come cooptazione, ma partecipiamo a questo rendendo quegli impulsi fini a se stessi, piuttosto che avere obiettivi specifici per ciò che vogliamo cambiare. Penso che questi obiettivi per essere specifici ed efficaci debbano essere radicati in un impegno riflessivo con i nostri interessi, le condizioni materiali e i conflitti. 

Carmelo Bene & Lidia Mancinelli

Perché, sai, altrimenti, è solo retorica. Una volta ho chiesto a Hans Haacke: “Come hai iniziato a fare politica?” Ha detto: “Ero incazzato”»(Anne Doran: Dicembre 13, 2016: https://www.artnews.com/art-news/artists/its-important-to-be-specific-about-what-we-mean-by-change-a-talk-with-andrea-fraser-7467 ). Il Museo simboleggia innanzitutto il Potere istitutivo della storia dell’arte, e per esso ci sono quelli che combattono da sinistra per autoseppellirsi e quelli che combattono da destra per asfaltarlo, se non si riesce neanche a dire Just Stop Oil! Ad esempio: negli ultimi anni, l’opera di Christopher D’Arcangelo ha iniziato ad essere riconosciuta come un importante contributo a quella che, nella storia dell’arte attuale, è stata definita critica istituzionale, anche se di questa critica non si avverte nessun paradigma pro o contro le istituzioni. Le polisemie sono essenziali per il linguaggio dell’arte, per cui la rigorosa ecologia linguistica della political correctness pone fine alla seduzione avanguardistica e apre la strada a quella dei Just Stop Oil. Oggi l’ecologia politica viene indicizzata sia dalla “critica alla critica istituzionale” sia dalle lattine di pomodoro sui quadri d’epoca gettate dagli attivisti inglesi. Just Stop Oil. Tre parole che manifestano un desiderio. Quale? Dire addio, una volta per tutte, alle energie fossili. Just Stop Oil, movimento attivo, molto attivo nella lotta al cambiamento climatico, pratica la cosiddetta resistenza (o disobbedienza) civile. La rete ambientalista Extinction Rebellion, Just Stop Oil (l’organizzazione delle due giovani nell’occhio del ciclone per aver lanciato salsa di pomodoro sulla teca de “I girasoli” di Van Gogh al National Museum di Londra) e Insulate Britain, un movimento di protesta che chiede a gran voce la coibentazione di tutte le abitazioni britanniche, popolari e non, entro il 2030, scavalcano i performer e gli artisti che la Fraser definisce autoreferenziali, leggendoli con una critica tipicamente baudrillardiana. Oggi il gioco dell’attivismo politico diretto, che richiede il suo tempo e il suo stato dell’arte, viene sempre più abolito a favore di un immediato appagamento del piacere artistico. La seduzione attivistica e la produzione finanziaria dell’opera non sono compatibili. L’arte fa parte di una capitale culturale dell’eiaculazione precoce. Ogni seduzione politica che si consuma nell’arte, che è un processo altamente ritualizzato, sempre più sbiadisce dietro la necessità e l’esigenza politica, dietro la realizzazione immediata e imperativa di una “sega mentale”. Fare politica è ben altra cosa rispetto all’appagamento performatico del piacere estetico. La libido rappresenta una manifestazione del capitale al livello del corpo performatico ed è quindi avversa all’attivismo. La performance dell’attivismo diviene reale quando diventa trasparente nella rete di una comunità, scambio accelerato di informazioni e di spinte al cambiamento: realtà che fanno spesso uso di metodi di protesta stigmatizzati dal Governo – e da una parte dell’opinione pubblica – perché in grado di provocare “disagio” (nel testo ufficiale inglese si parla di “disruption”): l’incatenamento o la formazione di catene umane, la costruzione di tunnel sotterranei per impedire alcune opere, l’accampamento di protesta, o il blocco del traffico. Tutti metodi in voga da decenni in Gran Bretagna, così come negli Stati Uniti e altrove – più recentemente anche in Italia – per creare proteste sonore, capaci effettivamente di provocare reazioni e, dunque, alzare il livello di attenzione, o quanto meno di visibilità sui temi di cui si intende manifestare. Ma da tempo questo tipo di attivisti sono anche nel mirino della repressione: secondo i dati degli Interni britannici, solo in un mese di lotte gli attivisti di Just Stop Oil arrestati sarebbero oltre trecentocinquanta. 

