Farm 1. Foto di Nadia Castronovo

Il capitale umano: Andrea Bartoli

Non stare passivamente ad aspettare che qualcuno ti finanzi, ma immaginare, sulla base delle risorse disponibili, possibilità di riuso, facendo leva in primo luogo sulla più preziosa: il capitale umano. È questo il segreto di Andrea Bartoli e Florinda Saieva, rispettivamente notaio e avvocato: coppia di coniugi dell’agrigentino che, in dodici anni di lavoro “matto e disperatissimo” ma, a giudicare dai loro sorrisi, estremamente gratificante, sono riusciti a rivitalizzare il centro della città di Favara, privo di abitanti e abbandonato al suo destino, attraverso la Farm: percorso verso il futuro in cui l’arte e l’architettura giocano in prima squadra, determinando un concorso di energie che va ben oltre il contesto locale. Oggi la Farm è esperienza paradigmatica di come luoghi votati alla bellezza e alla cultura siano rinati, e abbiano affidato ai quattro venti i loro semi. Abbiamo ripercorso le tappe salienti di questa grande avventura in una conversazione senza peli sulla lingua con Andrea, soffermandoci in particolare sui fatti più recenti, come l’espansione della Farm a Mazzarino.

Nel marzo 2021 la Farm ha conseguito lo Human City Design Award 2020. Cosa significa questo riconoscimento?

È un premio importante, anche sul versante economico, e che arriva da lontano. Ci è stato conferito dalla città di Seoul e dalla Seoul Design Foundation “per aver contribuito a costruire una relazione più armoniosa e sostenibile tra uomo e uomo, uomo e società, uomo e ambiente, uomo e natura con l’affrontare le questioni ambientali urbane presentando una nuova visione attraverso un design creativo”.

Immagino che un ruolo determinante nella vittoria della Farm lo abbia giocato Countless Cities, la Biennale delle città del mondo.

Countless Cities è il nostro progetto espositivo più ambizioso, ormai alla seconda edizione. Ogni due anni invitiamo municipalità, università, collettivi di artisti, architetti e designer a realizzare un padiglione che rappresenti una città relativamente ai temi scelti per la Biennale. La Biennale diventa quindi uno strumento di consapevolezza straordinario: quest’anno, ad esempio, il Padiglione del Venezuela ci ha mostrato le condizioni di estremo disagio in cui versa Caracas, la loro capitale. In confronto i nostri problemi, alimentari o di mobilità, sono davvero irrisori. Immagina poi quale incredibile tela di rapporti siamo riusciti a intrecciare. Sono particolarmente felice di quelli instaurati con Detroit. Sono stato a Detroit nel 2018, ancor prima dell’esordio di Countless Cities, ospite del Dipartimento di Stato americano. La città, un tempo capitale dell’industria automobilistica, si mostrava spopolata, e con interi quartieri, grandi quanto tutta Palermo, disabitati e degradati. Ma a Detroit conobbi un’associazione, Detroit CDAD, che aveva intrapreso un percorso di placemaking: la stessa cosa che in piccolo è successa a Favara. Da quell’incontro è nato un gemellaggio. Il nostro obiettivo, Covid permettendo, è di costituirci in Detroit Favara Association, creando così una sede permanente della Farm a Detroit, e un’altra di Detroit a Favara: un ponte tra Stati Uniti e Sud Italia che consenta a bambini, studenti, accademici, imprenditori di viaggiare tra i due estremi scambiandosi conoscenze, competenze, buone pratiche. Lo stesso percorso stiamo tracciando tra Favara e Melbourne, con un’associazione australiana.

I problemi di uno spazio integrato come la Farm, e le opportunità che esso offre, non sono poi così diversi da quelli di uno stato. Leggevo l’altro giorno di un bando per una project manager e una head of communication di Prime Minister, la vostra “scuola di politica per giovani donne”. 

Prime Minister nasce a Favara appena tre anni fa. Oggi però le nostre scuole di politica per giovani donne sono diventate tredici, sparse in tutta Italia!

Magari, dopo tanto lavoro, un presidente donna riusciremo a rimediarlo…

Aspireremmo, in realtà, a una “primo ministro”. Ma ci possiamo accontentare.

Fiore all’occhiello della Farm è la SOU, la Scuola di Architettura per bambini. Di che si tratta?

La scuola prende il suo nome da Sou Fujimoto, grandissimo architetto giapponese. I nostri bambini di Favara hanno avuto l’onore e il privilegio di incontrarlo a Parigi nel suo studio nel 2018. SOU vorrebbe insegnare ai bambini a costruire il proprio ambiente a cominciare da chi sta loro intorno. Soprattutto vorrebbe mostrare che niente è impossibile a chi sogna.

“Sognate”, diceva Escrivá de Balaguer, “e la realtà supererà i vostri sogni”.

