Un gigante americano nel senso morale e fisico del termine ci lascia. John Baldessari, il maestro dell’arte concettuale, è morto il 2 gennaio a Venice in California. Proprio mentre in quelle ore il Presidente di quegli stessi Stati Uniti inaugurava l’anno con la morte del generale iraniano Soleimani. Gesto che ha scatenato una fortissima ondata di tensione in tutto il mondo, del cui esito purtroppo non ci è dato sapere, ma che si è consumato in una rappresentazione degenerata delle istituzioni politiche e dei loro protagonisti, in una specie di parata grottesca a colpi di tweet e contrassegnata da inconfondibili e strane capigliature, ormai tristemente iconiche.
La storia a volte si manifesta con una forza potente proprio nei risvolti. E genera quei rapporti, quelle misure che ci spiegano cosa siamo e soprattutto da che parte del racconto vogliamo essere. E così, due eventi fra loro solo apparentemente molto diversi, arte e politica, incarnati in due figure che più all’antitesi non potrebbero essere, John Baldessari e Donald Trump, diventano emblematici del tempo che viviamo. E per chi ne segue le evoluzioni, a furia di collegare forme e significati, costituiscono insieme uno strano paradosso. Al centro del quale c’è l’America. Il paese che più di ogni altro condiziona e costruisce la nostra immaginazione, i nostri riferimenti etici, i modelli di quello che conosciamo come l’Occidente. Noi stessi.
John Baldessari, con tutta la sua altezza, da intendersi in qualunque modo possibile – era alto quasi due metri infatti -, ha incarnato quel pezzo importante del modello americano nel cui mito siamo cresciuti. E che conosciamo nella sua forma compiuta attraverso una cultura che si è espressa appieno nei decenni del secondo dopoguerra. L’America nella sua accezione più democratica, curiosa, libera. La più bella. L’America on the road, cresciuta sulle orme della beat generation, e di cui Baldessari fu da giovanissimo come tutti i suoi coetanei un seguace.
Nato nel 1931 a National City, cittadina che ha dato i natali a un altro gigante, l’amico Tom Waits -, cresce ignaro di tutto il futuro che avrebbe interpretato. Vive la sua vita in quell’estremo confine meridionale della California, a un passo dal Messico, terra di dimenticati, che Baldessari poteva sfiorare con le sue mani, sognando di andarsene. Magari prendendo la direzione su una polverosa strada di asfalto a bordo di un’automobile, come lui stesso ricorda, inseguendo i suoi desideri in un’America ricca di opportunità. Un’America anch’essa al principio di un cammino, quello di nuova potenza mondiale, e che oggi, altro gioco dei rimandi, sembra diventare fragile come non mai, alla fine di un ciclo, e noi con lei.
Intanto Baldessari in quegli anni frequenta la San Diego State University e prosegue dopo il diploma presso l’Otis Art Institute, il Chouinard Art Institute e la University of California a Berkeley.
Diventerà un architetto, quindi un performance artist, un artista concettuale, uno scultore. E ancora prima di tutto questo, ancora prima di essere un artista riconosciuto ovunque, sarà per anni un insegnante di successo. Un grande insegnante.
Un uomo la cui figura sta ancora oggi estendendo la sua lunga ombra sul presente. Nell’impossibilità di racchiudere in una definizione univoca chi è stato John Baldessari. E cosa lo ha portato, per più di mezzo secolo e oltre, a essere considerato uno dei “god-father” della Conceptual art in tutto il mondo.
Baldessari attraverso il suo procedimento più di tutto ironico, spiritoso, buffo, è riuscito a espandere il concetto stesso di arte; modellando un’intera generazione di artisti tra cui Barbara Kruger, Cindy Sherman, Mike Kelley, David Salle, Barbara Bloom, Matt Mullican e molti altri.