Andrea Fraser Frame del vídeo 1999 2001

2. Spesso a causa di problemi di egocentrismo o di critica fasulla, come l’amore per il successo personale dei progressisti (che passa come strategia del soggetto post-strutturalista) e l’odio dell’insuccesso impersonale degli ecologisti, si creano aritmie diverse o altre disfunzioni nel cuore delle istituzioni. Se si cerca di sfuggire alla coscienza dello stato, questo continua a farsi sentire nella strategia critica che ben presto si trasforma in strategia di apologia del successo, costringendo ad occuparsi di lui. A volte si parla di nevrosi cardiaca delle istituzioni: alcuni artisti sono fissati sul loro cuore e vivono costantemente nell’angoscia che esso possa arrestarsi. I malati di successo suscitano spesso un’impressione di pena. Assomigliano all’artista della nostra parabola iniziale: sono incapaci di rilassarsi rispetto alla tensione arrivista e di godere della sola esposizione, non riescono a mettersi a sedere all’ombra di una delle contraddizioni del sistema dell’arte. È una malattia tipica del manager: fare sempre qualcosa di importante, fino ad inventarsi la critica istituzionale. Per questi artisti occuparsi della propria contraddizione è cosa da kamikaze e, pertanto, preferiscono arrabattarsi coi loro disturbi contraddittori occultati. Oggi è tornata ad essere di «estrema disattualità» la via che conduce alla menzogna della “critica istituzionale”, quale fu descritta soprattutto nelle strategie atlantiste dell’arte degli anni ’70; l’inquietudine del “rampantismo engagé” è diventata la filosofia del nostro tempo. Tantissimi artisti si lamentano, perché non riescono a sostituire la Storia della Notte e il Destino delle Comete di Gian Maria Tosatti. I primi strateghi della critica istituzionale sapevano, per esperienza personale, che non basta una compagine per occultare un bisogno artistico: basta ricordare la lettera di Hans Haacke al libro di Lea Vergine, Attraverso l’Arte (Arcana editrice, 1976). Per trovare la risoluzione dei conflitti della “critica istituzionale”, avviati da altra critica e da altri rapporti con il sistema delle arti occorrerebbe percorrere un lungo sentiero che, alla fine, attraverso la franca conoscenza di sé e l’incontro con la falsa concettualità di se stessi, conduce altrove; allora soltanto la scrittura di Jean Gimpel (Contro l’arte e gli artisti, 1968; cfr.: https://www.exibart.com/personaggi/contro-larte-e-gli-artisti-la-costruzione-del-nuovo-con-lantico/m) potrà trovare pace. Si tratta di un altrove molto difficile che i maghi del “deconcettualismo engagé” alterano in una via invitante che promette di entrare nella strategia incantata della critica al Museo, in mezzo al tumulto dei Cimiteri Espositivi. La critica istituzionale affronta da un punto di vista estetico-tecnico il processo di transizione che porta l’essenza di un immagine da iconodula, vale a dire venerativa, a iconoclasta spostandosi sul piano concettuale per concentrarsi più sulla forma che sui soggetti tout court. Volendo rendere analitica questa strategia, possiamo parlare di una vera e propria costruzione della «Menzogna riformista», che parte da un approccio strategico e, attraverso una manipolazione puramente finanziaria, sublima il reale suddividendolo nei propri pattern e trasformando il disegno/paesaggio originario in strutture di natura pseudo-concettuale. Si tratta di un’operazione “iconoclasta della critica”, nel senso etimologico del “rompere un’immagine per mettervi il concetto di possedimento”, che fa pensare a un mosaico estremamente estetico e che rende la strategia di potere astratta. Una prima fase è quella di gruppi come la “critica istituzionale”, figlia delle contraddizioni massimaliste del neoavanguardismo (art & language, arte e sociale) – i teppisti savant figli del boom economico e poi dello sboom della borghesia sinistrata della post-avanguardia. La cultura che professano è di tipo postmoderno, ma progressista. Si tratta di una cultura artistica in senso contro-antropologico, non in senso operaista come vorrebbe Bifo, e,in questa fase l’artista resta elitario e privilegiato dalla produzione della cultura che consuma. Per di più, lo stile ribellistico delle banducole della critica istituzionale non ha obiettivi definiti: finiscono con l’odiarsi e azzuffarsi a vicenda ai confini dei rispettivi campi da conquistare nel segno del nuovo potere. Nel corso degli anni Settanta, con modelli diversi (tentativo di rabberciare un manifesto di critica istituzionale, sviluppo dell’artivismo, strategie d’assalto che si concludevano tra imitazioni dei Provos e di Fluxus, etc …) ma in fin dei conti convergenti, nasce la categoria dell’estetismo politico o dell’attivista artistico politicamente engagé, che segna il passaggio da una concezione puramente sperimentale e legittima nel campo della “libera pratica artistica” a una politica socialisteggiante o socialdemocratica dell’artista da Festa dell’Unità. Se il gruppazzo artivista si occupava degli angusti confini della propria strategia-ghetto, ovvero simulare la pratica politica per conquistare le forme del “potere adulto”, soggetti con aspirazioni collettive che lanciano segnali di pratica etico –politica della comunicazione sono destinati ad essere confusi con performance audaci – ma pur sempre performance – che vorrebbero estendere la “difesa della natura” (Joseph Beuys) piantando alberi e fondando veri movimenti ambientalisti, invece di concorrere a modificare “corsi di ruscelli” e specializzarsi in “opificio delle pietre inutili”. Intanto, la cultura della “critica istituzionale” conquista nuovi spazi di potere, pubblica con le case editrici più inverosimili, concorre ai premi curatoriali più ambiti, scala le vette della Biennale, della Triennale e della Quadriennale simulando “officine senza lucciole” e Musei disposti a far sfogare il raccomandato di turno, per compilare l’antologia degli insuccessi dei nuovi catastrofisti della sinistra dem, dei nuovi nuovi futuristi del fascismo e del razzismo mascherato da tardo-operaismo! Nell’indubbia crisi attuale dell’attivismo politico ed antisistema si può distinguere un’estetica per l’estetica (che tra i progressisti ha buona reputazione) da una critica all’estetismo (che ha grosso modo una cattiva reputazione), che è o vorrebbe essere un fare attivo (un unico fare attivo): viviamo una situazione in cui diversi opportunismi impediscono alla politica dei movimenti di essere politica ed alla poetica dei mondi (della fine dell’avanguardia) di essere qualcosa di non meramente incastonato nell’estetica. Credo che di libertà di procedimento, per l’appunto, sia fatta quella sensazione che noi traduciamo empiricamente per capire una menzogna artistica, nel leggerla così non ci accontentiamo più di leggere o di attenderci la stessa menzogna per l’attivismo etico-politico (ecologico). Il processo si potrebbe definire di “pura ucronia politica”, poiché frammenta la strategia del tempo del mercante, immettendolo nella spazialità del tempo dell’artista. Questi simulacri iconoclasti ottenuti in “one take” (ovvero senza l’ausilio di lavorazioni in post-produzione) divengono critica istituzionale iconodula, rispettano quell’inconscio del sistema dell’arte cui molte mitologie fanno riferimento per vendere il politico nella critica del Museo e trasformare – forse – gli Just Stop Oil in May I Help You? 
(2005, Andrea Fraser, performance eseguita all’Orchard di New York).

