Arte Fiera 2025

Il gesto di Barthes (I parte)

Roland Barthes, CARTE SEGNI, catalogo mostra Roma, 1981, a cura di Carmine Benincasa; Esposizione di Roland Barthes Carte Segni. Roma, Palazzo Pallavicini-Rospigliosi, 1981. Milano, Electa, 1981. Il segno di deregolamentazione della forma si manifesta come uno sguardo, come lo sguardo di una tensione che «mi guarda e mette in questione la sovranità del mio occhio». Il punto informe segna un vuoto di visione, un campo perturbato. La scrittura e la pittura, che sono ambedue presenti, vivono dunque un rifugio, ed è qui che consiste il loro enigma e il loro eros, la loro forza o la loro traccia di seduzione. La non immagine del segno e del gesto pittorico non presenta fenditure e incrinature, è levigata sull’inizio dei segni. Oggi i segni delle carte di Barthes sono tutti più o meno informali. Sono trasparenti, non presentano alcun vuoto di visione, alcun buco.

1. L’impero dei segni: Non mi è possibile tentare di definire l’artista e lo scrittore, il poeta e il semiologo, lo scienziato e l’artigiano, ben sapendo che in ogni caso esistono parecchi sottoinsiemi, ciascuno con le proprie soggettività. Sedimentati dalla coazione a produrre (o a prosumere), ci dissociamo sempre di più dal campo dei desideri. Anche dei linguaggi verbali o non verbali facciamo un uso effimero, paranoico e lo facciamo sempre più nell’orda del produrre. In questo modo, il campo dei segni viene costretto a scindere le informazioni dalla comunicazione, o a produrre un «senso fluidocratico» e, così facendo, non abbiamo accesso a forme che risplendono in sé e per sé. I linguaggi verbali e non verbali, quali medium di filtraggio della disinformazione e della faciloneria, della divulgazione prima della scoperta e del non senso, prima che del senso e del controsenso, non espongono alcuna possibilità di evidenziazione, non ammaliano e non aspirano a nessuna tensione utopica. Anche le scritture poetiche sono rigide archi-strutture che si espongono per il puro piacere di esibirsi. Spesso rimproverano che non hanno voglia di comunicare; la cifra di esuberanza dalla quale si estendono, l’architettura ricca di formalismi che fanno percepire, sono enunciazioni di simboli vuoti e ripresi dal ricettacolo del consunto. Nelle fotografie, il linguaggio degli android gioca la sfida della pittura rinascimentale e alla bizzarria del simulacro – ecco perché oggi non vediamo più immagini e icone. Le pitture sono strategiche cerimonie di ammaliamento; il principio pittorico della seconda avanguardia ha riconsegnato al linguaggio l’assenza di piacere, in quanto ha rotto con l’economia del desiderio! Scrittura e pittura non producono, motivo per cui la cifra poetica e la cifra simbolica è la ribellione dalla prassi linguistica, una rivolta contro la sua stessa perimetralità. Nella scrittura si gode dell’esercizio dello scrivere, del suo specchio in ChaT Gpt Prompt. Il linguaggio giornalistico che pervade l’universo di qualsiasi divulgazione e spiegazione non si lascia decifrare: pratica «l’enigma della chiarezza», il principio dell’alienazione quantitativa, che si contrappone al principio del piacere.

Un intenso appiattimento che si lascia generalizzare quale paesaggio dei segni, secondo R.B. rappresenta la “futilità della cosa contenuta e spropositata al lusso dell’involucro”. Secondo il libro di R B che inaugura il decennio ‘70: “l’occhio occidentale è assoggettato a tutta una mitologia dell’anima, centrale e segreta, in cui il fuoco, protetto dalla cavità dell’orbita, irradierebbe in direzione di una esteriorità carnale, sensuale, passionale” (S/Z,1970). Siamo condannati a scambiarci segni inverosimili, “protocolli” svuotati di contenuto (S/Z, 1970), e grafiche che hanno lentamente assimilato ogni forma di metamorfosi del desiderio: placarsi vuol dire perturbarsi! Oggi i segni del groviglio quantico non sono solo riproduzioni, ma anche stereotipi incompresi. Ci caliamo nei segni dell’enigma per essere più appariscenti, più suadenti, più elettrici. Per accellerare l’evoluzione, ci serviamo evidentemente non solo dell’opacità tecnica ma anche del paesaggio simulativo: è possibile che il progresso si basi fondamentalmente su segni immobili? Questa ricerca non è recente, come può sembrare, se già più di un secolo fa, nelle pagine di Stéphane Mallarmé, si diceva: «la carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri / fuggire, fuggire, laggiù…(…) Lasciare i libri, quindi, infrangere lo specchio di carta,/ o meglio, come Alice, attraversarlo …».

