«La maschia boce del buce»
(C.E.Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana)
Che la voce umana sia il più perfetto degli strumenti(musicali) è
(Tommaso Landolfi, La voce umana …)
[…] un insulsa battuta. La voce umana sarà casomai lo strumento più sensibile,
e precisamente, insinuo, a motivo della sua imperfezione.
Nescit vox missa reverti
(Orazio, Ars Poetica, 390)
La vita nella nostra cultura si orienta stranamente al principio: “Giusto è bene, sbagliato è male”. Chi prende una decisione sbagliata, fa una deviazione inutile, perde tempo prezioso, o forse accade addirittura qualcosa di irreparabile. Il simbolo di questa visione delle cose è il dedalo in cui non c’è via d’uscita. Chi capita in un vicolo cieco, ha percorso una strada per niente. Supera nel modo migliore il dedalo colui che compie il minor numero di errori e trova la strada giusta il più rapidamente possibile. Come se questa strada giusta potesse essere il progetto assoluto dell’infinitamente bello, buono e idoneo!
Anche il nostro sistema musicale si basa su questo principio: ciò che conta è fare il minor numero possibile di brutti dischi e di brutte composizioni musicali. Nel compito del musicista, gli errori gravi vengono segnati con due linee rosse, quelli meno gravi con una. Nella maggior parte dei casi il voto risulta dal numero di errori compiuti nello spartito. Nella musica si viene allenati per nove o dodici anni, con estrema pignoleria, a fare tutto giusto. Nella musica accademica, non c’è niente di più importante che giungere sempre il più possibile vicino alla nota giusta, che viene prescritta dal maestro. La «musica da conservazione» prepara alla carriera dello spettacolo e, in effetti, anche nel mondo adulto molte cose sono strutturate secondo un sistema rigido e complesso di errato e ottimo.
In questo contesto, il “cerebralismo (o corporalismo) sonoro” di Trevor Wishart, comunica un messaggio sorprendente. Afferma: l’interrogativo su cosa sia giusto o sbagliato è irrilevante. È un’altra la domanda che conta: “Andare o fermarsi?”. La strada nel “cerebralismo canoro” è sempre giusta, anche se una svolta conduce lontano dal centro. Nel “sonomentalismo” non c’è una strada più lunga o una più breve. Ogni svolta sonora deve essere percorsa nel dettaglio, non si può tralasciare nulla, anche se questo ci devia dal centro. Per chi, però, impara dalle svolte – e dunque non si ferma – gli errori, le sviste dell’informale, non si trasformano in tempo inutile: diventano preziosi tratti di esplicitazione s/partitica. Le ferite delle note si trasformano in luoghi di guarigione, le crisi e le introversioni sonore, le tonalità a-linguistiche conducono all’energia stessa della musica e gli sbagli alla nuova saggezza compositiva.
Compiere nei frammenti non è sbagliato. Una nota frantumata non è un vicolo cieco e tanto meno tempo perso. Non considerare la non-musica, non proseguire nel cammino incerto, fermarsi, questi sono i veri sbagli che potrebbe fare un compositore che si muove nella rinuncia del progetto di Trevor Wishart. Mi sembra di percepire che quello di Trevor Wishart sia un progetto immerso nella qualità del movimento, nella body vocalizzazione, che ci rende capaci di immedesimarci in una dimensione in cui il corpo si sente accolto e avvolto nel medium, con una tale intensità, che solo il nuotare a vista dentro l’acqua fresca dell’improvvisazione è capace di riprodurre una tale idea.

