Arco Madrid 2025
Giancarlo Limoni

Giancarlo Limoni

È venuto a mancare Giancarlo Limoni. Roberto Gramiccia ricorda l’artista e l’amico con uno scritto sul suo lavoro apparso oltre vent’anni fa ma ancora attuale.

Quando lo chiamano il “pittore romano dei fiori” Giancarlo Limoni non si offende. Non solo perché dalla pittura pompeiana, al Caravaggio delle nature morte, al Mafai variante “fiori secchi”, (senza contare il Van Gogh dei girasoli e, soprattutto, il Monet delle ninfee), corolle, petali e pistilli sono protagonisti assoluti; non si offende anche, e forse soprattutto, perché per lui i fiori sono un pretesto per liberare un virtuosismo pittorico che può essere spettacolare.

Limoni, come molti romani, è pigro. Si tratta di una pigrizia particolare però, che ha a che vedere con l’ozio degli antichi, e prevede, per statuto, anche fulminanti risvegli. Gli stessi che consentirono ai romani molti secoli or sono di costruire – primi nel mondo – le cloache massime e gli acquedotti, i fori e gli stadi dei gladiatori. E ancora, di realizzare meraviglie nell’arte, nella poesia, nella letteratura, nel diritto. O compiere imprese di conquista e di dominio terribili e grandiose. Da Giulio Cesare, a Lucrezio, a Gioacchino Belli, a Moravia, a Mafai, a Scipione, c’è nei romani autentici il gusto del piacere e della sosta ma anche, quando occorre, la disponibilità alla disciplina e alla fatica.

Giancarlo Limoni se ha in programma di cucinare una “amatriciana”, è capace di fare chilometri a piedi per andare a comprare il pecorino a via Del Governo Vecchio, in pieno centro. Poi può stare seduto un giorno intero fermo, come un gatto al sole, e non alzarsi dalla poltrona anche se fuori c’è il terremoto. Parlarti per ore di Robespierre o della Guerra di Spagna o delle Scuole romane, sfoggiando una cultura sorprendente e poi distrarsi irrimediabilmente, fino a quando non sfodera un’ironia abrasiva capace di scorticare qualsiasi avversario. Tuttavia non si tratta di virtù personali, piuttosto di quel che resta delle pubbliche virtù di una “civitas” che, intendiamoci, ha anche i suoi difetti. 

Ma l’interesse principale di Limoni è la pittura e della pittura il colore, che nelle sue mani diventa materia sontuosa. I suoi fiori sono bassorilievi ad olio tempestati di ansia. E l’ansia è quella di chi vuole superarsi ogni volta. Questo pittore è il giudice più severo del suo lavoro. Mentre commenta con parole scarne le quindici tele di formato medio e grande, esposte assieme a una selezione di acquarelli deliziosi, nella galleria di Francesco Moschini di via dei Banchi Vecchi a Roma, preferisce soffermarsi quasi unicamente sui tempi di esecuzione. Qualche minuto per gli acquerelli. Cinque anni per “Lo stagno”, dal 1998 al 2003.

Non conta il tempo, però, conta la qualità, testimone fedele della maestria. Quella bravura antica che si tramanda da secoli e oggi è a rischio di estinzione. Di questa qualità Giancarlo è testimone e generoso dispensatore. Per questo la sua pittura è antiminimale e corposa, sontuosamente convulsa e generosa, autonoma ed emancipata da ogni obbligo di fedele rappresentazione tanto che non potresti, se non a fatica, definirla strettamente figurativa.

Da anni Limoni, infaticabile lettore, studia i principi del pensiero orientale, credo più in contrasto con la sua vera natura, sanguigna ed epicurea, che per una disposizione d’animo ascetica e spirituale. Lui vorrebbe diventare contemplativo. Essere con il suo lavoro silenziosamente “parte del tutto”. Forse per questo i suoi quadri non hanno né inizio né fine. Sono pieni e unitari, solo primo piano senza sfondo, niente di più o di meno importante. 

Ma poi, nonostante gli sforzi, riemerge il romano, con l’urgenza del gesto intenzionale risolutore ed esemplare. Con lo spessore antiascetico del colore urlato, come una scopata clamorosa. Con la speranza di trovare una soluzione qui ed ora: un passaggio smarcante che tagli in due la difesa. Una cosa che resti nell’eterno presente dell’arte. Poi, se sei a Roma, puoi concederti il lusso di una sosta, accenderti una sigaretta e non pensare a niente.