Benché il pensiero sulla scrittura sia del tutto coerente e preciso nella formulazione tecnica, è tuttavia impossibile affermare alcunché sullo psichismo degli artisti, perché fra gli intellettuali gli artisti sono quelli che più disdegnano il divano. Sull’origine della parola dipinta siamo abbastanza edotti. Non abbiamo difficoltà a credere che l’artista diffuso, l’operatore mediale delle origini inventò la “grafica parlante” dopo aver a lungo esorcizzato – col segno e col gesto – la physis. Anche l’antenato operatore rupestre contribuì, dunque, a farci esercitare con i grafi della memoria; dal signum al dispositivo simbolico, all’ideogramma fino al semplice alfabeto del razionalismo occidentale, fu la fantasia creativa a suggerirci qualcosa di visivo e di leggibile (per medializzare ed esporre). Il segno come idea fissa, in tutte le salse, fino ad una ripetizione analitica, che solo la tecnica e il raffinatissimo mestiere salvano, e non sempre, dall’interrogatività. A questo profluvio di pezzi anatomici riprodotti con precisione manualistica, a questa ossessione da maniaco intimista, o da glossatore a margine di papiri goliardici, si riduce la massima parte della riflessione sul segno pittorico di R B. L’ idea, in lui assillante, della ricerca gestuale e del nuovo fattore interpretativo è provocato da codesta realtà espositiva che, per essere attinta, deve venire scoperta sgomberando il terreno delle vecchie abitudini. 

La questione della gestualità geroglifica della scrittura-pittura e del “disegnare zero” è una caratteristica della storia dell’arte aniconica, almeno dall’inizio del XX secolo. È sia una pratica creativa che un oggetto centrale per le riflessioni sulla scritto-pittura delle origini. Il più delle volte il gesto informe è concepito come l’espressione di un «immediatismo artistico», che precede l’imperativo della medialità. Per il critico e il semiologo appare come un documento inclassificabile (immedializzabile), che fa luce sulla soggettività dell’artista e sulla genesi del gesto creativo: rende medializzabile (l’nformalità della forma), il grado zero dell’immediato. Per l’artista alla H. Nitsch – che si estende fino all’Orgien Mysterien Theater – è una fonte di ispirazione (fonte dello scarabocchio), che gli permette di riconnettersi con una creatività primordiale perimetrata dai vincoli della superficie visiva e portatrice dell’esigenza di far scoppiare la mimesis. Tuttavia non tutti i pensieri e le pratiche del grado zero della pittura, nel XX sec., si basano su questo elan vital.

Perché «l’io prenda il segno», bisogna che esso mi venga dato dagli altri, in un modo o nell’altro. Ma se il linguaggio del segno è congiunzione, è traccia condivisa, è anche evocazione e interrogazione. Il rapporto con gli altri acquista un’attendibilità solo nel suo riferimento alla materia personale, che il segno scopre in colui che ”segna” (disegna). Per cominciare, l’artista visivo si esprime segnando, cioè si impegna, produce dalla propria sostanza, un po’ come il frutto che spremiamo per estrarne il succo. Il mito del pellicano, che nutre i piccoli con le sue stesse viscere, offre in uno stile più elevato una ripresa della medesima immagine, per convalidare l’espressione poetica.

