Gemütlichkeit: Dario Orphée La Mendola

Durante la pandemia, il nostro Dario Orphée La Mendola e Mario Margani hanno realizzato una rassegna virtuale di “beni di conforto” che ha come immagine-simbolo un carrello della spesa: Gemütlichkeit. In tempi di inflazione dilagante, gli ho rivolto alcune domande sul senso della mostra e in generale sull’arte contemporanea, tra mercato e biennali.

Se cerco Gemütlichkeit su Internet mi appare un camino… perché avete adottato questa parola tedesca come titolo di una mostra virtuale?

Quando con Mario Margani (che ringrazio, perché è stato il vero curatore di questo prezioso catalogo, definendo tutti gli aspetti legati alla sua compilazione e alla sua pubblicazione) ci trovammo al punto di dover dare un titolo, ebbi poche scelte vista la scarsità di sostantivi della lingua italiana nell’essere capace a definire, adeguatamente, le cosiddette “atmosfere sentimentali”. La lingua italiana, buona solo a esprimere (e sponsorizzare) un rigido sistema grammaticale, sta pian piano diventando come l’inglese: adatta soltanto a nominare le “cose” del mercato e dell’intrattenimento. Ritornando al titolo del catalogo, quando dovetti scegliere con Mario, la mia domanda fu: in quale concetto tradurre ciò che l’umanità (quella ricca, è chiaro) ha vissuto durante la pandemia? Mi venne un’immagine in mente: la gente ipnotizzata, che cantava affacciata dalla finestra, che osserva il mondo malato di Covid e in decomposizione, e che tuttavia aveva il culo desideroso di stendersi su un comodo e caldo divano. Ebbene, mi confrontai con Mario, il quale conosce il tedesco, e venne fuori Gemütlichkeit. Questa parola ha — più o meno— il significato che cercavo. Avremmo potuto comunque scegliere una parola cinese, oppure una in sanscrito. O magari inventarla. Però, chi l’avrebbe capita? Oggi farsi capire è estremamente difficile. Dunque meglio non farsi capire con una parola in tedesco, che starmene giorni a spiegare un concetto. 

Alla vostra rassegna hanno preso parte tanti artisti, italiani e stranieri. Come li avete selezionati?

Semplicemente, abbiamo organizzato una call. Alcuni artisti hanno risposto immediatamente, proponendo idee che, in breve, sono riusciti a esprimere in qualcosa di concreto e spesso commovente. Altri, almeno la maggioranza da me interpellata, voleva, come è tipico degli artisti, che gli spianassi dinanzi un tappeto rosso e che, probabilmente, facessi loro da paggetto. A costoro, anche qui semplicemente, li mandai a quel paese (credo che tu lo sappia: molti artisti sono davvero convinti di essere indispensabili o scelti dalla natura per chissà quale progetto). 

I vostri testi introduttivi – un titolo per tutti Caro D(i)ario – sembrano lettere d’amore. Avete mai litigato su un artista o un’interpretazione?

L’amore non esiste. Esiste la fortuna. Se hai fortuna, ami; se non ce l’hai, muori. E no, non abbiamo mai litigato su un artista. Litigare per un artista, o per l’arte, è da idioti. Non ne vale la pena. L’unico litigio che posso ammettere è per l’ultimo pezzo di pane o per l’ultima goccia di acqua sulla Terra. Ma conoscendomi, non credo che litigherei per questo. Tanto, se è l’ultimo pezzo di pane o l’ultima goccia di acqua, litigare serve a poco, come sempre. Serve amare, credo. Anche se l’amore non esiste. Esiste la fortuna. Bisognerebbe creare una scienza che studia la fortuna. Scopriremmo tanti aspetti della vita, e tanti altri aspetti cadrebbero. La scienza della fortuna è una scienza insurrezionale. Non sarà mai fondata. 

La vostra mostra è stata una risposta alla clausura pandemica. Il mondo dell’arte da allora è cambiato?