Andrea Fraser

Critico e istituzioni cos’hanno da dirsi? C’è un punto di vista secondo cui il gioco del privato e della promozione artistica, ciò che veramente in arte produce il cinismo del mercato, assecondato dallo stesso artista rampante, si vuole tradurre con le istituzioni, vuole divenire legittimo, vuole essere una sorta di refuso o di rifugiato: tra il ribelle e il sottoposto all’ideologia della pianificazione culturale (l’Istituzione). Ma non ce la si può cavare con “conservateur”, “conservatif” e “conservatorial”, o con la maggior parte dei progressismi sinistroidi, che fanno della promozione di oggetti di mercato e dematerializzazioni artistiche delle leccornie dell’Ideologia d’opposizione. Come ricorda Ferruccio Rossi-Landi, nelle sue riflessioni sul Centro-Sinistra Avanguardistico: “Nella misura in cui il rumore o disturbo viene compensato o addirittura sopraffatto dalla ridondanza anche nel caso di messaggi artistici presentatisi come avanguardistici, in quella stessa misura essi acquistano carattere realistico. Ciò di solito vuol dire che tali messaggi vengono ora assorbiti dall’ideologia dominante con tecniche atte appunto ad aumentare la ridondanza e/0 a diminuire sia il disturbo sia il rumore (industrializzazione della produzione libraria, apertura di nuovi canali di distribuzione, uso dei mezzi comunicativi di massa, museificazione, estraniamento-a-sé degli estraniatori da-sé, etc): l’ideologia dominante, col suo solito gioco eminentemente dialettico dentro a confini da non dialettizzarsi, si fortifica allargandosi per mezzo di un inglobamento del nuovo” (F. Rossi-Landi, 1967, poi in Semiotica e ideologia, Bompiani Milano, 1979, p.108). A pensarla così si capisce che il critico non ha avuto altra scelta che quella di trasformarsi in curatore. Secondo il talento e le circostanze dei manager, ha usato la congiuntura storica migliore (fine ‘900) per ricucire la finezza del talent scout; penserà a lungo e adotterà la prima soluzione opportuna; litigherà con i suoi soci di cordata – suoi alleati e poi suoi rivali e insieme terreno di gioco; o li loderà inventandosi una nuova apologia. Il gioco del curatore-artista, senza critica, o con una critica finta, contiene tutte le potenzialità elencate dalle scuderie e strategie galleristiche descritte da Rossi-Landi. C’è il gioco della copertura istituzionale avviata da una critica alla stessa istituzione dove si opera; c’è, ovviamente, la strategia dell’ufficio stampa che si sostituisce alla galleria Privata che a sua volta fa da tramite alla creazione di una collezione pubblica; c’è il giornalista engagé pescato da un dottorato di ricerca o da una piccola casa editrice pronta a lanciare un titolo a la page che può intervenire a giostrare le combinatorie del mercatino, o a offrire e sottrarre strategie. In questa piccola partita meschina, casi come movimento artistico spontaneo fuori dai gangli del sistema è un episodio sfortunato, idee e curatele critiche perdute. Bisogna rimescolare le carte e ricominciare, sapendo che in molte altre occasioni sarà possibile un arrocco ideologico, un gambitto, un corner, un salto mortale salvifico da parte di chi ha gli strumenti di classe per potersi permettere la “critica istituzionale”. 