La funzione espressiva del segno, della traccia pura, dell’algoritmo significante del segno originario, equivale alla sua funzione astratta e decompositiva; esso domina certi aspetti essenziali e nativi della nostra esperienza. Alle origini stesse del fare artistico c’è il punto, la linea e la superficie, l’espressione pura – direbbe Roland Barthes (dopo V. Kandinskij e Paul Klee) – che sembra affermarsi quasi da sola. Il primo grido del bambino è come il primo segno della pittura (l’esperienza informale), poi tutti i suoi esercizi vocali prima del possesso del linguaggio, manifestano la preponderanza della prima persona sulla seconda e sulla terza, così come il colore espande la cromia che sviluppa il vermiglio, un segno, una dominante simbolica. Senza dubbio, il grido è un appello ed è aderente ad una realtà personale, così come il segno del “primordialismo plastico” di Giuseppe Capogrossi (o di Melli e di Cavalli; 1935), vuole aderire in modi diversi alle realtà personali che esso esprime.

Una delle estetiche che si affermano, tra l’inizio e la fine del secondo conflitto mondiale, sarà quella dell’abbandono totale della forma al fine di raggiungere l’espressione del proprio e dei propri sentimenti al di fuori dell’ordine, attraverso il colore, il segno grafico, la gestualità. Roland Barthes in un audacissimo articolo del 1978 su Il grado zero del colore dice: “… disegnare? dipingere? tratteggiare? In realtà ciò che faccio non ha nome: è piuttosto qualcosa di ascrivibile all’ordine della colorazione, del graffito. Non penso sia un sottoprodotto, ma un prodotto laterale, derivato, sebbene resti subordinato, nel bene e nel male, a valori culturali che ho ereditato, senza pensarci, da tutte le pitture o scritture che ho visto. Mi piace produrre di per sé, ma anche poter guardare il prodotto con piacere: ne è prova che se non lo considero riuscito lo getto. Questo mio operare in perdita mantiene dunque, malgrado tutto, una sorta di finalità estetica. Senza illusioni, ma con allegria, gioco a fare l’artista” (in Cos’è … Inediti 1933-80, L’Orma, Roma, 2021, p.145). In America questo gioco aveva preso, già da molto tempo, il nome di «espressionismo astratto» e in Europa di «informale», tra queste situazioni-limite, l’espressione segnica fondamentale è sempre presente come un fattore della colorazione espansa (che arriva fino all’eredità barthesiana), che equilibra il coefficiente di un espressionismo primitivo, selvaggio, basico, ridotto alla potenza dell’immediato. Roland Barthes aveva capito che la funzione di “questa gestualità informe” è che la «si regga e la si legga» nell’esercizio e nella concettualità interna e non che si mitizzi su di essa, come se fosse una grande leggenda iniziata da Pollock. Eseguendo, quei segni delle Carte degli anni ’70, ci si rende conto che si tratta di testi-colore e allo stesso tempo traccie-teoriche della sensibilità; essi dicono attraverso il medium della pittura informe quello che Barthes stesso ha formulato come suo progetto letterario nello stesso periodo in un altro medium: scrivere sulla scrittura e dipingere sulla pittura può essere un tentativo di selezionare il valido dal non valido. Fissare l’esistente basico della pittura, la cui esistenza è diventata ovvia, nella dimensione quotidiana dello scrivere e occuparsi di essa esprimendo con la scrittura e la gestualità primordiale i processi familiari, che si ripetono artisticamente e nei confronti dei quali si è diventati insensibili, significa riappropriarsi di un mondo primigenio che è già per metà dimenticato e farlo rivivere usando lo strumento dei sensi. E non solo dei sensi di colui che lo gestualizza, ma anche di colui che è pronto a comprendere la descrizione del gesto: l’impegno che viene richiesto per questo è compensato da una crescente chiarezza di percezione e di visione, che porta a far sì che, dopo il processo di lettura e di colorazione, occhi e immaginazione si aprano anche per il contesto non descrittivo. Viene data almeno la possibilità di riafferrare, in seguito ad un’esatta e minuziosa descrizione gestuale, le cose nelle quali in precedenza si era incappati in uno stato di cecità e sordità, e di acquistare di ciò che accade una consapevolezza nuova, un senso dell’azione, un senso per ciò che comunemente si chiama lingua o linguaggio.

