Pressoché sconosciuto al grande pubblico, ma questo è un fattore secondario se si pensa a quanti nomi dell’arte sono stati tralasciati o accidentalmente trascurati dai circuiti ufficiali per poi essere ripescati nel corso della storia (un nome tra i tanti? Charlotte Salomon), Graziano Salerno è figura emblematica di un certo perimetro artistico, alimentato da stratagemmi metafisici e surreali, che fa i conti con gli esili eventi del quotidiano, plasmati da una angolazione sovrageografica e sovratemporale.
Sappiamo di lui che è nato a Nuoro il 9 novembre 1954, che giovanissimo (già quando è al collegio di Galanoli, fondato nel 1955 presso Orgosolo) mostra attitudini pittoriche coltivate grazie a don Martino Pinese (un frate camaldolese con buone capacità pittoriche), che ha conseguito il diploma all’Istituto Statale d’Arte di Nuoro nel 1977, che ha studiato pittura a Bologna con Concetto Pozzati e che dopo il quadriennio bolognese dove si diploma nel 1981 e dopo alcuni soggiorni tra Londra e Parigi e Friburgo, è tornato a casa, spinto forse dal desiderio di costruire nuove alleanze o semplicemente nuove avventure, come quella che lo vede a capo del museo-e, in qualità di organizzatore e promotore di un Museo nella Valigia (il museo «come ogni valigia è simbolo di memoria, perché le cose più care si raccolgono in una valigia quando si parte, quando non si ha una dimora, quando si fugge o si emigra»), iniziativa foraggiata dall’aggregazione e arricchita dalla partecipazione attiva di artisti, poeti, musicisti. «L’ho chiamato Museo-e», ha avvisato Salerno in occasione dell’opening, il 23 maggio 2007, «per ribadire, con quella congiunzione alla quale non segue nessuna parola, che non è solo un museo, ma un’opera aperta nel senso più vero del termine, suscettibile di variazioni e di contributi».
Artista colto e raffinato che sceglie come compagni di strada l’immagine e la parola (il disegno e la poesia, il racconto breve e la pittura, all’occorrenza anche la fotografia), Graziano Salerno elabora un vocabolario elementare, con tanto azzurro e verde e ocra, dove il contorno luminoso di un’apparizione diurna sposta continuamente il piatto della bilancia da un fatto reale a uno squisitamente onirico, creando un’architettura discorsiva massicciamente bipolare. Pittore di scrittura o scrittore di pittura, Salerno dà infatti alito a una fantasia senza fili: genera un discorso che fa appunto i conti con oggetti reali o immaginari, esseri o luoghi appartenenti a una memoria ossessionata dalla tensione dell’attesa, da qualcosa che si avvicina e sfugge per farsi ombra e sembianza, profilo incerto di paesaggio, gioco eroico e eretico, pareidolica macchina della visione.
Depositati su album, su foglietti assorbenti e su carte di fortuna, i suoi acquerelli (per la maggiore l’artista produce acquerelli, disegni e chine) sono figli di un unico ininterrotto progetto, di un programma nomade, di un taccuino intermittente che non cade mai nel didascalico o nell’illustrativo, di un catalogo visivo che ha il sapore del Gesamtkunstwerk.
Graziano Salerno, foglio 1, da Storie del cortile infinito o fiaba della bambina e di Gesù, 1985, china acquerellata su carta, 25x20cm, collezione privata, Cagliari.
Graziano Salerno, senza titolo (fiori), 1986, china e acquerello su carta, 29x24cm, collezione privata, Cagliari. Graziano Salerno, senza titolo (paesaggio), 1987, china e acquerello su carta, 25x20cm, collezione privata, Cagliari.
Se si prende in esame l’ampio nucleo di carte realizzate negli anni ottanta e novanta del secolo scorso, tra queste c’è anche Storie del cortile infinito o fiaba della bambina e di Gesù (una storia visiva del 1985 «costituita oltre 500 acquerelli più 250 disegni»), è possibile scorgere un ginepraio di citazioni – ci sono i manichini di de Chirico, i giocattoli di Savinio, le nature morte di Morandi, le erotiche erosioni di Mirò e Dalì e Magritte, le pose di Modigliani e con Modigliani tutta la tradizione pittorica rinascimentale – che avvolgono lo spettatore e lo invitano tra le maree di una memoria (di una terra) sospesa, tra rebus visivi che sollecitano i sensi, trabocchetti che spronano la mente. PseudoPinocchi, atmosfere acquee, ghirigori pulsanti, lettere alfabetiche ridotte a mute sagome, dirigibili e eliche, corpi volanti e corpi-dimore-in-movimento, case e casette, vertigini, esseri multipenici e alberi sezionati o antropomorfizzati con rami falliformi turgidi e tellurici che ricordano Les Onze Mille Verges ou les amours d’un Hospodar (1907) di Apollinaire, ma senza alcun omicidio sull’Orient Express: sono parte di un bestiario perfetto e autentico, di un piccolo manuale fantabotanico e ornitologico e zoologico, di un automatismo parzialmente controllato, di un sistema letargico che ruota attorno a se stesso, di un teatro interiore dove tutto può apparire.
Graziano Salerno, senza titolo, 1985, china acquerellata su carta, 25x20cm, collezione privata, Cagliari. Graziano Salerno, senza titolo, 1987, china su carta, 25x20cm, collezione privata, Cagliari.
Anche quando la vena più strettamente letteraria prende il sopravvento sulla trasparenza del disegno – un disegno spezzato che si offre mediante linee sgualcite, frammentate, a tratti liquefatte – la forza visionaria e evocatrice che si assapora nel lavoro di Salerno mantiene lo stesso lirismo compositivo, infligge la stessa ferita al crudo riconoscimento oggettuale, poiché usa i medesimi dispositivi del lavoro onirico (spostamento, condensazione) e non depenna dal proprio equipaggiamento l’arma preferita di Šklovskij, l’artificio dell’ostranenie.
La leggenda dell’uomo liberato (racconto breve del 1992), Sans regarder (un piccolo saggio di ricerca pittorica con commento poetico del 1996) e la Lacrima di treno (componimento del 2007 tradotto in spagnolo, francese, inglese e tedesco) testimoniano questa sua vena totalizzante, questo desiderio di abbracciare a largo raggio, anche se non in maniera sistematica quanto piuttosto intervallata da silenzi e ripensamenti, uno spettro scrittovisivo la cui retorica interna spiazza, porta a deragliamenti – come non ricordare Verso l’incanto (1991), Fanciulli in fiore (1991) e il Fanciullo sospeso (1991), opere pittoriche in cui corpi legnosi e grandi occhi dalla sclera blu sembrano prosciugare lo sguardo di chi guarda, spingere verso un altrove irresistibile, senza peso e carico vuoto – dove è programmata la nascita del sogno ad occhi aperti.
Spinta oltre i bordi della realtà che si finge solida e sicura, l’opera di Salerno (felice il triennio 1985-1987) è un congegno riflessivo e introspettivo tutto da scoprire, un ingranaggio dalla forte valenza espressionistica che, con i suoi marerbosi, mi si lasci passare questo vocabolo dannunziano, avviluppa chiunque lo guardi, fino a fargli perdere le tracce del tempo, fino a far sciogliere i nodi di luoghi o di spazi, fino a lasciare vivo nella memoria il ricordo del ricordo.
Graziano Salerno, senza titolo (paesaggio), 1985, china acquerellata su carta, 25x20cm, collezione privata, Cagliari. Graziano Salerno, senza titolo (pinocchio), 1985, china acquerellata su carta, 25x20cm, collezione privata, Cagliari.