Dopo aver ascoltato e fruito i lavori sonoro-visivi di Trevor Wishart, sono diventato molto scettico verso la frase: “Fa la nota giusta”. Questa frase potrebbe avere addirittura l’effetto di una maledizione, nel senso peggiore del termine, poiché disorienta l’altro sulla strada che sta percorrendo, o può addirittura arrestarlo. Allora, accade proprio quello che non deve succedere: l’altro si ferma, invece di proseguire. Sovente ci troviamo di fronte alla pretesa di fare qualcosa in un altro modo e quindi in maniera più giusta: quanto spesso i compositori soffrono del fatto che gli altri dicano loro che cosa bisogna comporre o s/partire, svocalizzare, gridare, soccombere nella fonica, sfonicizzare il cabaret della voce, del corpo della voce! Esplicitare significa rendere palese, far vedere da sé ciò che si manifesta, ma significa anche mettere in gioco la voce stessa del compositore (dello s/partitore diremmo nel caso di Trevor Wishart: dal latino medievale partitura ‘spartizione’, derivato di partire ‘dividere, separare’, ma anche ‘suddividere, distribuire’), che nel dialogo arrischia la sua finitezza e singolarità. Rendere esplicito invece che interpretare, è l’atto che consente di mantenere all’essere quel carattere di “dono” che costituisce l’evento nel suo tratto ontologico fondamentale. Il fluttuare del segno corpo, negli estremi della s/composizione, liberano dalla coazione a dover cercare continuamente, con il massimo sforzo, la strada giusta. Mi dona la libertà di essere come sono. Devo percorrere la mia strada inconfondibile e devo seguire ogni svolta del mio labirinto per giungere non al centro, ma alla decostruzione del centro, alla decostruzione della voce e del corpo in voce. Quando qualcuno mi chiede: “Come si percorre un suono nel modo giusto?”, la mia risposta è sempre: “Non c’è un modo giusto o sbagliato di percorrere un suono. Comunque tu lo faccia, pensando a Trevor Wishart e al suo lavoro in Viaggio nello spazio (1973, 2xLP, non su etichetta, solo per corrispondenza); Viaggio nello spazio 2 (cassetta, Integrated Circuit Records); Red Bird: A Political Prisoner’s Dream (1978, LP, York Electronic Studios); Vox Cycle (1990, CD, Virgin Classics); Red Bird / Anticredos (1992, CD, October Music); Audible Design (1994, CD, Orfeo la pantomima); Tongues of Fire (1994, CD, Maxi-Singolo, Orfeo la Pantomima); Viaggio nello spazio (2002, CD, Paradigm Discs); Incontri nella Repubblica del Cielo (2011, CD, Orfeo la Pantomima), non c’è un atteggiamento troppo aperto o troppo introverso. Non c’è una strada migliore o peggiore verso la decostruzione del centro della musica, ce n’è solo una che viene percorsa e una che non viene percorsa.
Il percorso di Trevor rappresenta per me un invito a una fiducia di fondo. Quella fiducia che mi induce a credere che la mia vita ha percorso e percorre una buona strada. Le norme quotidiane della notificazione – “in realtà andrebbe fatto così” – possiamo metterle da parte. Non credo che la vita di Trevor sia intrappolata in un dedalo sconcertante, nell’ultimatum della neo-neo-avanguardia, in cui a ogni diramazione sbagliata sta seduto qualcuno che si burla del suo de-costruzionismo. Credo a una strada che il mondo del rumore (vox dei) contemporaneo deve ancora percorrere, così come lo ha percorso e lo sta percorrendo. In fondo, credo alla grande contraddizione, al grande paradosso, al grande mistero dell’a-musica: Trevor da una parte, come essere compositore del segno sonoro-visivo, è completamente libero e completamente se stesso, singolare/plurale e insostituibile; dall’altra è interamente protetto dalla corporalità e guidato dal movimento, inserito in una strada certa. L’eplicitazione del fluttuare del corpo-segno non è un cammino di limitazione, bensì di libertà. È la libertà di non dover reinventare l’improvvisazione, e pure di andare così come nessuno prima e dopo di lui.
Nati col tempo, col tempo svaniremo: performare il «rumore e il lamento della voce» significa aver tempo e, finchè il tempo scorre, ogni cosa può accadere, perché ogni cosa nasce dal tempo del fluttuare, silenziosa maturazione di ciò che viene e del corpo-segno che accade, atroce divorazione di mondi, direbbe Artaud: “perisce, partisce e spartisce”. L’avvicendarsi di partizioni e di spartizioni di rumore, voci e paesaggi, o note troncate è l’apparire della visibilità del tempo e dello spazio nella musica. In essa tutto si “de-costruisce” come un torrente impetuoso, è il tempo stesso del suono: appena emerge alla vista, ogni cosa è subito trascinata via; un’altra giunge e a sua volta sarà trasportata altrove.