2. Ancora Carte e Segni: Cinquant’anni fa, Roland Barthes iniziava a lavorare al suo ultimo, immenso, capolavoro incompiuto, il Contro-Ninfee dell’Orangerie, di cui le Carte e i Segni, curati e raccolti da Francois Wahl (in Carte e Segni, a cura di C. Benincasa, 1981) ne mostrano una veduta parziale. Così come vi è un luogo della storia dell’arte moderna che vede nel Monet delle Ninfe monumentali un anticipatore delle ricerche informali che si sono sviluppate in Europa e Stati Uniti nel secondo dopoguerra, potremmo considerare le «tarde ricerche su carta» di R. B. (all’indomani della sua cattedra di Sociologia dei segni, Simboli e rappresentazioni; alla Ecole Pratiques des Hautes Études – Scienze economiche e sociali, 1962) dei silenziosi esercizi di stile. Scrive ne L’ovvio e l’ottuso: “In pittura, come in cucina, bisogna lasciar cadere qualcosa da qualche parte. Nella caduta la materia si trasforma (si deforma): si produce una materia nuova (Il movimento crea la materia, in Requichot e il suo corpo, in L’ovvio e l’ottuso, Saggi Critici lll, Einaudi, Torino, p.212). Secondo Barthes siccome scompare il bisogno di esprimersi in senso compiuto, bisogna che venga raggiunto il gusto stesso di vivere la scrittura e la pittura al di là della sua concretezza comunicativa. “Non ho più una grande curiosità di ciò che la vita può ancora portarmi, afferma in una delle sue ultime pagine André Gide. Ho detto più o meno bene ciò che pensavo di dover dire, e ho paura di ripetermi …” (la NRF, 1951, pp.371/2). Così come il grande autore, costatando di non aver più niente da dire, si pone il problema del suicidio, la generazione degli scrittori e dei pittori del secondo dopoguerra si preparano alla soglia dell’assenza. Così come ogni vecchio si prepara alla morte allenandosi al silenzio definitivo, il “soggetto neutro” di R B si prepara all’extra-tonalità, al passaggio dell’autore in quanto segnicità anonima, in quanto traccia circoscritta dell’indefinito, Ninfa dell’astrazione. L’artista vivo, essere per la scrittura o per la pittura, ha sempre qualcosa da dire, come un contributo alla realtà del mondo, in cui ha il compito di affermarsi.

Come un volto della pittura del tutto privo d’espressione non sarebbe più un volto umano, così tutta la pittura ci appare come un essere in espressione (art brut), cioè come l’origine di intenzioni che gli sono proprie e permettono di trasfigurare l’ambiente circostante.

Parola e pittura dello zero è rivolta in primo luogo al gesto che, istintivo o concettuale che sia (e in questo c’è un superamento del formalismo del non-sense e dell’assolutismo del ready-made), coinvolge mano e corpo. Il desiderio del gesto e del corpo di R B, esce fuori dalla dittatura dell’occhio, in cui casca l’immagine-tempo e l’immagine-movimento di Gilles Deleuze, per concentrarsi concretamente in una logica della sensazione, intesa come produzione di gesti e movimenti minimi e allo stesso tempo capace di una riflessività concettuale che azzera i generi, azzera i supporti, azzera gli strumenti e le combinazioni alchemiche degli elementi: il grado zero della comunicazione mediale. Parola e pittura non sono che uno dei mezzi di espressione dell’assenza di medialità, forse il più perfetto, ma non il solo. La funzione dell’”espressione” “informel” consiste dunque nell’uscire dell’artista da sé, per dare senso al reale. L’espressione zero, il grado zero dell’espressione è l’atto dell’artista che si stabilisce nel mondo autobiografico, cioè che si aggiunge al mondo. Tocca a ciascuno di noi creare il proprio equilibrio o ritrovarlo puntando su tutte le nostre intime risorse quando le Ninfe dello stagno cromatico si pongono al limite. Il linguaggio, con il suo intento cosmico permette dunque il nostro atterraggio. Ha il potere di risistemarsi se ci trovassimo improvvisamente separati dalle nostre abituali sicurezze. Questa è la funzione del “gestualizzare” meno elaborato, in cui l’espressione basica si afferma indipendentemente da ogni intellegibilità, come allo stato neutro. Tutte le varietà dell’Urlo di Munch, l’urlo silenzioso del «sintagma azzerato», della «deissi imperfetta», l’intenzione artaudiana, la bestemmia di Dubuffet, appaiono così come degli sforzi per adattare l’io pittorico ad un mondo che sembra sfuggire. La gestualità, la segnicità, la macchia contenuta nell’esecutivo informe, lo sgomento dell’ipoiconico danno la visibilità all’emozione pura; l’espressione si condensa al suo parossismo di intensità, reazione catastrofica del linguaggio al disastro della seconda guerra mondiale, tentativo disperato di far fronte al disordine delle circostanze, che ci colpisce con un radicale disorientamento. Davanti all’angoscia, alla tortura e alla morte, quando gli uomini non hanno più niente di umano da affermare, se non i «Quaderni neri» e la memoria di Auschwitz, il suo azzeramento rimane la sola testimonianza di cui egli sia ancora capace, in cui si confondono l’invocazione alla comprensione e l’evocazione nel supremo richiamo all’azzeramento; spogliata di qualsiasi altro mezzo, essa non conta ormai altro che sull’efficacia magica della sua gestualità.

