Gabriele Perrretta e Ivan fassio, Agenti del Caos, Millennium Gallery, Bologna 2018

In ricordo del poeta Ivan Fassio

Il 28 luglio, a Torino, dove viveva e lavorava, è morto Ivan Fassio. Gabriele Perretta, suo amico e collaboratore lo ricorda su segnonline

Mi hanno detto che le nostre vite non valgono molto, che passano in un istante, come appassiscono le rose. È impossibile capire dall’esterno quanto si può soffrire per una persona che, seppur lentamente, viene a mancare. Ti puoi abituare all’idea che stia male, che soffra, ma con la speranza che un bel giorno l’incubo finisca. Ma non ti potrai mai abituare all’idea che quella persona ora non c’è più. Specialmente se quella persona era il tuo amico poeta, il tuo poeta amico, il tuo. La poesia, che ti ha visto riflettere, sorridere, piangere, conoscere, intensificare i segni di relazione e di corrispondenza, con la sua parola e le nostre «in.finite vie di toni», significanti. Il poeta, cui potevi chiedere tutti i perché; il poeta cui potevi dire tutto: amicizie, professione critica, ricerca, arti visive, psicoanalisi e soprattutto paure. Il poeta cui dirai sempre: «Non voglio diventare grande». Perché quando l’infanzia e la storia diventano grandi, significa che i grandi invecchiano e tutti sanno che invecchiare significa anche un po’ morire. Vorresti urlare, gridare a tutto il mondo: «No! non è vero, Non può essere vero, non deve essere vero», ma invece… Il ricordo che hai dentro alla tua mente è ovviamente quello di lui, Ivan Fassio che dà da mangiare alle parole, che cammina su e giù per lo spazio della galleria con i fogli scritti dei suoi versi, con il fazzoletto per asciugarsi il sudore sulla fronte mentre sta rotolando dentro ai suoi lacerti poetici; ogni tanto, lo vedi, si sta asciugando ancora. Il ricordo di lui che a settembre compie la sua ultima performance e, una volta a casa, prepara Il culto dei corpi. E non il ricordo di te, Ivan, che sul letto d’ospedale non riuscivi più a muovere il corpo, a combattere quel male che ti stava distruggendo, e neanche a parlare, a sorridere, a scrivere ancora. Dio, quanto hai sofferto! La malattia, nonostante le parole di Susan Sontag, ti stava divorando: e tu lo sapevi. Sei stato proprio tu a dirmi, poco prima di Natale «non so se mi vedrai per l’anno prossimo». E alla fine, per me che vivo in altre città, per me che sono lontano da Torino, è stato proprio così. Questa volta, chi ha bussato non era l’Angelus Novus, bensì Signora Morte che, affetta da «gravidanza demoniaca», ti ha portato via prima che tu potessi vedere la piena estate, il pieno verdeggiare degli alberi, assaggiare le ciliegie nella tua terra, o forse ti ha portato via in tempo? In tempo per non soffrire ancora di più. Cos’è allora la morte, amico mio, se non un angelo dal cappuccio nero, che quando deve arrivare, arriva. Ma alle volte sbaglia? Indelebile sarà il ricordo di questo caldo martedì mattina di un luglio d’inferno, quando la notizia della tua morte mi ha trafitto il cuore: il mio pianto sul frontespizio del tuo libro, che stringendolo mi diceva  ancora: «A volte dico a Gabriele, non scrivo poesie. Ivan». Sarà veramente così? Voglio però ricordarti com’eri, «pensare che ancora vivi, voglio pensare che ancora mi ascolti e come allora percorri versi per scrivermi e scriverti poesie, per parlarmi ancora». 

Se la poesia è precisamente quel che sfugge ad ogni determinazione, un’aura musicale, un universo di onde radiose, la massima parte delle liriche di Ivan Fassio sembrano conservare l’essenziale di questo spirito esaltante. Esso ha rotto ogni rapporto con le parole e, rifugiandosi in sé, come assente da sé, risale spesso dal fondo dell’essere, dove sono scolpite le cose grigie della vita che vegetano silenziosamente, per traboccare verso dimensioni esterne e incontrollate dello spazio-tempo che ci regge. Ivan era qui, era con noi in questo formicolio del tempo che diviene. Il mondo positivo, che si riversa nel mondo magico della scrittura, mediante le inquietudini e le angosce esistenziali, assume nelle parole di Ivan quasi sempre la portata metafisica di un volo, destinato a raggiungere ora le altezze del sublime, ora gli spazi inesplorati dell’inconscio, personale o collettivo, dove si perdono le certezze ed ha luogo lo smarrimento. Il delirio verbale raggiunge allora il diapason della fede, e la profondità coscienziale dell’uomo, che sogna la sua vita e vive i suoi sogni. Lo spirito di Ivan avverte travolgenti contatti, che lo stringono vertiginosamente in una serie di nessi indefiniti; rinasce in lui l’angoscia degli antichi giorni, dei ricordi polverizzati dalla tragicità del presente, che con le sue apparenze o con le sue realtà non può mascherare l’universo, minaccioso di sempre nuove e travolgenti tempeste. E in una di queste tempeste non ci siamo più incontrati! 