Ma è solo questo il controcanto, il controfluttuare tra sberleffo, segno visivo, suono e rumore? Scombussolamento che annienta, illusione e velo sugli occhi, mano immersa nella corrente percussiva che fugge, schizzo-genesi incessante? Jankélévitch ha pronunciato la prima parola sull’ineffabile: “Nella musica e nella poesia l’uomo nostalgico non ha forse trovato il suo linguaggio? La musica, linguaggio ambiguo, non si serve di termini univoci deputati a trasmettere un senso prestabilito, è fatta per esprimere, anzi addirittura per ispirare sentimenti immotivati. D’altra parte la musica non opera agendo direttamente sulle cose per trasformarle, ma prestando una voce al passato impotente e all’irreversibilità infelice – la musica ha nel divenire la sua dimensione naturale. La musica, discorso temporale, è irreversibile come la vita” (V.J., La nostalgia. Storia di un sentimento, a cura di A. Prete, Raffaello Cortina, Milano, 1992, cit. p. 162).
Non si tratta qui, dunque, di un semplice rimpianto per il suono perduto, ma di un anelito vago e struggente ad un altrove del tempo improvvisato, a quella eccedenza interna al tempo rumoristico stesso, che mai però – tranne che nell’illuminarsi del concerto, del live, della trasparenza nelle esperienze estreme della ricerca sonora della differenza – si manifesta in quanto tale. Nessun dentro-forma, nessuna estatica uscita dal mondo può soddisfare questa nostalgia dell’Altro, «dell’Altro fuori-forma» che per noi è unicamente l’altro dal mondo. Sembra allora emergere il tradizionale tema gnostico dell’anima rumoristica straniera e straniante: la patria, cui tende il corpo del fuori-forma, non è della Musica. Ma è proprio di questo struggimento perennemente attivo che, secondo Trevor Wishart, discende quell’anelito metafisico che la civiltà della tecnica cerca in ogni modo di reprimere. In questo senso, tutta la riflessione di Trevor Wishart, sulla tecnica di suono, voce e corpo, rumore e informalità visiva, si potrebbe leggere come la descrizione gnostica di un esilio nello spazio rumoristico della neo-avanguardia: la voce attoriale, da sola nello spettacolo dinanzi al pubblico, è l’esiliata che non ha coscienza di esserlo, ed il suo fluttuare è un tentativo di esorcizzare l’inestirpabile nostalgia, che segretamente conduce il rumore al suono, al vago ricordo della Musica.

Sicuramente ciascuno di noi ha vissuto, almeno una volta nella vita, quel magico momento in cui ci si è lasciati andare ad un atto musicale spontaneo, qualcosa che ci ha donato una sensazione di performatività radicale e di teatralità intrinseca, di equilibrio-squilibrio. È stata l’occasione in cui abbiamo sperimentato una completa presenza del «fuori-forma vocale» proposto da Trevor Wishart & Friends, in cui la mente e il corpo sono stati così perfettamente allineati da incontrarsi, l’uno con l’altro nel segno-suono, come ci suggerisce la pratica musicale e vociferistica di Beach; Singularity / Menagerie (1979, LP, York Electronic Studios); Mouth Music (1982, LP, Hyperion); Menagerie / Beach Singularity / Vocalise (1997, CD, Paradigm Discs)). Questa può essere definita una forma di meditazione nomadica o noniana (mi riferisco a Luigi Nono diluito dalla voce di Trevor), ovvero ciò che le partiture coniugano: il segno-suono delle partizioni è una sorta di fusione fra l’interno e l’esterno dell’aria dello “sgolarsi”, in cui ci si sente tutt’uno. Si parla dei movimenti delle intensità musicali, e dei possibili accadimenti della musica, come di un’esperienza al limite tra la notificazione visiva e la difficoltà di avvicinarsi ai margini della pratica. Ma non è solo così. Se avete avuto un’esperienza in cui eravate semplicemente uno con ciò che stavate ascoltando o vivendo, magari danzando o partecipando ad un concerto di Ian Carr con i Dedalus, quello era una lontana corrispondenza sonora di Trevor Wishart. Praticare la musica per Trevor Wishart vuol dire praticare la corrispondenza della sfera body-artistica e sonora improvvisata. Chi fa musica, e soprattutto chi fa rumore, cerca di entrare in questo stato di unione e, quando ci riesce, sa di aver svolto il lavoro giusto del sonogramma: si diviene consapevoli che qualcosa di sonoro è fluito attraverso di noi, il nostro ascolto, per materializzarsi sulla superficie del foglio, o nella ragnatela di tutti gli strumenti a percussione che stiamo suonando, o sulla carta dove stiamo scrivendo, ecc … L’unione di questi livelli crea un canale privilegiato, attraverso il quale passa ciò che Trevor Wishart vuole esprimerci. L’essere concentrati nel «fuori forma» è una condizione di apertura alla vita, che porta con sé l’indicazione di un portamento rumoristico, di un’espressione che non arroga, che non si prescrive con la forza, ma che sta in ascolto, che si incanta e si lascia stupire dalle situazioni, dai ritrovi, dagli sguardi, dal tocco con l’altro. È anche questo un requisito, una modalità d’esistere che lo «sbraitatore» produce e promuove.