Quando abbiamo iniziato l’esperienza della Farm, parenti e amici ripetevano che eravamo pazzi, che Favara non era il posto giusto, che non saremmo mai riusciti a cambiarla: si sbagliavano. Favara è la dimostrazione evidente che “cambiare tutto per lasciare tutto come prima” non è un’opzione. Il Gattopardo non abita più qui.

A quando un appuntamento con Obrist, per la prossima intervista?

Uno spot della Farm puntava proprio su questo: i bambini di Favara – e non solo: come Prime Minister, anche SOU si è diffusa in tutta Italia, da Asti a Ostuni – hanno opportunità che i loro colleghi di Milano o New York non hanno. Ed è vero. Ogni settimana accolgono un docente ospite, italiano o straniero. Hanno incontrato Mario Cucinella, Raul Pantaleo… A Londra siamo stati nello studio di Norman Foster. Ricordo che quella volta siamo partiti da Favara in ottantatré, tra bambini, insegnanti e genitori, e siamo rimasti nella capitale del Regno Unito per tre giorni, visitando la Tate, il Royal Institute of British Architects e incontrando gli architetti che stavano lavorando alle Olimpiadi. 

Un posto in prima classe sul volo della cultura. E senza tralasciare l’attivismo politico-ambientale, come testimonia l’esperienza di Human Forest, con l’insediamento di un bosco tra le rovine di un palazzo. Potremmo fare l’elenco delle iniziative che hanno preso l’abbrivio dalla vostra.

Non possiamo che esserne lieti. In un tempo in cui tutti parlano di ambiente ma nessuno fa nulla, ci siamo decisi per la cosa più semplice: piantare un albero. O magari più d’uno. Se gli alberi possono stare in un edificio, perché non nelle strade e nelle piazze delle nostre cittadine?

La Farm è diventata ben presto un centro turistico primario: il principale – correggimi se sbaglio – dell’agrigentino, dove gareggia con la Valle dei Templi… In che modo la crisi epidemica ha influito su questa vocazione? Se all’improvviso il turismo scomparisse, da cosa potremmo ripartire?

Ciò che facciamo lo facciamo anzitutto per noi stessi. Se stiamo bene noi, è anche più facile che vengano turisti a visitarci. Quando siam partiti nel 2010 scopo di Farm era cambiare l’identità del centro di Favara. Cinque anni fa circa ci siamo accorti che quella mission non andava più bene: il nostro obiettivo lo avevamo già raggiunto. Occorreva dunque rilanciare: la nostra nuova mission è migliorare noi stessi migliorando i luoghi nei quali abitiamo. Nessuno verrà a salvare la patria. L’unica strada è rimboccarci le maniche e provare a stare bene dove siamo nati, senza dover per forza scappare lontano.

Riflettevo tempo fa su come la Farm richiami una vecchia tradizione siciliana: quella delle ville romane, poi convertitesi nei castelli medioevali, nei grandi palazzi nobiliari, stile casa del Gattopardo. Luoghi irraggianti arte e cultura, ma che brillano del vuoto circostante. 

Magari la nostra esperienza diventasse normalità! Ma ciò sarà possibile solo nella misura in cui altri comuni cittadini metteranno a disposizione le loro energie, e non necessariamente sul fronte dell’arte o del recupero urbanistico. Nessuno vieta di dedicarsi alla pesca sostenibile o all’artigianato. Se ognuno facesse la sua parte, la Farm farebbe meno notizia, ma le cose cambierebbero alla grande.

Mi pare sia questa la logica della società per le “azioni buone” che avete creato un anno fa. L’idea è quella di impiegare nel sociale una parte degli immani capitali congelati nelle banche. Che riscontro sta avendo?

È un percorso molto lento. A dispetto di quanto ci hanno suggerito comunità economiche più avanzate della nostra, abbiamo voluto si trattasse di un processo democratico. Non ci siamo riservati funzioni decisionali. Abbiamo semplicemente progettato un sistema di condivisione mettendolo a disposizione del territorio. 

Chi va piano va sano e va lontano. Il mese scorso, come le antiche polis, la Farm ha fondato una colonia, volevo dire un’ambasciata, in quel di Mazzarino. La storia continua.

Dopo aver mandato in giro per l’Italia pezzi di Farm come SOU e Prime Minister, adesso portiamo l’intera Farm in altri contesti. L’ambasciata della Farm a Mazzarino, dove intendiamo ospitare consoli, ambasciatori, direttori di museo, è solo il punto di partenza. Sempre a Mazzarino, in partenariato col comune, il prossimo giugno apriremo un altro palazzo, un’altra Farm. Da qui partirà una nuova sperimentazione: Plurals. L’idea è ampliare gli orizzonti dei teenager attraverso uno spazio libero per incontri, una biblioteca di magazine di tutto il mondo, un cinema, un laboratorio artistico e di design.

Speriamo che la rete diventi almeno regionale!

Sono stato ospite proprio oggi di un istituto d’arte a San Cataldo, dal potenziale enorme. Vedrai che in un paio d’anni le Farm in Sicilia saranno quattro o cinque.