Oggetto di migliaia di mostre e di oltre 200 personali in tutto il mondo, vincerà numerosi riconoscimenti nel corso degli anni, tra cui il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2009 e ancora alla National Medal of Arts.
In questa immagine ideale, Baldessari diventa il termine di un confronto dettato dal contingente. Un termine perfettamente opposto a quello che invece oggi un Presidente come Donald Trum, palesemente autoritario, in un’America in crisi, rappresenta. Il quale si mostra con un discorso politico estremista, un vocabolario ritirato, un’altezza fisica che svetta, certo, ma in modo pericolante, rendendo comico il quadro, così tristemente segnato dai quegli inconfondibili capelli gialli, e quella postura così saldata alle paure di una generazione radicalizzata su stereotipi defunti, e che non sembra più capace di guardare a quella strada polverosa e a quel viaggio indicato a metà del secolo scorso con fiducia.
Eppure John Baldessari non avrebbe amato una raffigurazione dialettica o frontale di se stesso, meno che mai fondata sulla retorica, per la sua sostanziale contrarietà a ogni forma di devozione dottrinaria, o l’adesione a un qualunque modello convenzionale, assolutista o dogmatico dell’arte e della vita. Tutto lo avrebbe spinto a rompere con l’anticamera di ogni possibile visione illiberale dell’esistenza.
Del resto Baldessari è l’artista che fu scomunicato dalla doxa tardo modernista di Kosuth, proprio per la sua scarsa ortodossia alla poetica duchampiana.
È l’artista che nel 1970 con The Cremation Project bruciò in un grande falò tutti i dipinti che aveva realizzato tra il 1953 e il 1966, e le cui ceneri espose al Museum of Modern Art nel New York.
Ed è soprattutto l’artista dei dots, uno dei cicli più famosi del suo intero lavoro. Adesivi circolari posti sulle facce caratteristica predominante di Baldessari dalla metà degli anni ’80 in poi, dopo essersi trasferito a Los Angeles.
E fu proprio nella capitale del cinema che sviluppò la sua poetica, intorno a tutta la cosmologia visiva che Hollywood metteva a sua disposizione. Un mondo di immagini che gli serve per imporre quel suo modo emblematico di trattare i volti e cancellarne l’individualità. Questo semplice espediente ebbe l’effetto di mettere in luce le priorità della visione. Quando viene rimossa la capacità di misurare l’espressione facciale, lo spettatore è costretto a guardare altrove; ad esempio la posizione, il vestito, l’atmosfera, e infine portato ad andare oltre l’immagine, il cliché appunto.
A differenza di alcuni suoi contemporanei, non ha avuto paura dei nuovi media, avendo addirittura recentemente sviluppato un’app per iPhone, e realizzato opere puramente digitali.
Eppure sebbene egli abbia tanto plasmato quel mondo dell’arte, così come lo conosciamo, Baldessari si prendeva tanto poco seriamente, con uno straordinario humor dall’effetto volutamente anti-artistico, che non avrebbe cercato alcuna posa solenne.
Baldessari è quello che in un recente film autobiografico con l’amico Waits, ha detto di sé: “Fra mille anni mi ricorderanno solo per essere stato quel ragazzo che ha messo i cerchi colorati sulle facce della gente”.
Ricordiamo però una cosa, più che un’applicazione casuale, i suoi punti colorati sono utilizzati in modo simbolico. Quello dato proprio dai codici del colore usati in modo convenzionale, ovvero: rosso come pericoloso, verde come sicuro, blu come platonico. E soprattutto: giallo come pazzo. Generando un effetto dirompente, paradossale, comico che forse fa da specchio perfetto a quello che succede in questi giorni, dove è impossibile non essere distratti da quella informe ondata di giallo, che si palesa dai media, a bollinare una testa fra le altre.
La sua ultima esposizione al Laguna Art Museum in California riprende una celebre frase-opera dell’artista, e così che noi lo salutiamo: I Will not Make Any Boring Art.