Questo avviene quando la mente è vigile al suono, pronta e attiva a riconoscere il passo di danza dell’aria, come una sorta di corollario volontario e disponibile, e l’azione degli organi vocali non è spinta da una risolutezza o ragionamento forzati, ma da un impulso ineludibile al “rumorismo del sonogramma”. Vale a dire che ci siamo in realtà semplicemente prestati al “fuori forma”, al «Disjecta membra», alla smemoratezza dell’improvvisazione, ai vuoti di memoria, al pericolo, alla sospensione dei linguaggi, al farsi fuori, allo smisurato, “all’informalità dello s/pensiero”, ad una forza più incapace della capacità stessa, a una elasticità più biologica e spesso più esperta di come noi stessi, di solito, percepiamo.
Attualmente, sappiamo bene quanto sia difficile vivere solo con la musica e, generalmente, ne veniamo scoraggiati in base alla riconosciuta difficoltà di affermarsi nello “smisurato”. Eppure, quando vi si rinuncia, sappiamo di stare sopprimendo una sorta di istinto o quanto meno una inclinazione, che si fa fatica a nascondere e che ci viene dal movimento del ’77, quello strano movimento di strani soggetti.
L’istinto musicale di Trevor Wishart nasce da una insopprimibile spinta interiore. Qualcosa che sfugge alle necessità contingenti, che non appartengono alla sola sfera materiale, ma che possono invitarla a scambiare i sensi, creando una dimensione in cui vivere di sola sonorità.
Secondo Roland Barthes, il compositore musicale (o la musicredine rumoristica) è il mezzo attraverso cui l’accidentalità, incantata dal sottrarsi (le pause di Trevor Wishart sono il meno come più, sono delle vere e proprie morfologie della sottrazione), viene a manifestazione con se stesso e con l’altro! Poiché la musica, secondo Trevor Wishart, non potrebbe mai giungere a performazione (ma io direi anche a «perforazione ritmica») senza la materia del multiverso, senza la prosa asemica e sbraitazionale, senza la sconnessione spazio/temporale del rumore, senza le sovrapposizioni, le possibili scomposizioni e ricomposizioni. Il musicista è il “riscrittore della risonanza”, in grado di raffinarla, di reinterpretarla nell’errore, attraverso le “coincidenze impreviste”, in modo tale che il suo stato grezzo ed inerte produca la nuova animazione di spirito.
Wishart ha scritto due libri, On Sonic Art e Audible Design. On Sonic Art espone le sue idee teoriche e filosofiche, mentre Audible Design si occupa principalmente della pratica e della tecnica di comporre con audio digitale: la musica vera è una grafica deprivata, quindi, una vera riproduzione della natura decostruita del tono, una fedele e pedissequa esplosione del multiverso, di ciò che è fuori da noi, nello svelamento della vera essenza, dell’intrinseca verità impercettibile ai soli sensi fisici.
Per tornare all’esperienza della partizione segnico-visiva, vi è quindi un evidente percorso di risalita verso la matrice superiore, che accade evidentemente dopo che è avvenuto lo scambio tra le partizioni e tutti hanno suonato la quarta e ultima tonogrammetria. Roland Barthes, semiologo ed intenditore segnico-musicale, parlava proprio di questo regno superiore della manifestazione musicale ove risiede la preesistenza rumoristica. È questo il luogo visitato dalle infinite vie di toni (come direbbe Angelo Shlomo Tirreno nell’intro a Gabriele Perretta, <in.finite vie di toni>, Affinità Elettive, Ancona, 2019) di Trevor Wishart, il regno archetipale dell’informe, la risalita verso il segno, il colore, il tonogramma e il suono puro e anche la fonosintesi del ritmo, come icasticamente testimoniano i suoi brani e i suoi “contrappunti” visuali.