Su questo crinale, Ivan vuole restare, con lo sguardo immerso negli abissi e come armato di una seconda vista, dono dell’amore che è rimasto un tormento, degli affetti che sono stati essenziali in ogni momento, della vita che non è stata se non un in cerca di nuove delusioni, del male assurdo della morte che ci sommerge sempre, dei difetti della vita (dove appare il casuale obiettivo dell’essere per il nulla, dell’essere per la morte di cui è rimasto colpito), che asservono lo spirito ad un bisogno di sterile lontananza, di inutile fuga verso immaginari mondi di felicità. Incomparabile, allora, sarebbe forse la fuga verso i luoghi dell’infanzia, così ricchi di storia, ma soprattutto di miti, il rifugio nella sua territorialità, il suo Piemonte alla deriva: «Dove le vele si gonfiano,/ Quali immagini / Viaggiamo./ Questo noi parliamo:/ Il bocciolo del mondo» (da Il Culto dei Corpi, Quaderno Alphabeto, Raineri Vivaldelli editori Torino,p.61). In tutto questo, non può mancare il ricordo dolente del fare artistico trascinato e perduto, della Signora Arte anch’essa svanita nel nulla, ricordi che si sublimano nel cangiante sfolgorio della natura, del mare, dei monti, delle pianure sterminate, delle tempeste, del vento soprattutto, che possiamo considerare il motivo dominante della scrittura di Ivan, assieme ai tramonti accesi che spaccano l’anima a colpi di rosso ai margini delle lunghe coste «di siti abbandonati ove una dimensione post-industriale, occasione mancata, muore di solitudine», tra un trascorrere del corpo lento, e una tensione di un culto che svanisce. Ma, dopotutto, la realtà della vita sta nel soffrire, in questa lacerante lotta dell’esistenza, tra le fredde stelle inaccessibili, palpitazioni di gemiti notturni, rocche impenetrabili di Dio. Anche Ivan è un espiatore dello spirito, per cui il pensiero di Dio, in questa scrittura affiora pochissime volte, penso che faccia parte solo di una nota dolente nel gran male del mondo, nel tormentoso essere in bilico con se stesso. Questa è la vera realtà: una dolce disperata rassegnazione, che dall’infanzia diroccata ci trascina per tutto l’arco della vita nel fiume tempestoso della consapevolezza della nostra breve vita e nella inspiegabilmente effimera presenza di un essere per il dolore, a cui non è concesso il tempo di vivere quanto l’universo che lo circonda.

In tutte le sue manifestazioni, Ivan ha trovato simmetria e rottura, ordine e catastrofe, sincronicità e sfasatura, ma soprattutto male di cui non riesci a cogliere un perché, una spiegazione. Dalle notti di tempesta solo la morte può salvare. Con la sua quieta pace il poeta delle colline astigiane e della terra delle Langhe, del vento dei ricordi e dei cieli spaziosi e inquieti, il poeta della nostalgia e del bisogno di evadere da una vita limitata, il poeta navigatore e naufrago di sogni, nella morte incontra il suo duro silenzio. 

Io e l’angelo, Gabriele Perretta e Ivan Fassio, Un Hommage Particulier à Alexander Trocchi, Torino, 2018

Ivan Fassio era nato ad Asti nel 1979 ed è morto oggi, 28 luglio 2020, a Torino, dove viveva e lavorava. Laureato in lettere, si “occupa” di arte contemporanea, letteratura, editoria. È stato ideatore e animatore di Spazio Parentesi, uno spazio per la poesia e le pratiche contemporanee, una sorta di galleria fluxus, un flusso di coscienza collettivo, «nomade e/o stanziale, per la libera associazione di idee e la poesia attiva, l’innovazione espositiva e performativa». Per Ivan l’arte era un altro esercizio acrobatico sull’orlo di un abisso, era una sfida al nulla. Il nulla e la minaccia, ma insieme il pungolo e lo stimolo dell’arte stessa. L’arte si spinge fino al limite al di là del quale si estende, inaccessibile, ciò che è al di fuori, e prontamente si ritrae, non appena si sente minacciata e scossa al proprio fondamento. Essa accompagna le giornate a finire e dà la possibilità di morire restando nel mondo. L’arte presente è ciò che ripara e protegge dall’altra morte, questo è il motivo per cui le curatele di Ivan erano sempre temporali, erano sempre tra parentesi. Il ricongiungersi dell’avvenire col passato dell’arte figurativa, al di sopra di ogni presente costituito, finiva nelle sue curatele con il senso e l’esposizione temporanea, il modo per eccellenza di intendere il passaggio del simbolo nello spazio delle cose. Una tra le tante esperienze fantastiche che abbiamo pensato e realizzato insieme, senza disdegnare la pratica dell’anonimato, è stata Agenti del Caos, un evento che ha cercato il collegamento tra gli agenti delle mie culture (anni ‘70) e delle culture di Ivan (anni ‘90). Perseguimmo l’intento di «innestare leve» tecniche mordenti che hanno creato la nuova forza coesiva e i balenii del linguaggio. Organizzare quella mostra, così come organizzavamo i corsi di Sociologia dell’Arte allo Spazio Parentesi, non si trattò, dunque, di coordinare babelici suoni e comizi, ma piuttosto di cercare un senso nelle cose scritte, esposte e performate.

Ciao, caro, amico mio!

Ph. Carola Allemandi, Courtesy Carola Allemandi