Cesare Pietroiusti. Foto Giovanni De Angelis

Intervista a Cesare Pietroiusti

Dall’11 luglio al 5 settembre, allo Spazio Murat di Bari, una personale di Cesare Pietroiusti con un testo critico di Jens Hauser. Antonella Marino ha intervistato l’artista romano.

Tre tavoloni bianchi occupano il grande ambiente dello Spazio Murat a Bari. Disposti ordinatamente su di essi ci sono centinaia di semplici fogli in carta, candidi a loro volta, almeno nella fase iniziale. Sono destinati infatti a mutare, a modificarsi con macchie di ruggine, increspature saline, concrezione muffose, nei circa due mesi di durata della personale di Cesare Pietroiusti, “Agenti patogeni e morfogenesi del disegno. Tremila opere in fieri”, a cura di Jens Hauser, in corso fino al 5 settembre in questo hub culturale del Comune di Bari gestito da Impact Hub, che ha prodotto la mostra. Sui fogli sono depositate infatti tre sostanze, sale, ossido di ferro e aspergillus niger, un fungo che cresce sul pane. Saranno loro a continuare l’opera nel tempo, con un processo di alleanza co-creativa che mette in campo agentività “più che umane”.

Pietroiusti, ultimamente ci si interroga molto sulla necessità di superare una forma mentis antropocentrica. La consapevolezza che non possiamo più pensarci separati dal resto dei viventi e dell’inanimato comporta anche l’esigenza di coltivare alleanze trasversali e tessere ecosistemi. La tua scelta si colloca all’interno di questa riflessione neo-ecologica?

Per la verità il lavoro di Bari riprende una sperimentazione che avevo già avviato nel 2005 per il progetto espositivo “Nowhere”, evento collaterale della Biennale di Venezia curato dalla Fondazione Olivetti. Allora avevo esposto della muffa sul pane in una mostra dentro laboratorio di restauro nell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Parlando con i restauratori della carta, avevo chiesto quali fossero gli agenti contro i quali loro combattevano perché lasciavano dei danni, macchie o altre alterazioni. Oltre all’ossido di ferro, al sale o certi inchiostri, mi parlarono di questa muffa che attacca la carta. Considerando che si poteva far crescere facilmente, decisi di provare a provocare delle macchie e allestii nella mia cucina una specie di laboratorio. Mi divertiva l’idea di far crescere una cosa che per restauratori costituiva un pericolo, che un danno potesse divenire un agente creativo. Per la mostra a Bari ho pensato di riprovarci.

I processi trasformativi messi in scena qui sono comunque di diverso tipo. 

Si. Ho deciso di scegliere tre agenti, biologico, fisico e chimico, forse anche perché fanno parte della mia formazione, dei miei studi alla facoltà di Medicina. La tecnica di disegno col sale è un processo semplicemente fisico, poiché si scioglie il sale con l’acqua, poi si mette l’acqua sulla carta e questa evaporando deposita i cristalli. L’ossido di ferro invece attua un processo chimico: si mette la polvere di ferro sulla carta, s’inumidisce e man mano che si produce la ruggine questa crea delle macchie. Infine, nel caso delle muffe di tratta di un processo biologico, che riguarda la crescita dei microorganismi. Di questa mostra mi piace proprio il contrasto tra una formalizzazione molto pulita, il candore e l’ordine minimale e le forme un po’ casuali o il disordine schifoso degli agenti, soprattutto nel caso della muffa che si forma su delle molliche di pane. 

Alla distanza, questa ricerca appare comunque pionieristica. Tanti artisti negli ultimi anni hanno assoldato i batteri e altri microrganismi come loro preziose “specie-compagne”, protagoniste e assistenti del processo creativo. O si sono resi partecipi di quella che Nicolas Bourriaud ha definito “la svolta molecolare”, l’attenzione cioè per “le componenti fisico-chimiche” di una realtà segnata dal degrado degli ecosistemi ma che ci vede tutti interconnessi.

Capisco l’interesse per questi temi, che ovviamente interessano anche me. Però rispetto al discorso legato alla natura ciò che mi intriga è piuttosto l’approccio panteista. Il filosofo romano Emanuele Dattilo nel suo recente saggio “La vita che vive” riprende questo concetto, che fa riferimento al pensiero di Spinoza prima ancora del Romanticismo. Questo è il mio riferente storico e anche mitologico, che è anche vicino all’idea della morte, ad una riflessione su cosa succede dopo del nostro organismo. Questa coscienza del tutto, di un reintegrarsi nel tutto, mi coinvolge molto. Il principio di togliere peso all’antropocentrismo anche. Però su una linea che arriva filosoficamente da Spinoza a Duchamp e pure a Cage…

Se vogliamo attualizzare, si tratta di un approccio “compostista”, che tiene conto delle concatenazioni naturali/culturali tra esseri e cose e del ciclo di molteplici trasformazioni e decomposizioni, di cui i batteri sono parte integrante.

Per certi versi si, ma come dicevo non ho pensato tanto al discorso oggi attuale delle relazioni interspecie, più che altro ho pensato a Duchamp: all’azione del caso della polvere sul vetro. C’è una linea di pensiero che ritiene che le agentività sono sempre occasionali, che alcuni accadimenti possano essere più ricchi e interessanti delle operatività tecniche. Perciò mi ha sempre intrigato che l’autore individuale potesse essere messo in discussione. Nella chiave di Beckett, di Artaud, di Duchamp: questa è la storia su cui mi sono formato.Il caso per me è sempre fondamentale. Già in passato ho realizzato disegni con macchie casuali di vino o caffè. Ma il caso biologico è diverso dal caso meccanico, come i disegni in progress a Bari mettono in evidenza.

A proposito, sei in grado di capire prima quali immagini si formeranno sui fogli?

Fino ad un certo punto e in minima parte. Ovviamente dipende da come io dispongo il materiale. Però poi la modalità in cui verrà macchiata la carta è imprevedibile. Dipende da tanti fattori, tipo l’umidità, la resistenza del supporto, se ci batte il sole. Ma a piacermi è proprio questa imprevedibilità. Nel corso dell’esposizione, man mano che le forme affiorano, i fogli bianchi verranno cambiati periodicamente. Quelli al centro della sala sono pronti e possono già essere sostituiti con altri nuovi; quelli con l’ossido di ferro hanno bisogno invece di più tempo, due o tre settimane. Si prevede di ottenere tra 1000 e 3000 disegni che saranno fissati con un fissativo, firmati e timbrati e a fine mostra donati alle persone presenti.

Il concetto del dono e della distribuzione gratuita sono del resto aspetti importanti del tuo percorso, anche come provocazione critica nei confronti del sistema economico, arte inclusa.

Certo, il mio lavoro ha sempre avuto una dimensione relazionale: ho più volte detto che io non so disegnare nel senso tecnico del termine, per cui ho cercato di farmi aiutare in vari modi. L’azione casuale di microorganismi o di sostanze chimiche rientra in questo ragionamento. E’ un altro dei giochi che mi piace fare all’interno dei discorsi economici. Ho iniziato dal 2004-2005 a dare valore alle opere mettendole in vendita in cambio di idee. Ho regalato banconote come opere d’arte, organizzato negozi in cui la moneta con cui pago invece della banconota è lo sguardo… Sono giochi che hanno a che fare con le dinamiche dello scambio. Tra le dinamiche dello scambio c’è anche l’idea che la produzione artistica la restituisci senza ricevere del denaro. Come avverrà a Bari a conclusione della mostra, alla mia presenza, il 5 settembre.

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