Tutta la compitazione ametrica è un ricordo dell’origine, è nell’oscurità del pre-diapason. I suoi frammenti vivono nell’interpretazione di Red Bird / Anticredos (periodo di composizione: 1973-77, data di pubblicazione: 1992), nelle concrezioni visuali di VOX Cycle (1980-1988, 1990), nella batteria, nelle percussioni, nell’elettronica, nel monometalchord-canoro di Tongues of Fire (1993-93, 2000), Globalalia (2003-2004, 2010), Two Women (1998, 2000) e American Triptych (1999, 2000) stesso. Le tecniche vocali estese di George Crumb, l’elettronica di Avi Kaplan, l’elettroacustica e le sonorità autocostruite di Red Bird e Vox 5 sono, dunque, la via dell’«ingrasso vocale », l’im-memoria è tale perché ha valore in sé come esperienza formativa e trasformativa. Secondo Trevor Wishart, in quanto causa, il suono-voce svolge la somma provocazione e sta fuori dalla presa del musicista. Non è più un utensile, né uno strumento. È un punto decentrico che, nella corrispondenza tra suono e partizione visiva, impedisce di organizzare coppie di contrari coincidenti o irriducibilmente impegnati nell’ultima necessità funzionale all’economia del concerto. Il rovescio del segno è nel segno del corpo performato che si dematerializza. Trevor pone l’attenzione sul cambio di paradigma che stiamo vivendo, mostrando come la “libertà di gridare” oggi vada incontro a una fatale dialettica che la porta a rovesciarsi in svisceramento canoro: per ridefinirla è necessario diventare urlatori, rivolgersi alla libera scelta, alla non conformità.
La musica si realizza sul fatto di non potersi servire della sola notazione, di quel che si ode nel segno-suono e dell’oggetto mobile, sfuggente e dimentico. E la strumentazione non funge da medium artigianale del visibile, come ritiene la poesia visiva o il conformismo della poesia sonora, ma la via di quel che si ode come il lato musicale tende ad annunciare.
L’intendimento del suono è stato profondamente determinato dal rapporto che l’ideologia della comunicazione ha intrecciato fra le varie serie estetiche, appoggiandosi al linguaggio come punto di riferimento dell’ordinamento della produzione del senso del suono. Un linguaggio che la moderna teoria linguistica riesce a definire, riducendolo a suo oggetto come elemento di saldatura di una forma dell’espressione, nell’intenzionalità del suo tonogramma.
Ritornando sui temi del Vox Cycle (1990, CD, Virgin Classics) e delle sue pratiche, ho letto con interesse i frammenti di discorso estetico di Trevor, soprattutto in quella parte dei suoi passaggi teorici, dove esprime preoccupazione per l’atrofia della musica contemporanea, in parallelo a una consistente diminuzione del supporto “improvvisazionale”. Mi sento comunque messaggero di una tarda riflessione dell’avanguardia critica, quale base problematica e complessa. Il sistema di comunicazione via internet ci consegna, comunque, suggestioni e materiali (immateriali). Personalmente, pur facendo uso, in modo sempre più insistente, del pc continuo a relazionarmi al suono attraverso uno strumento acustico. Tuttavia nella scrittura musicale, anche l’utilizzazione della composizione tramite pc ha una sua non trascurabile importanza. Dispositivi quali l’optocentrismo mediale, o gli interventi automatici sono elementi di sostegno che possono suggerire all’esercizio dell’esecuzione e dell’improvvisazione atteggiamenti linguistici e creativi insospettati, modificabili, plastici.
Occorre, forse, interpretare e stabilire una più stretta sinergia tra possibilità e impossibilità, come dice Trevor Wishart, “farsi luogo-corpo-evento, divenire impossibili”. Ma se non siamo capaci di leggere tale sinergia o non la favoriamo, ritengo, che in modo del tutto spontaneo, la musica stessa troverà le sue fusioni, per sviluppo naturale, come è successo durante il periodo di formazione della nostra generazione: gli anni ’60 e ’70 del ‘900 “con il jazz, con Coltrane, con l’applicazione del teatro e il suo doppio di Antonin Artaud, con la musica creativa, Cage, gli Area, i Van Der Graf Generator, i Weather Report, Napoli Centrale e tutte le forme di sperimentazione artistica, “ascolto del disastro”.” (come dice Trevor).