3. Segni e Tracce seconde: Ognuno di noi, in ogni cosa che fa, tenta di organizzare o attraversare dei segni. La riproduzione segnica ha infinite dimensioni e tra queste c’è la gestualità pittorica come tentativo di tradurre i significati in tracce di colore e in macchie espanse.

Ognuno di noi «segna un gesto» ma inevitabilmente fallisce. Il pittore non potrà mai intervenire sul modo in cui la sua opera verrà percepita. Non potrà mai essere certo di essere stato percepito. Perché ogni segno e ogni gesto sono eseguiti con la libertà di apparire o di farsi vedere nell’opera come traccia anonima. Testualizzare e percepire sono essi stessi dei segni creativi che producono significato. La domanda contro-autoriale che R B ha sottolineato nella Morte dell’autore, è la seguente: perché continuiamo ad illuderci che quel significato che abbiamo in testa sia lo stesso che ha in testa l’altro? Ma è veramente così? Non sapremo mai se con gli stessi segni e gli stessi gesti intendiamo la stessa cosa. Eppure, è proprio nel dedicarci a quell’esercizio anonimo che è il gesto della medialitá che incessantemente diamo vita a nuovi algoritmi. Questi si accumulano, diventano patrimonio di una rete, si fanno web 4.0.

Non facciamo altro che ri-connettere i gesti, ri-contestualizzare le tracce. Tutto quello che esiste nel gesto futuro è frutto di un gesto passato, fatto di movimento e di cromia. Pochi segni resistono al tempo, perché intercettano uno scopo e così divengono elementi di identità, nuovi profili collettivi. Alcuni li chiudiamo nei Luoghi Espositivi Prestigiosi, nei Parchi Celebrativi, che col tempo divengono solo archivi della svista. Ma sono i segni anonimi i veri musei? Per questo, quando interveniamo con un segno o con un gesto, dovremmo sempre ascoltare le esigenze di chi in quello spazio vive. Se oggi ci guardiamo attorno, vediamo che spesso i segni sono concepiti come dei meri contenitori di carne. Il gesto minimo è diventato consumabile, impermanente. Il nostro segno è sottomesso all’accelerazione: ci manca il tempo, il più grande dei privilegi. Il tempo di tracciare un segno, il tempo di osservare un nostro gesto, il tempo di parlare di quella traccia che vorremmo lasciare. Questo tempo dobbiamo prendercelo. Per questo, il gesto di R B ha qualcosa di seducente: è lavorato con lentezza e resiste allo scorrere del tempo. Quei significati che esprimiamo attraverso le forme, senza mai sapere se siamo davvero riusciti a trasmetterli, consegnandoli allo sguardo degli altri, sono sempre incarnati in una materialità. Dobbiamo imprigionare i significati nella materia, perché viviamo in un mondo sensibile e ci orientiamo attraverso la sensibilità. La responsabilità dello scrittore alla R B è forse quella di provare a fermare il tempo: il colore conosce l’altro colore; e la mano è la propria ombra sul foglio di carta; veramente e realmente, l’angolo di un segno ottuso conosce i due altri angoli, nello stesso senso in cui il blu ha conosciuto il giallo. Ogni cosa che è, da ogni parte, designa ciò senza cui non avrebbe potuto essere. Ciò, dunque, senza cui nulla che sia saprebbe essere: sostengano, per ora, queste parole la nostra idea di traccia. Innanzitutto, è evidente che la parte non può esistere senza il tutto, né tutte le cose senza ciascuna di esse: ed ecco, a chiarire questa interdipendenza, il corpo del segno. C’è, tra i differenti organi che lo compongono, unione di scambio: come dal pennello allo scrittoio, che non vive del loro studio, del loro punto di osservazione; c’è unione di mezzo: come dall’occhio alla cromia, dalla mano all’estetica del segno; unione di proporzione: come tra polvere di colore, pigmento e colla; unione semplicemente di fatto: come tra il barattolo e la spatola, attaccati al medesimo oggetto. Tutti questi rapporti rispondono realmente a diversi ordini di percezione; ce ne sono, fuori da noi stessi, esemplari materiali e operanti. La natura conosce tramite tracce di segno e organicità cromatiche, forme e chiavistelli della visione e il punto minuzioso di sfumatura sul foglio di carta, come noi conosciamo con corrispondenza, teoria, entimema(tengo in mente, considero) e significato letterale. 