No, non è stata una risposta. È stata una domanda, almeno per quanto mi riguarda. Una domanda precisa, rivolta a quelle cadaveriche bestie che noi esseri umani siamo. La domanda è stata: che cavolo stiamo facendo, ora che abbiamo l’opportunità di comprendere (e non cambiare) l’esistenza e il mondo? Ovviamente nulla. Perché nulla è il pensiero umano, nulla era l’arte prima della pandemia, nulla è stata durante, e, visti i presupposti, nulla (o meno di nulla) sarà in futuro. Lo so che a ciò mi si potrebbe obiettare che, forse, do all’arte più di quanto l’arte è e può fare. Ma se l’arte non comprende e non entra nell’esistenza e nel mondo, allora non capisco cosa ci stia a fare nell’esistenza e nel mondo, dato che ci sono argomenti molto più importanti (per esempio, uno tra tutti, le modalità con cui scegliamo di sopravvivere — e la modalità che abbiamo scelto da secoli è, inoltre, la più fallimentare —). Se l’arte deve rimanere quello che è oggi, che faccia qualcosa di intelligente: piuttosto di raccontare i gusti e il destino dell’umanità, cambi il suo nome. Ne suggerisco uno: “spettacolo”, oppure “divertimento aristocratico per chi guadagna abbastanza”. Dai, siamo seri. Anzi, no. L’arte è una delle tante forme disperate (e non la più interessante, tra l’altro) di autodistruzione che l’umanità possiede da sempre, e che ha costantemente dimostrato nel corso della sua breve e misera storia evolutiva. Se proprio devo cercare di non evadere la tua domanda, affermerei che una risposta al mondo la daranno gli insetti: loro sì che sono importanti. Al contrario degli uomini e delle donne, del denaro e dell’arte non gliene importa nulla, e sopravvivono con una cultura che è perfettamente adattata e compatibile all’ambiente. Chiaramente c’è ancora un po’ di arte autentica, e lo sarà finché nessuno se ne occuperà (e ne sono certo che nessuno se ne occuperà, poiché è eccessivamente spontanea, non crea “ricchezza” e distrugge le gerarchie). Si tratta della satira e del circo, le quali sono quasi la stessa cosa e vanno in giro mano nella mano. E dico la satira vera e il circo vero, non quelle sciocchezze alle quali assistiamo ogni giorno. 

Nel regno del pluralismo e del politicamente corretto, la peste la fame e la guerra vi hanno offerto qualche spunto che vi piacerebbe approfondire?

A me no. Il regno nel quale ci troviamo, che tende alla grazia economica e ha dimenticato l’ironia anarchica, è stato utile soltanto a farmi capire che devo stare lontano dall’arte e concentrarmi su altro, tipo il compostaggio o i nomi delle nuvole. L’arte è un frutto marcio, senza semi, che rende marci, un frutto che inacidisce e che falsifica e avvelena le relazioni umane. Non è un caso se quelli che vivono nel mondo dell’arte si odiano e fingono di stimarsi. Sto notando che, superata la pandemia, artisti, critici e curatori continuano ad affannarsi a produrre manco fossero farmacisti o ecologi. Non capiscono che quello che fanno è secondario, privo di consistenza, totalmente inutile in un regno come il nostro che presto vedrà la fine umana (mi correggo: la fine dell’umanità povera). Non capiscono che quello che fanno non importa a nessuno, esclusi loro stessi. Ma a chi vuoi che importi che quell’opera sia così, che quella mostra sia elegante, che quel libro racconti qualcosa? Importa se c’è un premio dietro; importa, come accade nell’arte e nello spettacolo in generale, se c’è una corte di ruffiani che scodinzolano simili a barboncini. Per ragioni biologiche, l’umanità non può che tenere a ciò che nel nostro corpo è distribuito dallo stomaco in giù; a noi interessa unicamente il potere ed essere governati; interessa che i nostri sentimenti diventino logici, e che nessuno li metta in contraddizione; interessa lo stipendio, interessa essere un oggetto, interessa la merce da possedere e da mostrare, una moralità con cui fare la guerra, e infine una bella pensione. Qualcuno dovrebbe dirglielo, agli artisti, ai critici e ai curatori: altrimenti rischiano di diventare ridicoli (che sia questo il loro scopo?). Glielo direi io. Ma me non danno ascolto, perché gli sto antipatico. Se così non fosse, adesso starei dietro una cattedra a dire cosa è giusto e cosa è sbagliato, a dire cosa è bello e cosa è brutto, a dire soddisfatto: “Sono integrato nella società, ho un posto più alto rispetto alla massa senza anima, e sto contribuendo al miglioramento dell’umanità: quanto sono bravo?”. E invece sono qui a mettere sottosopra le mie parole. Anche questo, a chi vuoi che importi?