Penso e mi auguro che «l’avanguardia critica» non scomparirà; essa continuerà a vivere interagendo, con l’energia insospettata, con le altre moderne e futuribili esigenze della comunicazione via etere. Comunque, partecipo con trasporto alle amorevoli preoccupazioni espresse da Trevor Wishart.

Per ciò che riguarda l’Istituto Musicale, sono stato sempre irritato da quella sorta di manicheismo, sancito da più parti, tra mondo materiale del suono e mondo spirituale della musicalità selvaggia, di cui parla Pierre Clastres e sottaciuto da Trevor (La Société contre l’État. Recherches d’anthropologie politique 1974; Archéologie de la violence. La guerre dans les sociétés primitives, 1977). Per qualche vago motivo, in “sonorità”, nello spazio del voxiometro a/linguistico, siamo aggrediti da pedagogiche distorsioni ideali, continuamente enunciate con una certa ridicola enfasi contro il corpo: tra queste, quella che stabilisce che la musica si espande, allontanandosi dal portato materiale, per proiettarsi in modo esclusivo, sul diorama spirituale, senza nessun apparente contatto con la realtà. Non sono attratto da questa versione; piuttosto, sostengo una unità costitutiva dell’alinguistica sonora, individuata da Trevor Wishart, pronta a dilatarsi e sostanziarsi nella pratica del “divenire imprevisto” dell’azione sonora, attingendo dal dato reale e astraendolo dove tale operazione si dovesse rendere necessaria. L’a/vocalità di Trevor Wishart non è ciò che vive in architetture musicali fantastiche, dispensatrici di larvate suggestioni, evocazioni, verità, opinabili certezze. Il sistema a/linguistico, direi glossolalico-sonoro (alla Artaud) è, invece, colui che vive la “corporeità crudele” (corpo biologico, corpo esteso del mondo fisico) e di esso si nutre, a volte nel modo più drammatico, angoscioso se vogliamo, in quanto invade sinesteticamente la pluralità degli ascolti, in quel desiderio innato, tutto umano, di coglierne nella maniera più completa possibile, dettagli di note spiazzate e spezzate, frammenti di sonorità pre-diapason, nuclei di rabdomantiche densità esistenziali, grafiche, pittoriche, teatrali, performatiche. Cercare, quindi, nella struttura della sonorità, nella perfusione segno-corporale gli interrogativi, le angosce, i silenzi, a volte ponderatamente consistenti, ma anche le gioie che la corporeità e la materialità del suono ci consegnano, in modo incessante, è il tracciato vitale che si dovrebbe percorrere per approdare al sempre nuovo fuori-forma.
Nell’incanto del tempo di un sonogramma, il suono diviene trasparente: in esso riduce la maestà del movimento-voce, la sua paradisiaca abbondanza, la sua inesauribile potenza generativa. Questo incanto può affascinare, forse, in rari istanti, anche esaltare l’artista, ma certo non lo consola, non consola il segno irreparabile degli anni, il lento trascolorare di ogni frammento, le situazioni di voce versate su tutte le cose.
Ci avviciniamo, camminando nel suono; già presagiamo l’imminenza del Passaggio: il tempo della spazialità musicale diviene onda e luce, e di luce è fatto il ponte del grande passaggio dalla Musica al Rumore. Più ci avviciniamo ad esso e più l’ambiente circostante, i paesaggi della tecnica, il declinare della storia e la natura si trasfigurano; in essi irraggiamo la luce del rizoma cui sono rivolti i nostri passi.
Tale trasparenza si annuncia già nel mutare dei tratti fisionomici del rumore, nei gesti e nelle azioni di Trevor, nei volti e nelle opere d’arte. Qui, di fronte alla luminosa soglia del tempo e davanti al minuscolo arco del passaggio pericoloso, giunge al suo estremo compimento la stereoscopica visione della struttura cristallina della Nuova Improvvisazione.
Nella simbolica nomenclatura della voce-torace e delle percussioni guanciali che si dispiega nella luce del passaggio, la nostra mano abbandonata, accoglie come nella teatralità centrale il cenno e l’offerta della cristallina onnipotenza del visibile e il corpo del rumore risorge nella chiara rivelazione dell’invisibile. Di tutte le performance, allora, unica resta quella di due mani che, tra rullante e grancassa di corpo si incontrano: Sound Loom – Composers’ Desktop Project (CDP) all’interno del ciclo Acousmatique …