3. Attraversare le stanze e i ricordi di una istituzione museale porta a constatare la presenza di un’ombra di smarrimento nelle facce di visitatori e di appassionati d’arte contemporanea: viene taciuta con imbarazzo la domanda serpeggiante sul senso di una condizione e di una attività, quella critica e sperimentale, in un’epoca complessa e catastrofica dove spesso “il prodotto raffinato” si maschera di complicazioni e di meccanismi di produzione permanenti, di giochi già fatti e che puzzano di automatismi di potere, di ricerca del consenso presso «garantismi» totalmente in crisi. Gli “artivisti” hanno smesso da tempo di essere considerati un problema per l’industria culturale. Pochissimi parlano ancora di critica istituzionale. L’espressione è caduta in disuso persino all’interno del progressismo concettuale, quel po’ di progressismo rimasto, dove un tempo (“l’art conceptuel”) era considerata il palcoscenico trendy dell’artista engagé o di organizzazioni politiche di Gallerie e Collezionisti a la page. Più o meno dalla seconda metà degli anni ’70, i movimenti artistici alternativi hanno prima stemperato le proprie enfasi nei confronti del comprimarismo dell’arte concettuale, e poi hanno, praticamente, obliato la priorità che si potesse attribuire nel passato a tale questione artivistica. Perché l’atteggiamento sembrava partire dall’intricata matassa artivismo-neo/avanguardismo-rottura-schemi dell’azione politica dell’arte-fiancheggiamento del potere-strategie d’assalto. In quegli anni, d’altro canto, nel mercato interno dell’arte progressista arti-star da opporre sulla scena politica alla retorica del “look prog” e, prima ancora, indi-engagé, corrispose alla perdita secca di etica degli artivisti da parte delle forze esteticiste. E quando le bandierine pubblicitarie non funzionano più, artivismo e prassi politica tendono a ciò che lo stesso Peter Burger, nella Teoria dell’avanguardia del 1974, definisce il fallimento estremo: l’avvenenza engagé. Riprendendo le parole di Marx : «Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà morale e fisica viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore (“Miseria della filosofia”, 1846-47). Parlando di “nuovo esteticismo engagé”, per le illusioni-critiche possiamo fare l’esempio di Andrea Rose Fraser: nata nel 1965, performance artist, nota principalmente per il suo lavoro nell’area della “critica istituzionale”, mentre invece dovendoci riferire al nuovo attivismo, politico-ecologista, possiamo prendere in considerazione il gruppo Just Stop Oil. I Just Stop Oil chiedono lo stop completo dell’industria dei combustibili fossili e non fanno nessun riferimento ad una performatività che potrebbe avere a che fare con la storia dell’arte contemporanea. Lo scorso 14 ottobre due attivisti di Just Stop Oil sono entrati nella National Gallery di Londra per gettare zuppa di pomodoro su i “Girasoli”, famoso dipinto di Van Gogh prima di incollarsi le mani alla parete del Museo. Il gesto eclatante ha fatto il giro del mondo portando i riflettori sul movimento ambientalista che, nonostante la recente creazione, sta da mesi facendo parlare di sé nel Regno Unito. Non senza critiche. Ma chi sono e cosa vogliono gli attivisti di Just Stop Oil? Come il nome stesso suggerisce, gli attivisti no-art chiedono che il governo britannico blocchi immediatamente tutte le future licenze per l’esplorazione, lo sviluppo e la produzione di carburanti, in linea con quanto appoggiato dell’Agenzia Internazionale per l’Energia. Nel corso dei mesi dalla sua costituzione, le richieste di Just Stop Oil si sono allargate chiedendo al governo inglese anche aiuti finanziari per il trasporto pubblico, nuove tasse sui grandi inquinatori e il soddisfacimento dei bisogni energetici di base per tutti i cittadini in difficoltà. Insomma, niente a che vedere con l’artivismo perbenista, che progetta l’occupazione di spazi pubblici e di mostre in prestigiosi musei a finanziamento privato, pari a grandi multinazionali, per legittimarsi come nuove arti-star!