L’invenzione della scrittura ha sconvolto il primo universo umano, ha permesso il passaggio ad una nuova età mentale. Non si esagera dicendo che essa costituisce uno dei fattori essenziali della preistoria. La parola aveva dato alle persone il dominio dello spazio immediato; legata alla presenza concreta, essa non può raggiungere nello spazio e nella durata che un orizzonte ristretto, ai limiti fuggevoli della coscienza. La scrittura permette di separare la voce dalla presenza reale, e dunque essa moltiplica la sua portata. Scripta manent, e per questo le parole hanno il potere di fissare il mondo, di stabilizzarlo nella durata, come esse cristallizzano i discorsi e danno forma alla personalità ormai capace di trasformare col suo nome e di affermarsi oltre i limiti della sua incarnazione. Lo scritto consolida la parola. Ne fa un deposito che può aspettare all’infinito la sua riattivazione nelle future coscienze. Il personaggio si mette in posa davanti alle generazioni future, racconta sul basalto, sul granito o sul marmo, la cronaca delle sue gesta eroiche.

In questo modo, l’invenzione della scrittura libera la persona vivente dal regno della tradizione e del “si dice”. Una nuova autorialità nascerà, quella della lettera sostituita al costume, in un ambiente sacro. La prima scrittura, infatti, è magia per le sue prestigiose virtù? I primi caratteri sono geroglifici cioè segni divini, rivelati ai sacerdoti e ai re. Il diritto scritto appare dapprima sulle tavole della legge, che gli dei del cielo comunicano agli uomini. La parola degli dei diventa essa stessa Sacra Scrittura. La scrittura, la lettura sono, dunque, in un primo tempo il monopolio di una casta privilegiata. I letterati formano una élite che si riconosce nell’uso della lingua scritta, specificamente distinta da quella parlata. Nelle parole dello scrittore l’arte sembra rappresentare l’attivatore di un movimento che mira a superare la tradizionale dicotomia tra pensiero ed emozione, dove all’opera d’arte è affidato il compito di una sapiente cucitura tra le manifestazioni fisiche delle emozioni e il pensiero immaginifico in grado di trasformare ed espandere la realtà del gesto.

In questo, R B evoca un’altra nota dicotomia, quella tra parola originaria e traccia cromatica. L’occhio che palpita è dunque felice sintesi di una capacità di elaborazione analitica, che non rinuncia all’emozione che passa dallo sguardo, al corpo e alla mente. La tradizione che affida alla scrittura i caratteri della ferinità si incontra qui con la possibilità di percorrere una strada diversa. Non è forse un caso se, proprio dalle colonne della sua rubrica sull’arte, il semiologo sceglie di richiamare, senza farne menzione esplicita, la nota sequenza della fiaba del colore. Il racconto si inserisce in una riflessione sull’intreccio tra pittura e realtà: quella del mondo circostante, quella delle emozioni, quella dell’immaginazione. Se nella scrittura il personaggio del pittore si fa simbolo di una natura dominata dal progresso, in cui la nevrosi è forma di relazione disarmonica con la realtà, Barthes sembra offrire al suo stesso personaggio, ad anni di distanza, uno spazio di riconciliazione, dove ritessere i fili di una trama armonica e lieve con il mondo. Una riconciliazione che prende corpo proprio tra le righe del suo occhio fiducioso, in cui il segno affiora come le linee di un ricamo e la confusione tra il linguista e il pittore, sottratto al disegno, diviene: scrittura memoriale e finzionale. Il percorso, come si può intuire, non è per niente facile e richiede continue prove “sul campo”, come si dice. Alla base di tutte le “prove” e, in generale, di tutto il lavoro della sottrazione pittorica, c’è un tema che aleggia costantemente, anche quando non è dichiarato e si presenta sotto forma di misura, di taglio prospettico, di colore o di conformazione volumetrica, ed è quello del corpo. L’antica idea di Protagora, che l’uomo fosse misura di ogni cosa, attraversa tutte le azioni del pittore-scrittore, persino quelle che appaiono più lontane dal corpo reale, come le rappresentazioni virtuali.

Oggi egli ha di fronte due dimensioni della corporeità: c’è un corpo “reale”, per

l’osservazione dei bisogni del colorista, delle sue trasformazioni, delle sue misure, e c’è un corpo “virtuale”, che sostiene le rappresentazioni del progetto, con i suoi tagli prospettici, le sue sequenze spaziali, le sue simulazioni segniche e testimoniali. Questi due aspetti della corporeità, che affiancano la nuova intelligenza, post-strutturalista, l’antica metis (l’astuzia), stanno nel progetto di frammento pittorico della nostra contemporaneità. I piani dell’osservazione e della riflessione sul corpo si moltiplicano: le proiezioni virtuali e le “simulazioni segniche” infrangono i confini dello spazio e del tempo, ci fanno passeggiare per le strade di un percorso lungimirante e camminare sul fondo di qualcosa, ma sempre, alla base di quelle ricostruzioni virtuali, c’è la prassi del corpo reale, che stabilisce misure, punti di vista, sequenze percettive. Perché non si scrive mai come si parla – nota il R B – si scrive (o si cerca di scrivere) come gli altri scrivono. La lingua volgare non può assumere la dignità della scrittura. Sino ai giorni nostri la ricerca dello stile è il segno distintivo della lingua scritta, e la minima lettera ci costringe a ricorrere a delle formule prese a prestito, che non si trovano mai nella conversazione: “ … nella scrittura il mio corpo gode a tracciare, a incidere ritmicamente una superficie vergine (è vergine ciò che è infinitamente possibile …) […] l’invenzione è lo sviluppo della scrittura non siano stati determinati dal movimento della storia più imperiosa: la storia sociale e economica. È ben noto che nell’area mediterranea (contrariamente all’area asiatica) la scrittura è nata da imperativi commerciali: lo sviluppo dell’architettura, il bisogno di costituire riserve di grano, hanno obbligato gli uomini a inventare un mezzo per memorizzare gli oggetti necessari a ogni comunità che tenti di gestire il tempo della conservazione e lo spazio della distribuzione. […] La scrittura è stata a lungo uno strumento del segreto: possederla designava un luogo di separazione, di dominio e di trasmissione controllata, la via di un’iniziazione” (preface a R. Druet, H. Grègorìre, La civilitation de l’ecrituré, Fayard Dessain et Tolra, Paris, 1976; ora in Scritti inediti 1933-1980, op.cit., pp. 129-30).

Deriva da ciò, in primo luogo, l’ossatura discorsiva e la configurazione semiotica dei testi. In particolare, deriva da ciò la possibilità stessa di regolamentare la classificazione normativa e repertoriale-istituzionale dei testi e di conseguenza, la possibilità stessa di regolamentare le funzioni della lettura e della scrittura. 

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